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lunedì 1 novembre 2010
J.A.S.T di Lorenza Ghinelli, Daniele Rudoni, Simone Sarasso (Marsilio)
Le origini della Cabala di Joseph Leon Blau a cura di Fabrizio Lelli (Edizioni Controluce)
Cosa sappiamo in realtà della Cabalà? Possiamo provare a definirne i confini, a perimetrarne le eventuali eccedenze, procedendo per esclusioni e inclusioni di contenuti che magari potrebbero indurre a confusione, ma sempre sarà difficile farne un ritratto esaustivo. Facciamo riferimento innanzitutto ad una forma di sapienza che riguarda la mistica e la spiritualità, che attinge il suo sapere dalla Bibbia ebraica. Questa forma di sapienza consegna a quanti vi si avvicinano insegnamenti di altissimo valore e profondità, indispensabili ad intraprendere un percorso di gioia alla ricerca di Dio e della Verità. Questo sapere, è un propulsore eccellente per l’interiorità dell’uomo, nel senso che è in grado di sostenere un completo processo di trasformazione consapevole che può portare l’uomo alla Verità assoluta. Ma non solo … La Cabalà con la sua dottrina può unificare i molteplici modi coi quali scienza e religione decodificano la creazione e la vita. Alla scienza la Cabalà insegna l’essere umili, insegna l'importanza dell’evoluzione dell'essere umano, l'apertura e l'elasticità mentale, le affascinanti profondità degli insegnamenti spirituali, e molto molto di più! Le edizioni Controluce ora danno alle stampe uno splendido lavoro di Joseph Leon Blau, pubblicato negli Stati Uniti, e per la precisione a New York, nel 1944. Questo lavoro affronta in maniera scientifica la Cabbalà, cercando di mettere per un po’ da parte gli aspetti magico/esoterici, e portando nuova luce a tutta quella interpretazione cristiano /rinascimentale di questo sapere, ancora oggi oggetto di facili critiche e numerose malversazioni. Ma grazie ad un’attenta ricerca sulle fonti e sui testi da parte dell’autore, “Le origini della Cabbalà” è destinata ad essere un’opera di sicuro successo. Blau considera l’evoluzione della dottrina fiorita nell’Europa occidentale alla fine del XV secolo, dai suoi primi “vagiti” ancora radicati nel pensiero cabbalistico ebraico medievale e contemporaneo, fino alle opere ormai pienamente autonome degli inizi del XVII secolo. Nel volume sono presenti numerose testimonianze di una multiforme produzione letteraria trascurata dalla ricerca accademica, che fino a non poco tempo fa ha considerato la Cabbalà – sia quella ebraica che quella cristiana – alla stregua di un groviglio ciarlatanesco di miti e leggende più consono a un pubblico infervorato dall’amore per le scienze occulte. La ricostruzione filologica del Blau ri/consegna a questa dottrina il ruolo di potente strumento alla base della ricerca intellettuale del Rinascimento europeo, nonché la sua funzione significativa per il rinnovamento dell’ermeneutica testuale moderna e per la formulazione di nuovi criteri di accesso alla conoscenza universale.
Joseph Leon Blau (1909-1986), insigne studioso americano di storia e pensiero ebraico, è stato docente nel dipartimento di studi religiosi della Columbia University di New York dal 1944 al 1977. Tra le sue principali pubblicazioni menzioniamo: Men and Movements in American Philosophy (1952); The Story of Jewish Philosophy (1962); The Jews of the United States, 1790-1840 (curato con S. Baron, 1963); Judaism in America (1976).
Fabrizio Lelli insegna lingua e letteratura ebraica all’Università del Salento. Si occupa principalmente delle tradizioni cabbalistiche ebraiche fiorite nell'Italia del Rinascimento. Ricordiamo le edizioni da lui curate: Yo’anan Alemanno, ‘ay ha-‘olamim (L’Immortale). Parte I: la Retorica (1995); Eliyyah 'ayyim ben Binyamin da Genazzano, La lettera preziosa (Iggeret Êamudot) (2002). Ha inoltre curato l’edizione italiana dei saggi di M. Idel, Cabbalà: nuove prospettive (1996); Id., Mistici messianici (2004); Id., La Cabbalà in Italia (1280-1510) (2007).
domenica 31 ottobre 2010
Il libro del giorno: Streghe di Carlo Codacci Pisanelli (Libellula edizioni)
Nel presente volume sono stati raccolti i risultati di una ricerca sul campo che, dopo un attento riesame e snellimento del testo, si vuole restituire alla gente del Salento, come un prezioso bagaglio culturale costituito dai coloriti racconti trovati e registrati.L’ obiettivo della ricerca si è focalizzato sulla figura delle macàre e sulle loro attività magiche, ricostruite attraverso i racconti della tradizione orale contadina.
Dai racconti di un recente passato, che risale agli anni del dopoguerra, si passa ad un’analisi degli attuali maghi e guaritori, cercando di rinvenire un filo conduttore fra le antiche e le moderne pratiche magiche.Il materiale etnografico raccolto ci ha portato a seguire tre linee guida principali: i racconti sulle macàre e le loro capacità di trasformarsi in animali; i racconti su fatture, malocchi e macarìe; le attività terapeutiche. La figura delle macàre si presenta come un’immagine poliedrica dalle varie sfaccettature sulla quale si riflettono le problematiche della società contadina del dopoguerra. Allo stessotempo, però, le macàre, nel loro ruolo di mediatrici culturali si presentano come le detentrici di un antico sapere simbolico e le uniche capaci di ristabilire situazioni al limite dell’ordinario e e di restituire un ordine alla realtà.
The Shadow effect – il potere del nostro lato oscuro a cura di Deepak Chopra, Debbie Ford, Marianne Williamson (Sperling e Kupfer)
sabato 30 ottobre 2010
Il libro del giorno: Il Diacono di Andrea G. Colombo (Gargoyle Books)
Sino a oggi, i varchi erano tenuti sotto controllo da una Volonta' più alta e da un delicato equilibrio di forze. Ma come predetto dalle profezie, l’equilibrio e' stato spezzato e qualcosa di estremamente pericoloso e' riuscito a passare. Qualcosa di cosi' antico da non aver lasciato negli uomini neppure il ricordo di se'.
E'in mezzo a noi, ora, e si trascina dietro tutto l’orrore che per millenni e' stato faticosamente tenuto alla larga da questa realta'. Forse non c’e' piu' alcuna via d’uscita. Forse non c’e' abbastanza Bene sulla Terra per contrastare tutta la malvagita' che sta per contaminare questo mondo.
Forse, la salvezza e' nelle mani di un monaco senza memoria, senza nome, senza passato. Un uomo la cui vita e potere sono un enigma che deve essere risolto in fretta, prima che sia troppo tardi. I suoi confratelli lo chiamano semplicemente Diacono ed e' il piu' pericoloso e temuto esorcista che sia mai apparso sulla Terra, dai tempi di Gesu' Cristo.
Non resta piu' molto tempo ormai. Lo scontro finale e' prossimo. Non ci sara' alcuna pieta'. Per nessuno. Il tempo della mietitura e' giunto.
L’eroe dei due mari – di Giuliano Pavone (Marsilio X, 2010, 303 pagine, 17 euro)
Per parlare dell’Italia di oggi non si può prescindere dall’essere acidi, e un po’ malevoli, visto che tra “guardonismo” televisivo e “bunga bunga” vari il senso della perdita di orientamento è plausibile. In Italia la letteratura degli ultimi anni ha prodotto molti “beautiful monsters” dalla corrente “Gioventù cannibale” di Daniele Brolli sino al rigore del collettivo Wu Ming, per non parlare del fetish hard core di una Isabella Santacroce. E poi ci sono ancora i romanzi di Gaetano Cappelli, Niccolò Ammaniti e Melissa P. Ma esiste anche una geografia del sentire letterario, che ad esempio vede in Puglia la baresità di un “Capatosta” di Beppe Lopez edito ora da Besa, e la Taranto de “Il Paese delle spose infelici” di Mario Desiati. Ma ora la casa editrice Marsilio ci dice che Taranto è la città anche di Giuliano Pavone che pubblica “L’eroe dei due mari”. Il libro è una folta selva di anedotti, storie e malumori che si agitano sotto la cappa di una città massivamente decadente e velenosamente italsiderea. Metafora di quello che accade oggi nel nostro Paese? Sicuramente, ma vediamo di entrare nello specifico. Un evento improvviso, immenso e dalla portata quasi galattica sconvolge la città della Marina Militare: Luìs Cristaldi, fuoriclasse brasiliano dell’Inter, vuole mantenere fede ad un voto singolare e bizzarro. Luìs Cristaldi vuole giocare una stagione, GRATIS, nel Taranto, piccola squadra della C1 ripescata in B per chissà quale scherzo del destino, e che ora giustamente sogna la A. L’esaltazione dei tifosi tarantini raggiunge livelli parossistici, tanto da lambire anche porzioni della società civile addirittura lontane dal calcio e da tutto il suo mondo fatto di miliardi, pubblicità e “pubbicità veliniche”. Si tratta di un libro scritto non solo bene, ma che fornisce diverse chiavi di lettura e dunque può essere letto a più livelli: si parla di Puglia in maniera poeticisima; si parla di voglia di farcela partendo proprio dal mondo del calcio calato in contesti socio/economici non proprio floridi; si parla di malesseri non troppo latenti che raccontano di personaggi strani, scapestrati, scavezzacollo vari e multicolori, di disoccupazione, di margini e marginalità; si parla di giornalismo sportivo con i suoi se e i suoi ma … Fondamentalmente Giuliano Pavone ci regala una brillante narrazione che può leggersi come una parodia di una parodia della commedia all’italiana, ma che lascia un po’ di amarezza, una volta terminato il libro, perché la lucidità con cui vengono descritte quelle latitudini rivela come non tutta la sporcizia può essere nascosta sotto il tappeto … naturalmente chi ha orecchie per intendere …
venerdì 29 ottobre 2010
Il libro del giorno: Umberto Eco. L’uomo che sapeva troppo per le edizioni ETS. A cura di Sandro Montalto
"Umberto Eco. L’uomo che sapeva troppo" a cura di Sandro Montalto.
Paolo Bertetti, Sandra Debenedetti Stow, Paolo Fabbri, Gio Ferri, Margherita Ganeri, Sandro Montalto, Gianni Vattimo, Franco Cardini, Paolo Isotta, Giulio Andreotti, Eugenio Carmi, Maurizio Costanzo, Paolo Domenico Malvinni, Renzo Paris, Aldo Rosselli, Paolo De Benedetti, Pier Paolo Ottonello, Ennio Peres, Giuseppe Varaldo, Achille Varzi, Philip Weller, Gianluca Salvatori, Enrico Solito.
L’estrema libertà è la principale virtù (altri diranno: difetto) di questo libro, nato per omaggiare Umberto Eco al di là di ogni occasione accademica o genetliaco. Libro errante – come errante è il pensiero di Eco – non pretende di rendere conto della vastità degli interessi del professore, nonché dei suoi contatti, delle sue collaborazioni, dei debiti che il mondo culturale in genere ha con lui, grazie alla sua attività vorticosa ma equilibrata, caratterizzata da arguta intelligenza, ma anche da luciferina rapidità di intuizione. L’unico impulso a collaborare al progetto da parte degli autori è la volontà di omaggiare un pensatore con rilassato piacere e senza affanni. Per questo motivo essi sono solo una minima parte di coloro i quali avrebbero voluto (e potuto) farlo. Per lo stesso motivo alcuni campi di interesse del Nostro non vengono trattati, mentre altri fanno diverse comparse sotto diverse ottiche. Sempre in virtù della grande libertà che attraversa le pagine di questo libro, accade poi che alcuni illustri autori si siano espressi sconfinando dal loro abituale ambito di competenza, il che giova molto a un volume come questo.
IL SUD DEL PRIMO 900, LE DONNE E IL DESTINO NEGATO. INTERVENTO DI ROBERTO MARTALO'
giovedì 28 ottobre 2010
Il libro del giorno: Persecuzione. Il fuoco amico dei ricordi di Alessandro Piperno (Mondadori)
Cicatrici, di Gianluca Morozzi (Guanda). Intervento di Nunzio Festa
mercoledì 27 ottobre 2010
Il libro del giorno: Lo scrittoio e il proscenio. Scritti letterari e teatrali di Piero Gobetti a cura di Guido Davico Bonino (Edizioni Controluce)
Con Lo scrittoio e il proscenio. Scritti letterari e teatrali viene avviato un progetto di Opere scelte in tre volumi di Piero Gobetti (1901-1926). Il primo volume raccoglie, come il sottotitolo esplicita, un’argomentata e ampia antologia di interventi di questo grande intellettuale e pensatore politico, prematuramente scomparso per mano del regime fascista, sia sul fronte della letteratura che su quello del teatro. Attraverso le tre riviste dirette e fondate da questo febbrile “operatore culturale” nell’arco di sette anni – dal novembre 1918 alla morte a Parigi nel febbraio 1926 – Gobetti interviene sui nodi cruciali dell’attività letteraria ed editoriale italiana (fu, com’è noto, editore in proprio) – dal vocianesimo al futurismo, dalla “scoperta” dei narratori russi a quella degli scandinavi – e, succeduto come critico teatrale ad Antonio Gramsci sul torinese “Ordine Nuovo”, sulla tirannia dei primattori, come il positivista Ermete Zacconi, sull’esigua tradizione italiana, su Pirandello e i grotteschi, sino alla precoce valutazione del teatro francese di ricerca, da Paul Fort a Lugné-Poe ad Antoine.
Il volume, curato da Guido Davico Bonino, già docente di Storia del Teatro all’Ateneo torinese, è arricchito da una sua ampia introduzione.
Fanfarije, di Assunta Finiguerra. Prefazione di Franco Loi (LietoColle). Intervento di Nunzio Festa
martedì 26 ottobre 2010
Il libro del giorno: Dimmi chi sei, Marlowe di Frank Spada (Robin edizioni)
Sequenze da film e colpi di scena, tra richiami letterari e acrobatiche metafore, non ultima quella che vede il detective con la sua baby alla tempia, mentre il jazz della West Coast si fa più acuto…
La casa editrice Kurumuny finalista al Premio Internazionale "Cesare De Lollis con 1968: Una storia in Salento di Gianni Bosio e Chiara Longhini
La giuria del Premio Internazionale "Cesare De Lollis" giunto all'ottava edizione ha reso noto i titoli delle opere finaliste che concorreranno all'assegnazione del primo premio. Le opere finaliste per la sezione narrativa sono: La prima notte solo con te di Arnaldo Colasanti (Mondadori); Fare scene di Domenico Starnone (Minimum fax), Eva dorme di Francesca Melandri (Mondadori), Rosso Floyd di Michele Mari (Einaudi), Le rondini di Montecassino di Helena Janeczek (Guanda), Devozione di Antonella Lattanzi (Einaudi), Vento di tramontana di Carmelo Sardo (Mondadori), Storia della mia purezza di Francesco Piccolo (Mondadori), Una terra spaccata di Emilia Bersabea Cirillo (Edizioni San Paolo), L'anno delle ceneri di Giuseppe Schillaci (Nutrimenti).
Per la sezione saggistica le opere finaliste sono: Senza vergogna di Marco Belpoliti (Guanda), Pane nostro di Predrag Matvejevic (Garzanti), Il mare in un imbuto di Gian Luigi Beccaria (Einaudi), Il mostro mite di Raffaele Simone (Garzanti), Città flessibili di Corrado Poli (Instar libri), La fiamma rossa di Gianni Mura (Minimum fax), Filosofia fuori le mura di Giuseppe Ferraro (Filema), Il mio circuito si chiama Paradiso di Carlo Nesti (Edizioni San Paolo), 1968: Una storia in Salento di Gianni Bosio e Chiara Longhini (Kurumuny Ed.), Breviario di italiano di Lucio D'Arcangelo (Solfanelli).
Sul passaggio – L’indugiare poetico nei versi di Anastasia Leo (Il suono dell'orologio, Luca Pensa Editore). Intervento di Eliana Forcignanò
Vi è nel ticchettio degli orologi l’ossessione martellante del tempo che scorre e che questi strumenti sono chiamati a misurare, a quantificare e, nel contempo, a segnare come già stato: un autentico paradosso sancire con un’emissione di suono e, dunque, con un movimento vitale – sebbene meccanico – la morte, il non più. Quando l’ora scocca, l’ora è fuggita e già Aurelio Agostino rifletteva sulla dimensione effimera del tempo: il futuro non è ancora e il presente trapassa subito nel passato, che cosa rimane se non il carpe diem di oraziana memoria, l’invito a cogliere la rosa prima che appassisca perché, come scriveva Mimnermo, siamo come le foglie che il vento disperde nello spazio di un soffio. Dì là dalle citazioni colte, esistono uomini e donne che sono o si percepiscono profondamente inadatti a vivere l’attimo: si tratta di soggetti che hanno un respiro più lungo dell’istante, la cui profonda esigenza è quella di raccogliersi estasiati dinanzi alla bellezza anche per una durata indefinita e di trincerarsi nella propria interiorità a meditare sulle inspiegabili epifanie del male per un tempo che non conosce limiti – ciò che, nel linguaggio comune, si definisce “ruminazione” – né interruzioni. Inspiegabili le epifanie del male perché il male è accidente nella persona non sostanza: qui si potrebbe obiettare che ciascuno è in grado di compiere il male e che, dopo la cacciata dall’Eden, l’umanità si trova in una condizione peccaminosa sulla quale soltanto la Grazia può intervenire, ma, allora, perché, nel ricevere il male, si soffre in maniera così accanita fino a volerlo allontanare e respingere? Se il male fosse sostanza umana, esso non dovrebbe generare tanta sofferenza nell’uomo, benché la stessa ragione, che pure appartiene alla sostanza dell’uomo, procuri talvolta sofferenza e tedio esistenziale. Forse, il male è accidente necessario cui nessuno può sottrarsi né come artefice né come vittima. Nemmeno alla morte possiamo sottrarci, ma questo non vuol dire che la accettiamo, che rinunciamo a interrogarci su di essa e a includerla nel novero dei mali anche se morire significa esser uomini, scrivere la parola fine lì dove vi è stato un inizio, anche se si tratta di una scrittura dolorosa che non vorremmo mai vergare sul foglio. Foscolo sapeva che tutto ha fine, ma quando anche gli avelli saranno erosi dal tempo, rimarrà pur sempre la poesia a esortare chi la legge o la ascolta al compimento delle “egregie cose”. Magra consolazione per i contemporanei ora che le “egregie cose” in cui impegnarsi sono finite, ammesso che, in passato, ce ne siano state in abbondanza. Si torna, così, al discorso avviato in precedenza: meglio vivere l’attimo, godere il meglio del tempo che ci è dato e non stare a interrogarsi troppo sul futuro. Progetti a lunga scadenza avvelenano l’animo perché è impossibile sapere se si realizzeranno o meno e l’attesa esacerba la pazienza, sfianca la fiducia, devasta le energie o, almeno, così accade ai più che abdicano ai loro sogni in favore di un’esistenza tranquilla e improntata al godimento delle gioie domestiche. Alcuni – pochi in verità – spiriti preferiscono l’attesa al compimento: attendere significa donare un respiro lungo alla realtà, sorbire l’agrodolce dell’immaginario, incontrare altre attese, talvolta venate di quella piacevole trepidazione che avvolge come una coltre e mantiene vivo il calore di una speranza immalinconita appena dal timore di non raggiungere mai la meta. È la storia del viandante che cammina per raggiungere la dimora dell’amata lasciata tanto tempo prima: calpestando il suolo passo dopo passo, si chiede se la donna lo aspetti serbando intatta la memoria dell’ultimo amplesso e, intanto, lui stesso ricorda il tempo trascorso insieme e si compiace di ricordarlo in maniera così nitida, quasi fosse scolpito nella sua mente. Accanto alla speranza si aggiunge il ricordo nel quale l’attesa si discioglie e si prolunga fino a divenire, nelle vicende d’amore, languore e struggimento. Tornano alla mente i carmi dei poeti ellenistici composti dinanzi alla porta chiusa dell’amata: anche in questo caso, le liriche nascono dall’attesa che i battenti si aprano al desiderio dell’amante. E il connubio di amore e morte è sempre presente nella poesia di ogni tempo, perché la poesia si colloca nel tempo: ogni istante che passa, ogni istante che trascorre senza che la porta dell’amata si dischiuda è un istante donato alla morte.
Sembra che, nei suoi versi d’esordio, Anastasia Leo (Il suono dell’orologio, Lecce 2010) abbia ben presenti queste tematiche: tempo, male di vivere, amore, morte. Il tempo che scorre inesorabile – “La vita fugge e non s’arresta un’ora” – è un tropo della tradizione poetica e letteraria internazionale: di assolutamente proprio e peculiare, nella poesia di Anastasia, vi è l’inserto di figure familiari che negano l’avvicinamento dell’ora fatidica. “La vecchia nonnina” intenta a raccontare storielle e il padre “che non si rendeva conto” – o, forse, che non gradiva rendersi conto – dell’incedere della “età oscura”, età che rimane ambigua, indefinita. Considerando la giovane età dell’autrice – Anastasia frequenta il liceo – si potrebbe credere, a tutta prima, che “età oscura” sia l’adolescenza anche se la contiguità con la parola “morte” e con il “mantello nero” che avviluppa le parole e le avvolge come in un sudario lasciano presagire un’altra fase della vita, quella prossima al trapasso. Non fa meraviglia che a questo componimento ne segua un secondo sulle “parole senza senso degli uomini”: proferire frasi che non hanno senso – là dove non si tratta di nonsensi poetici, bensì di frasi dette per superficialità, per incapacità di attendere e valutare gli esiti di un discorso o di un processo vitale – è un modo non per ingannare il tempo, bensì per smarrirlo, per disperdere il nostro e quello dell’interlocutore. La vacuità di certi discorsi esclude ed elude dal proprio seminato la riflessione sull’esistenza che dovrebbe rappresentare il nostro unico fine, prima di esser divisi dall’albero come “foglie d’autunno” – e qui ritorna Mimnermo, ma s’intravedono anche gli echi del simbolismo francese – costrette a vagolare nell’aria non avendo una destinazione. E, tuttavia, non si può tacere un interrogativo: le parole devono necessariamente avere una destinazione? La poesia ha una destinazione che non sia ecolalia, ossia ripetizione dei sentimenti e degli intendimenti del suo autore e, dunque, destinata a lui solo? A chi pensava Baudelaire quando scriveva I fiori del male e la Plath? Vi è molto di somigliante a entrambi i poeti nelle liriche di Anastasia Leo, ma non è metodologicamente corretto imbarcarsi in una misurazione delle influenze poetiche, perché la poesia è questo: continuo rimando, continua corrispondenza di pensieri, forme e ritmi che vengono attinti dalla tradizione per essere costantemente rielaborati – si veda L’angoscia dell’influenza di Bloom – e resi di nuovo in grado di comunicare qualcosa. I versi di Anastasia Leo comunicano l’attesa angosciosa della morte, del momento in cui non si è più, ma questa considerazione del momento supremo non induce a vivere meglio il tempo presente, piuttosto esorta a considerare l’inanità delle cose, il vuoto che supera l’umano affaccendarsi per avere una vita piena: piena? “Notte”, “nulla”, “impossibile”, “infinito” sono termini che ricorrono nella poesia di Anastasia Leo e che sottendono l’area semantica e psicologica della negazione. Se tutto è vano, se persino le fotografie non trattengono i volti sottoposti alla legge dell’invecchiare, rimane soltanto da vivere una vita costantemente spesa sull’orlo della negazione: io non esisto, non prego, non so e, soprattutto, niente di tutto quello che mi è accaduto mi riguarda davvero perché la mia esistenza è fatta di vuoto. Io attendo che “la morte faccia sbocciare i fiori dal mio cervello” come scriveva Baudelaire, perché la vita non ha dato loro abbastanza acqua e, perché si abbia un campo fiorito, occorrono le lacrime di chi piange sulle tombe, dinanzi ai “cancelli chiusi di un cimitero in croce” scrive Anastasia nei versi che aprono la sua raccolta densa di morte, eppure densa d’amore. Sì, amore è in questi versi nei confronti di un interlocutore non meglio precisato del quale rimane soltanto il profumo “nei pensieri di questa notte piena di sogni”: è l’innamoramento onirico tratteggiato con sapienza ancestrale dall’autrice la cui consapevolezza degli affetti oramai scardinati – “il sospiro di mia madre non mi accompagnerà nel poker della vita” – indugia, tuttavia, nel pensiero di un’altra presenza/assenza dalla quale è attinta la forza per scrivere. Qualcuno guarda e tace: nel sogno, nella realtà quando il “collo bagnato” della donna che qualcuno accarezza, perso nella contemplazione della bellezza fatta femminilità. La rievocazione dell’eterno femminino è compiuta quale sentito sacrificio alla divinità poetica: L’“America ladra degli anni Sessanta” e Wall Street non sono sterili omaggi alla Beat Generation, calchi da poetiche già affermate e consolidate, ma il tentativo – ben riuscito – di testimoniare la femminilità del paesaggio che fa da sfondo al poetare di Anastasia Leo. Quell’America con i suoi pessimi bar dei vicoli di New York, con le sue viuzze celate agli occhi dei più, con i suoi beoni saggi – Dean il Vecchio – è donna che comprende il male di vivere e lo propina in piccole dosi ai suoi abitanti, come una madre povera permette ai suoi figlioli soltanto di sbocconcellare il pane, lasciando che essi vivano il dramma della fame, perché meglio aver fame in più persone che saziarne uno e far morire gli altri. Ma il male di vivere rimane come rimane la voglia di credere in un riscatto morale che sa di eroismo, di titanismo: andare avanti con la consapevolezza dell’infelicità. Possibile? Nella poesia la risposta e la consolazione dalla fatica di vivere.
Info: info@pensaeditore.it
lunedì 25 ottobre 2010
Il libro del giorno: Autopsia dell'ossessione di Walter Siti (Mondadori)
Il cimitero di Praga di Umberto Eco (Bompiani) ... una piccola anteprima!
Mentre per Mondadori esce l’ultima fatica di Walter Siti dal titolo “Autopsia dell’ossessione” (splendido romanzo dove gli impulsi più oscuri la fanno da padroni) ovvero l'ultimo atto della trilogia aperta da “Troppi paradisi” e da “Il contagio”, ecco che Bompiani non si fa attendere, e per questo autunno appena iniziato consegna ai lettori un piccolo capolavoro. Ma occorre in questo caso lavorare di fino. Siamo nel 1980. Sugli scaffali delle librerie italiane esce “Il nome della rosa” il romanzo d'esordio nella narrativa di Umberto Eco, un libro intelligente, divertente, così ricco che permette diversi livelli di lettura. Poi il 1988. Eco non perdona. Esce il “Pendolo di Foucault”, seconda prova scritturale per questo autore, ambientato nei primi anni ottanta, che come scrisse Jacques Le Goff in una recensione su L’Espresso « ... questo romanzo magico sulla magia, questo romanzo misterioso sul segreto e sulla creatività della finzione, questo romanzo tumultuoso, questo romanzo luminoso su un mondo sotterraneo... ». Penso che a queste due opere possa associarsi, guardando un po’ a tutto il percorso scritturale di Eco, il più recente “Baudolino” eccelso lavoro ambientato tra il XII e il XIII secolo dove si racconta, attraverso le parole del protagonista Baudolino, di scenari di pura fantasia e di personaggi mitici, attraverso una successione sconfinata di episodi storici e leggende, dalla fondazione di Alessandria all'Italia dei comuni e del Barbarossa; dalla nascita delle università all’incredibile viaggio alla ricerca del mitico Prete Giovanni e del Graal. Un “fritto misto” insomma tra il picaresco, il giallo, e il saggio di profilo storico. Ora dopo poco più di trent’anni dall’uscita del suo romanzo d’esordio, il Nome della Rosa, Umberto Eco (a partire dal 29 ottobre) consegna al pubblico, il suo nuovo romanzo dal titolo “Il cimitero di Praga” (ed. Bompiani). Siamo a metà dell’800. L’intenzione del Nostro, è quella di parlare, togliendosi magari anche qualche sassolino dalla scarpa, della nascita delle nazioni moderne. In filigrana si parla di un falsario, il Capitano Simonini, spia per conto di parecchi paesi d’Europa. Il riferimento più gustoso, che permea il nostro istinto di acquisto nei confronti di questo titolo, è al cimitero dove è sepolto il rabbino Jehuda Low ben Bezalel, che creo’ il Golem. Golem significa arti magiche, significa Sefer Yetzirah, significa Qabbalah. Sarà un libro che consiglio caldamente, sarà sicuramente corposo (più o meno cinquecento pagine), sarà sicuramente un capolavoro! Imperdibile!!!
domenica 24 ottobre 2010
Il libro del giorno: Uccio Aloisi, I colori della Terra (edizioni Aramirè)
Questo libro nasce da una lunga intervista al più conosciuto dei cantori tradizionali salentini: Uccio Aloisi. È suo il racconto (trascritto in dialetto e tradotto in italiano) che tocca i temi del lavoro, della musica, della lotta per una vita migliore… Il doppio CD allegato al libro consente di ascoltarne la voce che, con incredibile forza affabulatoria, ci trasporta attraverso gioie e dolori, racconti, storie, canti e musica. I canti: per Uccio è impossibile raccontare senza scandire la narrazione cantando. Ecco allora gli stornelli, mara l'acqua, la pizzica degli Ucci, Uccia canaja, Santa Cesaria, Lu Santu Lazzaru…
Tutti brani che fanno parte del vastissimo repertorio che Uccio, insieme agli altri Ucci (fra cui lo scomparso Uccio Bandello) ha reso noto a tutti gli appassionati musica tradizionale del Salento. Dalla prefazione di Alessandro Portelli: «È con l’arrivo della scrittura, della scuola, che il mondo si divide fra istruiti e "ignoranti". Uccio Aloisi è un esempio straordinario di resistenza a questa spartizione: non è istruito, ma è sapiente lo stesso. All’esclusione e allo stigma che dovrebbe comportare l’analfabetismo risponde con il sapere di una cultura orale – la lingua, i suoni, i canti, le feste, i riti; ma anche il lavoro con le sue tecniche, e la memoria storica (le occupazioni delle terre) […] È una sapienza che non è diversa solo per contenuto, ma anche per modo […] Il lavoro si impara guardando gli altri lavorare e lavorandoci insieme, magari «rubando» il mestiere; le canzoni si imparano ascoltando e cantando insieme […] Per questo, il sapere di Uccio Aloisi è soprattutto un’appartenenza, un’identità».
L’ultimo viaggio di Ucciu Aloisi, il cantore antico del Salento di Paolo Rausa
Due giorni fa si è spento nella sua casa di Cutrofiano, un paesino del Salento, a sud di Lecce, il grande aedo Ucciu Aloisi. La sua storia è narrata dai mille concerti tenuti in tutte le piazze del sud, in ogni sagra o festa paesana, quando si presentava l’occasione di cantare le gesta non dei grandi eroi, ma delle fatiche inenarrabili dei contadini, della povera gente che si sforzava di riuscire a vivere e che trovava solo nel ritmo irrefrenabile, cadenzato delle canzoni, la vaghezza di perdersi. Quel sollievo necessario a sopportare le sofferenze, la rudezza tipica della vita popolare, ma non di meno colpivano anche, nelle espressioni e nelle immagini dei suoi testi, il calore e la passione di uno sguardo, di un amore fugace, così come l’invito a danzare ritmi forsennati, un piroettamento senza fine delle tarantate, portate alla cronaca antropologica da Ernesto De Martino, nel suo celebre saggio “Sud e magia” del 1952. Nel suo nome Ucciu, diminutivo di Antonio o Raffaele, divenuto esso stesso tipico nome salentino, e nel cognome dalla vaga discendenza grecanica così come nel suo volto squadrato, essenziale, acuto, come fosse il contenitore di una voce non melodiosa ma cantilenante quasi imitasse la metrica antica, c’era tutto il personaggio. A vegliare Ucciu, che è giunto all’ultimo viaggio all’età di 82 anni, c’erano tutti i suoi eredi musicali, quei giovani che lo ricordano per la sua leggera ironia, per la prontezza di spirito, per la battuta pronta e salace, ma soprattutto per il vocalizzo e per il gorgheggio della voce. Ecco perché la sua fine lascerà tutti un po’ più soli, orfani dell’ultimo grande cantore che insieme a Uccio Bandello e a Uccio Melissano aveva costituito il grande complesso di musica folk degli “Ucci”. Le potenti espressioni del canto e il ritmo sostenuto della fisarmonica, le note stridenti del violino e le percussioni potenti dei tamburelli accompagnavano la tarantata, ridotta in trance dal ri/morso del ragno. Solo il ritmo indiavolato della pizzica accompagnato dalla danza taumaturgica riusciva ad espellere il veleno inoculato dal ragno e a liberare la vittima, risanandola. Ucciu Aloisi era considerato da tutti i giovani il depositario della tradizione. Per questo all’annuale Festa della Taranta, in agosto a Melpignano, i giovani lo applaudivano incessantemente, forse temendo data la sua età una fine imminente. Certo la pizzica ha ormai valicato lo stretto territorio del Salento per giungere in tutte le piazze dell’Europa, finanche in Cina, a rimorchio della Fondazione che ha rinnovato la tradizione, ma sempre mantenendo vivo quel canto che assumeva nelle cadenze il ritmo del suo stesso lavoro nei campi, quel lavoro di cavatore, quella durezza dell’esistenza che si scioglieva in un’armonia musicale che ha forgiato le esistenze ed ha costituito la migliore testimonianza e un grande esempio. Di un maestro che non ha mai avuto la pretesa di insegnare, di un uomo che ha dedicato una vita alla canzone popolare della pizzica, un Omero moderno delle genti diseredate del sud che sanno dare il meglio di sé nell’arte, nella musica e nel canto. Rimasto legato a quel cantare popolare ha raccolto le sue canzoni in quel memorabile cd dal titolo “Robba de smuju”, titolo intraducibile in italiano, ma che all’incirca ha il significato di canto che fa ribbolire il sangue e da quella raccolta è nato il suo gruppo di otto elementi, che con lo stesso nome continuerà il suo percorso culturale e umano, ben sapendo che Ucciu non li abbandonerà mai.
Poggiardo (Le), 22 ottobre 2010
sabato 23 ottobre 2010
Il libro del giorno: Garbatella combat zone di Massimiliano Smeriglio (Voland)
Massimiliano Smeriglio vive e lavora a Roma. Ha pubblicato saggi e articoli sulla politica, il sociale, la città e la cittadinanza, fra cui Se Henry Ford avesse risposto al telefono (Magma edizioni, 1999), Città comune, autogoverno e partecipazione nell'era globale (Deriveapprodi edizioni, 2006), Walter ego. Gli anni del principato romano (Liberazione edizioni, 2007). Collabora con la rivista “Loop – culture linguaggi e conflitti dentro l’apocalisse
Rossella Piccinno: “Mi piace raccontare storie”. Intervista a cura di Angela Leucci
Rossella Piccinno ha girato “Hanna e Violka” (Kurumuny edizioni) perché voleva raccontare una storia come tante. La storia delle governanti di famiglia, che tra tante difficoltà accudiscono i nostri anziani, che loro chiamano “nonni”, un vezzo di intimità in un certo senso motivato dalla profonda confidenza che queste persone prendono con le nostre case.
Perché i documentari non sempre hanno dietro una perfezione tecnica della fotografia e di altro?
In realtà, c'è grande cura anche nel realizzare un documentario. La parola infatti indica un'accezione generica, perché ne esistono moltissimi tipi. Nel caso del mio lavoro, bisogna considerare che è stato assolutamente low budget. Ho iniziato totalmente sola, anche perché la storia aveva qualcosa di moto intimo, e si basava su un girato a stretta prossimità coi personaggi, per cui chi girava doveva avere un bassissimo impatto con la vita quotidiana dei protagonisti. Sarei stata un corpo esterno che invade uno spazio, per cui se avessimo chiamato anche direttore fotografia, elettricista, o un'intera troupe avremmo causato molto disagio per tre mesi, oltre che generare un costo che non si poteva sostenere.
Una domanda intima: uno dei tuoi protagonisti, tuo nonno, è venuto a mancare di recente? Credi che il cinema possa rendere eterno chi non c'è più?
Non so se l'arte possa fare un regalo a chi non c'è più, pensiamo, per esempio, agli attori viventi. Non credo che questa cosa faccia parte della vita o della morte, ma certo il cinema fa durare nel tempo le persine e la scolpisce nell'immaginario, per come il mondo recepisce l'immagine. James Dean è divenuta un'icona, perché il mondo aveva bisogno di quell'icona, era una contingenza dell'intera umanità.
La tua colonna sonora è originale...
Tutta la colonna sonora è originale, è stata composta da Pierini e Mattei, ragazzi che ho incontrato durante un viaggio per caso, ho ascoltato la loro musica e mi è piaciuta, per cui abbiamo deciso che avremmo iniziato a lavorare insieme partendo da zero.
La maggior parte dei pezzi è strumentale, una scelta molto utilizzata negli ultimi anni.
La questione della musica per film è molto delicata: per esempio sono stati composti molti più pezzi di quelli che poi sono stati utilizzati, ma solo quelli scelti si adattavano, poiché altri, che magari preferivo, davano una connotazione troppo drammatica a immagini di per sé drammatiche, creando un effetto film muto. Credo che il il pezzo troppo forte crei ridondanza, per cui bisogna restare discreti.
Meglio documentario o fiction pura?
Preferisco il verosimile, perché mi interessa l'umanità, non tanto la surrealtà, per quanto anche quella può essere una metafora del reale. In tal senso, Non credo al confine netto tra fiction e documentario.
C'è un film che avresti voluto girare tu?
Ce ne sono tanti, per esempio “Nostra signora dei turchi”, ma è irripetibile e impossibile da citare. Io credo che i film bisogna farseli da soli e per fortuna ci sono tante persone che fanno dei film meravigliosi.
venerdì 22 ottobre 2010
Il libro del giorno: L'ardore di Roberto Calasso (Adelphi)
UOMINI CHE ODIANO LA BINDI. Intervento di Elisabetta Liguori
giovedì 21 ottobre 2010
Il libro del giorno: 2012 - Lo Scorrimento della Crosta Terrestre di Charles Hapgood (Profondo Rosso edizioni)
I prodotti qui in vendita sono reali, le nostre descrizioni sono un sogno
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