È in libreria solo dall’altro giorno, e già si parla del nuovo romanzo di Mario Desiati, Ternitti (Mondadori, Milano 2011, pp. 264, euro 18,50) come di uno dei libri dell’anno, probabile candidato al premio Strega. Una soddisfazione, per lo scrittore di Martina Franca, trentaquattro anni il mese prossimo, che a Roma s’è ritagliato uno spazio ragguardevole nel mondo dell’editoria. In queste settimane sono in corso le riprese del film, diretto da Pippo Mezzapesa, tratto dal precedente romanzo, Il paese delle spose infelici. Un buon momento, insomma, per Desiati, che con quest’ultima prova dimostra la misura di un narratore ormai sicuro e consapevole.
Desiati, come ha lavorato a questo romanzo, in cui l’economia della scrittura del reale lascia alitare un respiro epico ed idillico?
«È un libro che scrivo da cinque anni, ma con molta parsimonia, direi quasi una pagina al giorno. Negli ultimi tre anni, ogni mattino, ho scritto un pezzettino della storia di Mimì. Ho consegnato il romanzo soltanto quando ho avuto la certezza che la storia fosse pronta. C’era già tutto da questa estate, c’era il finale, c’erano le varie quadrature del cerchio, ma mancava qualcosa e quel qualcosa era un pezzo di Cesare Brandi sulle pietre di Puglia. Mi ha permesso di capire che noi pugliesi viviamo davvero su un ossario e che i muri a secco, i trulli e le pajare di cui parlo tanto nel romanzo, contro altri materiali come il cemento, siano niente altro che le anime morte che dopo secoli si ritrovano e si riaggregano nelle costruzioni a secco».
Come è arrivato al titolo?
«Ternitti in dialetto vuol dire anche tetto. Il dialetto ha questi prodigi dalla sua e mi ha permesso di intitolare questo romanzo così, perché ha una piega importante il tetto di una fabbrica per la storia di Mimì. In principio il libro doveva chiamarsi Eterno. Ma, avendo scritto Vita Precaria e Amore Eterno risultava ridondante».
Già ne «Il paese delle spose infelici» la figura femminile muoveva l’azione. Ma qui è centrale: una sorta di vicenda matriarcale che da Rosanna a Mimì ad Arianna indica un’ipotesi di redenzione, al femminile, per il nostro Sud…
«Credo che l’unica speranza in questo paese sia che oggi le donne prendano il potere, ma lo prendano davvero senza intermediazioni maschili come le quote rose. Non è un caso che in Italia al momento sia in atto un conflitto di genere più che i soliti conflitti generazionali, e che i maschi che governano a tutti i livelli siano maschere di un machismo che declina verso il patetico. Mimì è come la reduce di una guerra, perché l’amianto poco alla volta le sottrae le persone vicine o le inquina. La peste non la contagia con il male dei polmoni, ma con quello del cuore e dei sentimenti. E attraverso le difficoltà diventa più forte, come tante ragazze del sud italiano dopo il secondo conflitto mondiale».
Leuca, Lucugnano, Tricase e altri luoghi tracciano nel libro una mappa del Salento sospesa tra memoria e presente: a quale Italia ci conduce?
«A quella di Don Tonino Bello: ci sono migliaia, milioni di cose in quel pezzo di terra. Per me è un po’ una patria interiore, che amo soprattutto d’inverno quando i paesi profumano di camino».
È in corso la lavorazione del film dal penultimo romanzo. L'approdo cinematografico ha condizionato la scrittura di quest’ultimo?
«Per niente! Sono due mondi e due lavori diversi. Se uno scrittore scrive una storia perché pensa che diventi un film ha proprio sbagliato mestiere. Il romanzo è mio, il film è di Pippo Mezzapesa. Per me sarà uno shock emotivo non da poco vedere i tre protagonisti in carne e ossa, perché in Veleno, Zazà e Annalisa c’è veramente un pezzo grande della mia storia personale. Ho già prenotato l’analista…».
(intervista a cura di Enzo Mansueto - pubblicata su autorizzazione del curatore - tratta dal Corriere del Mezzogiorno del 2 aprile 2011 a pag.19)