(…) Perdona infine/ tutte le parole/ rimaste sole/ senza cose.(…) Camilla Endrici
BOHUMIL - Un grande Concorso letterario. Grandi parole di verità, anche se “rimaste sole senza cose”. FUORI DI RETORICA. Un grande libro. Si può leggere i testi in concorso e non, anche delle precedenti edizioni, qui:
http://coopforwords.it/dvd_ricerca.php?tipo=9
I testi di Coop for words 2010 – a saperli leggere in questa prospettiva – lanciano un messaggio preciso. La memoria, ci insegnano, non può che ripartire dalla riappropriazione del presente, ed è incompatibile con la rassegnazione o con i vuoti conformismi. Non si dà memoria senza coscienza di un rapporto, di un confronto, di una consapevolezza critica: noi ci collochiamo – dicono i testi – nel nostro qui, nel nostro oggi, con tutti i limiti e le incertezze di un presente sospeso tra un ieri che va sbiadendo i contorni e un domani senza fisionomia definita. Ma il contatto è attivato: parliamone, parliamoci.
Niva Lorenzini
È Niva Lorenzini a scrivere la presentazione di questo libro. E Niva, il cui nome troviamo splendido e scegliamo di usare da solo, come emblema dell’insieme che emerge dal suo argomentare, ci dice quali tracce cercare nelle parole dei testi e nelle suggestioni dei fumetti vincitori di un concorso importante. Non la conosciamo personalmente, Niva; e sapere che è docente presso l’Università di Bologna, dove stiamo conseguendo la laurea magistrale, nonché componente del Comitato Scientifico del concorso Coop for words, dove abbiamo concorso, ci imbarazza un po’. Tuttavia, quel che va detto lo diremo. Le sue parole ci lasciano immaginare un tono contemporaneamente prudente, capace di trasferire una intensa ricerca del senso da dare a quelle scelte sapientemente, e una presa di coscienza. Ci pare voglia dire: Badate, la scrittura giovane è pericolosa. O potrebbe esserlo. Coop for words ha scelto un tema che poteva portarci verso risultati imprevedibili, entusiasmanti, ma anche rischiosi. Vediamo cosa è successo…
Ecco il suo pensiero autentico:
La memoria, il presente la scrittura
Non è sfida da poco quella lanciata quest’anno dagli organizzatori di “Coop for words”. Invitare a confrontarsi con la memoria significa infatti aprire una serie di interrogativi dalle risposte imprevedibili e non scontate. È di sicuro parola a rischio, la memoria, tra celebrazioni e commemorazioni ufficiali che ne abusano sino a svuotarla di contenuto; ed è d’altra parte parola a rischio anche per i processi di autoconsunzione cui il termine è di continuo sottoposto, in una quotidianità che frantuma l’esperienza corrodendone la tenuta, e dunque mettendo in discussione la possibilità stessa che ciò che accade lasci traccia, si articoli in un vissuto, sia recuperabile come ricordo, si trasformi in progetto. C’è allo stesso tempo, insomma, eccesso di memoria, enfatizzata ed espropriata di senso, e perdita della stessa, nella nostra contemporaneità che tende a spettacolizzare, esibire, contrabbandando il virtuale per reale e viceversa. Come ciò si trasferisca in scrittura, sia quella dei racconti brevi, dei blog, delle poesie, dei fumetti, non era facilmente ipotizzabile o prevedibile. Ci si poteva al più chiedere se i raccoglitori della sfida, cioè i partecipanti al concorso, si sarebbero trovati disponibili a riconoscere i rischi, le trappole, i travestimenti che il concetto di memoria, applicato al nostro oggi, cela in sé, e in che misura sarebbero stati disposti ad affrontarli. Ci hanno provato in molti, per nulla scoraggiati dall’assunto. I più hanno optato per una scrittura contingente e di contingenze, che si fa autoreferenziale e autobiografica con ironia e talvolta con ferocia, offrendo in pillole, alla maniera di un Perec stralunato, ricordi d’infanzia parodizzati e slabbrati, tra resa visionaria e sobria scarnificazione. Scene di una quotidianità cosificata vengono così restituite in fotogrammi fermi, tra sentimenti raffreddati come oggetti e paesaggi metropolitani che, in versi o in prosa, si provano a anestetizzare le emozioni, bloccandole sull’istante, senza sviluppo. Realtà è natura – gli ingredienti consueti per ogni scrittura – faticano a trovare collocazione nell’immaginario di questa nostra contemporaneità, fatto di uno spazio e di un tempo simulati, sostitutivi: a meno che ci si voglia immergere nell’altrove di una improponibile “Poesia” che esercita il proprio straniamento ricorrendo a un lessico inattuale (quello delle “gote” o delle “aurore radiose”, delle “alme” e delle “parole silenti”, dei “brividi” e dei “profumi”, ma che è parodia di un glossario da melodramma?). la poesia vera, quella senza iniziale maiuscola, è contenuta nel ritmo spezzato e velocizzato dei blog e della prosa, o nella scrittura a elenco che consente l’accumulo di dati, vicende, “piccoli fatti veri” offerti senza commento, consapevoli che c’è ormai “troppa storia per avere memoria”, nell’epoca degli “impalpabili gigabyte” da “memory card”. È insomma la cronaca in versi o in prosa delle gesta minime, diseroicizzate (o eroiche, di un loro eroismo da vita da call-center) di una generazione di non garantiti, “poliedrici e confusi”, pronti a lasciarsi “aprire, scartabellare, riempire, svuotare”, insieme delusi e trasgressivi, cauti nell’affrontare la strada del vivere “come macchine dal freno a mano tirato”. Fuori di retorica, davvero: è questa una scrittura di denuncia, la vera scrittura civile dei nostri giorni, tutt’altro che dispersa in formalismi, immediata e diretta. La scrittura che sa di usare parole “rimaste sole senza cose”, e può provarsi nell’autoparodia o nel travestimento della realtà in fiction orrorosa, oppure tentare qualche affondo verso la “storia”: quella privata, magari, della propria infanzia, tema privilegiato di molti interventi, o quella collettiva, affidata ai racconti dei protagonisti che ne conservano ricordo vivo (gli anziani, che restituiscono il vissuto di altre generazioni, o le tracce di una partecipazione viva alla Resistenza; o ancora gli accenni a una strage – quella della stazione di Bologna – che sconvolge la normalità dei giorni, o di un terremoto che si incide sul corpo vivo dell’esperienza). I testi di Coop for words 2010 – a saperli leggere in questa prospettiva – lanciano un messaggio preciso. La memoria, ci insegnano, non può che ripartire dalla riappropriazione del presente, ed è incompatibile con la rassegnazione o con i vuoti conformismi. Non si dà memoria senza coscienza di un rapporto, di un confronto, di una consapevolezza critica: noi ci collochiamo – dicono i testi – nel nostro qui, nel nostro oggi, con tutti i limiti e le incertezze di un presente sospeso tra un ieri che va sbiadendo i contorni e un domani senza fisionomia definita. Ma il contatto è attivato: parliamone, parliamoci. Divorando i racconti brevi, i testi della sezione blog, le parole delle poesie e i fumetti, abbiamo trovato tutto ciò che dice Niva. In un caso, nella INVETTIVA, scritta da una di noi e tra i testi vincitori del concorso, quindi leggibile nella antologia, abbiamo dovuto glissare, riservandoci di rileggere alla fine, tentando di dimenticare il nome dell’autrice. Ciò che abbiamo letto e riletto torna a ferire, a chiarire e ad arricchire.
Eccola.
INVETTIVA
Ora basta! Se fossi uno scaricatore di porto la metterei così: -Avete rotto i coglioni! Che cazzo mi guardate a fare, non bastano i quintali di tette siliconate esposte sia nella cosiddetta TV pubblica che nella commerciale? Che cazzo mi guardate a fare se dopo le lotte di liberazione, la Costituzione , il ’68, lo Statuto dei Diritti dei Lavoratori, il ’77, la donna deve essere bella per essere assunta e far carriera? Che cazzo mi guardate a fare se volete che i corpi siano rassodati, se perdete la testa dietro i culi brasiliani? Non perdete tempo: sono una che se ne fotte di avere una prima, pressoché zero, di seno. E non voglio essere intelligente: lo dice chi non capisce una minghia e non si sa da chi sia stato patentato a farlo. Voglio girarmi e ritrovare lo sguardo di mia madre, ricordare la foto che la ritraeva in una manifestazione di sole donne. E voglio incontrare gli scaricatori di porto, i lavoratori puzzolenti di sudore, non i complimenti. Voglio ricordar la vita. Cazzo!