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martedì 29 ottobre 2013
Marco Pacori I Segreti dell'Intelligenza Corporea - Libro
'Ci pensa Rocco', Siffredi da icona hard a guru delle coppie in crisi su...
RADICAL CHIC DI MINO DE SANTIS NELLA NUOVA COMPILATION REALIZZATA DA PUGLIA SOUNDS E XL DI REPUBBLICA
In uscita giovedì 31 ottobre in
allegato a XL di Repubblica - Il brano “Radical Chic” di Mino De Santis, tratto
dal suo recentissimo album “Muddhriche”, edito da Ululati, etichetta
discografica di Lupo Editore, è stato selezionato per la nuova compilation
realizzata da Puglia Sounds e XL di Repubblica, che sarà in edicola giovedì 31
ottobre in allegato gratuito al numero di novembre 2013 della rivista musicale.
La compilation, distribuita in tutte le edicole italiane, contiene 17 brani
selezionati da Luca Valtorta, direttore di XL, tratti da dischi di artisti
pugliesi pubblicati negli ultimi 12 mesi. La scelta di “Radical Chic” non è
casuale, infatti, il brano si caratterizza per un testo dai tratti ironici e
pungenti, nel quale il cantautore salentino non esita a mettere alla berlina un
certo intellettualismo sterile, che a volte caratterizza una certa sinistra.
Emerge così una critica, senza mezzi termini, a quanti “uomini e donne liberi
dal bisogno, con le spalle sempre coperte da papà”, “gente distinta e raffinata/figli di una
sinistra acculturata/che mangia, parla, beve, scrive e fa opinione ma aspetta
il popolo per la rivoluzione” disquisendo per ore “sui mali della terra, sulla
miseria, sulla povertà”, come della “Palestina, la vivisezione, e poi il
buddismo la contro religione. L’islam, la pace, i clandestini”, ed immancabile
“poi la buona cucina”. “Radical Chic” è un esempio, dunque, di come il
songwriting di Mino De Santis, partendo dalle radici della cultura salentina,
si sia aperto verso un immaginario poetico e critico orientato verso temi di
rilevanza sociale e politica.
Muddhriche, il disco
“Chi si nutrirà di queste
muddhriche, che lascio qui? Non sono gli avanzi, non sono gli scarti della
vita, queste note. Sono il dono di chi mi ha cresciuto, mi ha allevato, mi ha
librato nell’aria. “T’aggiu crisciutu cu lu pane e senza pane, muddhrica
muddrica. Ti ho tirato su con tutto lo zelo possibile”. Risuona ancora nelle
mie orecchie. Perché queste sono le briciole, ma sono anche il mio nutrimento, sono
ciò che mi ha insegnato ad accontentarmi e godere delle cose piccole e belle.
Come gli uccelli, che vivono un’esistenza intera appagati dai manuzzuli, così
ho imparato a far tesoro di quello che la storia mi ha voluto regalare. Ci
hanno lasciato le briciole, dice qualcuno, ma noi, uomini del sud, tanimu lu
coriu tostu e de le muddhriche nde facimu pane”. Mino De Santis
Ogni qual volta si ascolta Mino
De Santis, si hanno ben chiare le sue radici, la sua storia, le origini
musicali e i suoi ascolti al juke box. La voce e l'ironia amara di De Andrè, ma
anche l'impegno di Stefano Rosso o la compostezza di Paolo Conte. Ma per non
abbandonarsi a facili semplificazioni, bisogna fermarsi un attimo e rimettere
play.
Mino De Santis è a tutti gli
effetti un fuoriclasse, unico nel suo genere perché ama ancora raccontare e lo
fa come potrebbe fare un fotografo con le sue istantanee, un pittore
impressionista nel fermare tutto su una tela o il saggio del paese nel riferire
vizi e virtù della sua gente. Con dovizia e ironia.
Anche in questo terzo album
"Muddhriche" prodotto dall'etichetta Ululati (Lupo Editore) si
raccolgono piccoli momenti di vita quotidiana, come fossero proprio molliche
minute ed essenziali, messe insieme per farne pane e nutrimento. Ci sono le "macchiette",
i personaggi del paese: "Lu prete" scaltro e smaliziato o la "La
bizoca e la svergognata", apparentemente diverse ma "le stesse e
l'hanno sempre saputo".
C'è la bellezza e la malinconia
degli "Anni" passati tra casa, chiesa e sogni di libertà ma anche il
sud amaro dei "Pezzenti"(feat. Nando Popu / Sud Sound System), quegli
immigrati trattati come animali tra "patruni e capurali", senza
diritti o assistenza, pagati venti euro alla giornata me definiti lo stesso
invasori.
E tra mandolino e fisarmonica, si
continua a raccontare di quei "Radical chic", quelli bravi a dare
definizioni, che hanno così poco da dire ma tanto da parlare.
A poco a poco le
"Muddhriche" compongono il quadro di un uomo che, come ben
rappresentato dalla copertina del disco, dall'alto, osserva, riconosce, cerca
di individuare quelle briciole, le piccole cose che continuano a dargli
godimento. È un carnevale di personaggi e situazioni, dove si respira a pieni
polmoni l'aria scanzonata di un bonaccio che ama quello che compone perché è il
suo modo di continuare a credere al sogno di anarchia.
Tracklist
1.Anni - 2. Fiche cu le mendule - 3. Radical chic - 4. Sutta ‘na
chianta te chiapperu - 5. Lu preute - 6. Porta verde - 7. La pizzoca e la
sbergugnata - 8. Ieu fazzu gezz - 9. Certi culi - 10. Pezzenti (feat. Nandu
Popu) 11.Arbulu te ulie (bonus track)
Mino De Santis, note biografiche
Mino De Santis - La poesia di
Fabrizio De Andrè, il ritmo di Paolo Conte, l’ironia “eretica” di Giorgio
Gaber, il racconto disincantato di Stefano Rosso, una passione per la big band
alla Renzo Arbore. Tutto questo in un solo cantautore: Mino De Santis. Molti di
voi si stanno chiedendo certo chi sia
mai costui. I programmi televisivi non lo ospitano e le radio commerciali
nazionali non trasmettono le sue canzoni
eppure stiamo parlando di un artista di valore eccezionale. Quando si racconta
la biografia di un artista spesso si comincia dicendo “da giovane fece il
minatore”, come Tom Jones, oppure “ha lavorato in fabbrica”, per Mino De Santis
bisogna usare ancora il presente indicativo e dire: quando non fa concerti fa
l’imbianchino oppure il contadino, accettando un po’ tutti i lavori che ha
sempre fatto per vivere. Mino non è un ragazzino, è un quarantenne che ha
sempre scritto canzoni principalmente per se stesso, per i suoi amici, per quel
irrefrenabile bisogno di “raccontare la vita” che ogni vero artista sente
bruciare dentro. Solo 3 anni fa fa ha
prodotto il suo primo cd “scarcagnizzu”, venduto solo attraverso i suoi
concerti, passato di mano in mano mentre le sue canzoni era possibile
ascoltarle su you tube. A distanza di un
anno nel 2012 esce l'album
"Caminante" accompagnato dal
videoclip di 8 minuti ( quasi un corto) "Lu ccumpagnamentu" diretto
dal Regista Gianni De Blasi. A luglio 2013 esce "Muddriche" ed è la
seconda produzione della nuova etichetta "Ululati" di Lupo editore,
anche in questo caso è stato prodotto un videoclip con la partecipazione di
Alessandro Haber e Nandu Popu dei Sud Soun System per il singolo "pezzenti"
.
Un florilegio critico
“Un artista da seguire…”
(Vincenzo Mollica, DoReCiackGulp! RaiUno)
“E’ un carnevale di personaggi e
situazioni, dove si respira a pieni polmoni l’aria scanzonata di un bonaccio
che ama quello che compone perché è il suo modo di continuare a credere al
sogno di anarchia” (Raffaella De Donato)
“Allo sguardo di De Santis nulla
sfugge, non un gesto, non una parola” (Raffaele Gorgoni, Tg3)
“Mino De Santis si fa notare per
la sua verve ironica, da Gaber saletino” (Tommaso Ricci, Tg2)
“Attraversarsi le note come
spettatore disincantato tra parole abusate e “tipi” di ogni giorno. Cerchi una
briciola che nutra e la trovi nelle parole-musica, nei treni in partenza, nei
colori di un fiore antico, nella voce calda, in un amore” (Sandrina Schito)
"Il Salento trova nuove
parole, quelle puntute, del graffio autoriale. Anarchiche quanto basta per
tener desto l'animo e l'occhio allo sguardo: quello dritto, che mai s'inchina e
fa riverenza. Mino De Santis è così, ama il ridere, il soffio e lo spiffero.
(Mauro Marino)
Mino De Santis è un ascolto che
il tempo e la pratica portano a metabolizzare. Non è la risata di turno ciò che
arriva e resta. Ma un ondulato senso di profondità che scolpisce immagini nella
memoria e libera l'ascolto dalla superficialità attorno (Erika Sorrenti e
Francesco Aprile)
Mino ha scritto una pagina di
canzone popolare vera, del popolo del Salento che si libera dalla pur splendida
prigionia del tamburello, dell'organetto e del violino e approda ad un
linguaggio nuovo, fatto di dialetto e di italiano colto al volo, masticato,
rimasticato e sputato fuori in una nuova forma di colostro, vero alimento con
il quale crescere i piccoli. Musica accattivante, di uno che sa suonare la
chitarra, la lascia nei suoi accordi semplici, quasi ondeggianti come un
materassino gonfiabile sulla bonaccia (Pino De Luca)
Autoironico e impietoso … lo
definirei un "verista" per come descrive la realtà sociale e
soprattutto quella di tanta umanità. Ha il suo modo singolare di vedere la
realtà e di declinarla in versi. E' un sognatore ingenuo e intellettualmente
onesto. Insofferente a qualsiasi regola, non scenderebbe mai a compromessi, ha
l'anima libera e resta anarchico anche quando non sarebbe il caso. Ha una
singolare genialità, un'autentica vena artistica che differisce da qualsiasi
accomodante musicalità "popolare" oggi cosi volgarmente e
insopportabilmente stereotipata (Giuseppe De Santis)
LUPO EDITORE
Via Monteroni Esterna, CP 93
73043 Copertino (Le)
Tel. 0832.949510
Fax 0832.937767
info@lupoeditore.it
twitter:
facebook:
lunedì 28 ottobre 2013
Claudio Trupiano Grazie Dottor Hamer
domenica 27 ottobre 2013
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Robert O. Young, Shelley Redford Young Il Miracolo del PH Alcalino
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sabato 26 ottobre 2013
IL LIBRO DELL’AMORE PROIBITO DI MARIO DESIATI (MONDADORI). In libreria!
Francesco, detto Veleno, timido e
solitario, fino ai quattordici anni è vissuto immaginando vite eroiche e
ammirando i coetanei più intraprendenti. Il suo universo quotidiano, nel paese
pugliese dove vive, è quello della scuola, con regole e muri che sembrano fatti
per essere invalicabili, non certo per nascondere gioie proibite. Fino
all’incontro con Donatella Telesca, professoressa di Educazione tecnica. Lei ha
il doppio degli anni di Veleno, eppure veste in modo più simile a lui e ai suoi
amici Mimmo e Nappi che alle altre insegnanti. Ha la pelle candida, ma nasconde
un’ombra che agisce come una calamita sui suoi giovani allievi, siede tra i
banchi, ascolta i ragazzi, li guarda come nessuno ha mai fatto prima. Nasce
un’attrazione irresistibile, destinata a essere scoperta nel clamore dello
scandalo. Veleno scopre allora una solitudine più profonda, l’isolamento di chi
supera la linea d’ombra dei sentimenti leciti, e contro la famiglia, contro la
norma che gli impedisce di amare, costruisce il suo onore, il futuro, la sua
legge che non umilia né separa. Veleno saprà aspettare, costruirà tutto intorno
al silenzio dell’attesa, e con gli occhi rinnovati dal desiderio si accorgerà
di essere circondato da amori che sono tali proprio perché proibiti... Scritto
per frammenti affilati come gli spigoli d’ombra che si stagliano nel sole del
Sud, rapsodico ed emozionante come la memoria di una stagione perduta, Il libro
dell’amore proibito è un romanzo sul desiderio, sugli amori impossibili e la
cieca, folle fedeltà a un sentimento che non ha barriere
MARIO DESIATI (1977), è cresciuto
a Martina Franca e vive a Roma. Ha pubblicato la raccolta di poesie Le luci
gialle della contraerea (Lietocolle 2004, Premio Viareggio per l'opera prima).
Come narratore ha esordito nel 2003 con Neppure quando è notte (peQuod) e ha
pubblicato in seguito, con Mondadori, Vita precaria e amore eterno (2006), Il
paese delle spose infelici (2008) e Ternitti (2011, finalista Premio Strega).
COLLANA Omnibus italiani
PAGINE 200
PREZZO 17,50 euro
Un estratto - “Se voi della
giuria non ritenete le vostre passioni al di sopra di ogni divieto, vuol dire
che non avete mai amato. Non avevo l’età per simili certezze quando, il primo
giorno di terza media, fui invitato dal professore di Storia e Geografia a
sedermi nel primo banco assieme al pluriripetente e scapestrato Cosimo Nappi.
Da tale trascurabile azione sarebbe poi scaturita una serie di eventi
conflagrati nello scandalo cittadino di tutti gli anni a seguire. Per
raccontarvelo sono venuto nel luogo delle mie preghiere, laddove mi arrovello
su bellezza e desiderio. Quando sono in imbarazzo faccio un gioco
d’immaginazione e penso di stare tra i banchi di una chiesetta, un posto in cui
m’inebrio di una delle tante forme d’amore che ho imparato a scoprire, nascoste
agli occhi di voi giurati, uomini retti immuni da ogni scandalo, e forse
passione. In questo rifugio torna incessante un insegnamento che serbo come un
gioiello antico tramandato dai miei antenati. Quando ero bambino restavo a
lungo da solo. Una volta, eravamo nei nostri trulli, mia nonna Comasia, dopo
avermi condotto innanzi a un muro, mi confidò che se volevo conoscere fino in
fondo cos’era la gioia avrei dovuto trovare un ostacolo da scavalcare. Ero
cresciuto circondato da mura, chiuso in casa o nel recinto di pietre a secco
della campagna in cui vivevamo durante l’estate. Avevo imparato a farmele
amiche. Amavo i muri che dividevano la vigna dalla strada. Costruiti pietra su
pietra senza malta o stucco, erano mondi a parte perché tra gli interstizi
vivevano bisce, lucertole, scoiattoli, porcospini, colonie di formiche che
disegnavano percorsi insondabili, rovi di more e cespugli di corbezzoli. E così
quel muretto a secco alto un metro e mezzo era la vita. Il segreto più
importante che mia nonna rivelò indicando l’erba rampicante che da terra
risaliva lungo la pariete era proprio lì davanti ai miei occhi. E, con
l’autenticità di certi insegnamenti che arrivano a segno quando sono impartiti
senza piena consapevolezza, disse: «Prendi la gioia più grande, l’amore.
L’amore è come l’edera, ha bisogno di un muro per crescere». La via nera di
pietra lavica sale verso il porticato, sulla sinistra uno spigolo di calce
bianca sorvegliato da un lampione di ferro battuto. La porticina somiglia a una
bocca e la facciata a un tetragono monolite dell’Isola di Pasqua. Varcato
l’ingresso della chiesa, nella navata spicca la sobria solennità dei semplici:
stucchi, noce e incenso. I banchi smaltati scintillano, l’altare di pietra
d’Apricena acceca, un pulpito di legno nasconde una scaletta. Percorrendola si
arriva alla postazione dell’organo elettrico. La chiesa è dedicata
all’Addolorata. Cercatela pure con lo sguardo, ma non troverete nessuna statua della
Madonna. È il tesoro, e come tutti i forzieri preziosi viene tenuto lontano da
occhi indiscreti e soprattutto infedeli. L’Addolorata è una cappella di
identiche dimensioni della chiesa, un perfetto doppione costruito pietra su
pietra, sedile su sedile, altare su altare, e addirittura tabernacolo su
tabernacolo. Vi si accede da una scala segreta dietro una parete mobile, con
gradini così ripidi da doversi aiutare con le mani. Chi mi precede assume la
posizione di un alpinista o uno scimmione, non di un fedele. Il corrimano pare
una pertica, il soffitto basso incombe con la gravità delle caverne. La
cappella al piano superiore è azzurra, forse chi l’ha dipinta ha pensato che
fosse meno distante dal cielo. I banchi sono verni ciati d’azzurro e anche il
soffitto è azzurro, come il mozzetto – il copricapo che indossano i confratelli
nelle lunghe, estenuanti processioni. L’altare è bianco, una lastra di
superficie candida, effetto ghiaccio, posata su un tronco di legno glitterato.
Accanto all’altare, una grande teca di legno, ancora azzurra, e lì Maria
Addolorata. È una donna sui venticinque anni, non sembra addolorata, ma altera,
una smorfia sulle labbra, lo sguardo avanti, l’acconciatura del velo nero che
si articola in una dozzina di pieghe, i pizzi e i broccati che avvolgono le
spalle e scendono sul busto e sulle gambe con l’esuberanza di una colata d’oro
fuso. Indossa il mantello viola che richiama il tempo ordinario dell’anno
ecclesiastico. Ogni mese due uomini salgono nella chiesa azzurra, preparano la
celebrazione della domenica successiva, che si svolgerà a piano terra. La messa
qui è un rito speciale, partecipano soltanto i maschi più vigorosi della
congrega, gli stessi dotati della forza e resistenza necessarie per trasportare
la statua della Madonna lungo la processione al termine della Quaresima, che
dura due giorni. Sono votati ai Dolori di Maria, come dichiara il decreto
istitutivo dell’oratorio. I due uomini che si stanno per occupare della
manutenzione della statua sono entrambi volontari di un’associazione di
genieri. Hanno con sé una valigia, da lì estraggono robe che profumano di
sapone e pulito, le depongono sulla prima panca sotto l’altare. Aprono il chiavistello
di ferro della teca e, mentre la portafinestra si spalanca con un cigolio,
trascinano fuori Maria Addolorata per spogliarla. Compiono i gesti con
lentezza, immettono in ogni movimento una precisione che per loro è devozione.
Il mantello, i broccati d’oro, i pizzi, l’abito cadono giù, la statua resta
nuda, sembra il manichino di un supermercato, ha perduto il fascino e lo
sguardo altero. Il miracolo della statua è nei vestiti che indossa. Il
sacerdote ha fatto irruzione, «No» li rimprovera. «Vestitela abbasc’» comanda
ai confratelli senza rivolgere uno sguardo alla Regina, intimorito di poterla
vedere senza abiti. I due uomini sono tarchiati, rubizzi. Stavano al
radiocomando dell’Italsider, guidavano il carroponte, sovrintendevano agli
spostamenti all’interno della fabbrica, hanno visto alcuni loro amici tranciati
dalle lame d’acciaio nella notte. Si sono votati in tempo all’amore mariano,
prima che calasse la lama della sorte. Affidarsi all’Addolorata per loro è una
religione, dedicarsi alla cura di una statua di legno e dei suoi vestiti. La
pregano, si segnano e portano quei vestiti impregnati di umido, incenso,
polvere alla moglie o alla madre. Se la messa è abbasc’, a loro spetta un
compito che pochissimi uomini riescono a portare a termine. Produce
inquietudine e un piccolo, segreto piacere da non condividere: il senso di
responsabilità, compiere un gesto che nessuno deve conoscere. La Madonna è
troppo alta per passare per le scale, e i genieri la spostano al centro della
chiesa azzurra, nello spazio tra l’altare e i banchi, uno le tiene ferme le
gambe, l’altro l’avvolge con le braccia, come volesse danzare con lei. Il
geniere più anziano vive da solo, si è consacrato a Maria, l’unica donna della
sua vita. La sua dedizione sfocia quasi nella mania che hanno i solitari, i
puri di cuore, i pazzi. Le dà un bacio alle ginocchia, poi l’altro spinge il
corpo. S’avverte un colpo secco, il giro in senso antiorario, la statua che stride.
L’uomo che tiene in basso le gambe suda, abbracciato al mistero che nei giorni
della settimana santa percorre la città e fa segnare migliaia di uomini e
donne. L’uomo consacrato a Maria sta facendo girare il busto dal bacino, che
ruota fino a svitarsi. I respiri dei due maschi si fanno concitati e pesanti,
il fiato caldo della fatica è come se arrivasse sotto forma di vapore alle mie
narici, mi scalda i capillari del viso. Maria Addolorata è divisa in due,
smontata, il meccanismo carrucolare in mostra, un dente di legno che spunta dal
grembo aperto. L’uomo in ginocchio, innanzi alle gambe di Maria, non è
consacrato alla Madonna come l’altro confratello anziano, ha una moglie, una
sorella e dei nipoti. Uno sono io, assisto alla vestizione e alla scomposizione
della Maria Vergine Addolorata da anni. Sin dalla prima volta, quando ero un
bambino, ho imparato che esistono amori impossibili, ma talmente grandi e
innominabili che non si possono spiegare. L’uomo tremante davanti a Maria
Vergine Addolorata, che ogni anno nelle feste di devozione si veste con un
sacco bianco e la mozzetta azzurra, la corda stretta in vita, è innamorato di
una statua, ma non potrà mai raccontarlo a nessuno. Deve accontentarsi di metterlo
in scena durante la settimana santa.”
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