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lunedì 28 dicembre 2009

OSCAR GLIOTI, Fumetti di evasione (Vita artistica di Andrea Pazienza), Fandango. Intervento di Osvaldo Piliego

Di Andrea Pazienza non si parla mai abbastanza. Artisti come lui meritano continue riletture, una vita se pur breve, intensissima da tutti i punti di vista. Una vita così vicina e astratta dalla realtà che finisce per sconfinare e invadere anche il suo immaginario artistico. Ecco che è possibile ricostruire vita e opera di Andrea Pazienza con un registro che sembra essere letteratura e cronaca dei fatti al contempo. Quando si dice una vita da romanzo, o in questo caso, una vita da fumetto. E tre sono i personaggi raccontati in queste pagine, tre capitoli, tre periodi della formazione umana e artistica di Andrea. Pentothal, Zanardi e Pompeo. “Il giogo mentale di Pentothal, la valvola di sfogo di Zanardi”, e poi la liricità di Pompeo “il ritorno alla carne, al dolore, a una testimonianza sincera e senza mediazione”. Emozioni e vita insieme. Pentothal incarna il Pazienza del 77, il suo utopismo in controtendenza con l’ideologismo del tempo, Zanardi è la perdita dell’innocenza, il lato oscuro di Andrea, quello malato e poi Pompeo, la fine, l’ultimo capitolo di una vita e di un’opera. E in tutto questo c’è la sperimentazione, la voglia e la capacità di oltrepassare il limite per trovare nell’equilibrio o disequilibrio tra immagini e testo nuove forme per l’illustrazione. Fumetti di evasione è un bel libro, si legge come un “film”, nel suo associare immagini a una storia speciale. “Il fumetto è evasione, è sempre evasione, deve essere evasione, del resto la parola evasione è una bellissima parola, evadere è sempre bello, la cosa più saggia da fare... Poi se c’è qualcos’altro ben venga.” (Andrea Pazienza, 1984)

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domenica 27 dicembre 2009

Bruno Munari: mirabile coniugazione tra idea e manufatto, tra spontaneità e controllo di Maria Beatrice Protino
















Era un uomo minuto, dall’apparenza delicata, eppure un artista poliedrico, un intelligente designer e grafico, impegnato in diversi campi: dai libri ai giochi, dalle illustrazioni alla grafica, dalla scultura alla cinematografia, dal design industriale alla poesia. Nel 2007 si è celebrato in tutto il mondo il centenario della sua nascita e nel 2008 il decennale della sua scomparsa: mostre, letture pubbliche e inaugurazioni di spazi permanenti da Milano, a Tokyo, a Roma. Studiare il lavoro di B. Munari è una scoperta continua. Era un artista e un grafico, un designer e un pedagogo, impegnato in arte quanto in politica, un inventore e uno studioso attento dell’animo umano. Insieme a Maria Montessori e Dewey lo si ricorda come uno dei più importanti pedagoghi del Novecento. Teorizzatore e creatore dell’educazione attiva e di un metodo di insegnamento oggi registrato con marchio “Metodo Bruno Munari“ e acquisibile solo con un apposito master (www.brunomunari.it): si pensi agli splendidi libri per ragazzi, pieni di invenzioni tecniche e poesie, e le illustrazioni per Rodari, i giochi prodotti per Danese. Ma Munari è anche il grafico editoriale per Einaudi e Zanichelli; è lo scrittore di innumerevoli libri - ciascuno diverso, impegnato e sognante ad un tempo; è l’artista erede del futurismo e sperimentatore cinematografico che ha lasciato importanti contributi anche nel campo dell’architettura; è un politico polemista dell’Italia piccolo borghese e arricchita, quella del grande lusso ignorante. «Questo vivere senza amore, senza partecipazione; questo senso di miseria lo possiamo trovare anche in certe case di lusso dove una madornale miseria culturale fa sì che esse siano fatte con i materiali più costosi (solito equivoco tra prezzo, valore, funzione), per cui possiamo trovare case con i rubinetti d’oro ma senza un libro di poesia, senza addirittura alcun libro». Per Munari ogni invenzione è la risoluzione di un problema specifico, determinato. “Da cosa nasce cosa” (Laterza 1981) si apre con un detto di Lao Tse che recita: «Produzione senza appropriazione, azione senza imposizione di sé, sviluppo senza sopraffazione», seguito dalle quattro regole del metodo cartesiano e da lui pienamente condiviso e praticato: l’evidenza, la suddivisione dei problemi in parti, l’ordine dei pensieri, l’esaustività del pensiero. Quel che oggi forse più piace ricordare di questo grande uomo è l’ammirevole capacità di poter comporre le due tensioni: spontaneità e controllo, ordine e liberazione, l’uso del metodo per arrivare alla creazione del nuovo attraverso dalla fantasia.

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sabato 26 dicembre 2009

Mitili e Cenere (Edit Santoro) di Annamaria Cenerini. Intervento di Carlo Spinelli

Mitili e Cenere, i trentatré componimenti poetici di Annamaria Cenerini esprimono un elevato uso della parola poetica, lì dove la poesia è sapiente scrittura naturale della parola essenziale che, come tale, non rimanda oll’oggetto che nomina, come direbbe Mallarmé, così caro all’autrice. Una poesia che diviene profonda sensualità e piacevole percorso di percezioni e di memoria, nella musicalità avvolgente dei versi che, pur liberi, concedono gradevoli assonanze e allitterazioni, nel fluido procedere di un linguaggio che sovente cede il passo agli enjambement. E il risultato finale è un ritmo continuo, un succedersi di suoni che nella mente arrivano quasi a configurarsi in un alternarsi del cerchio e della linea, così come si avvicendano da una parte il sacro, nel profondo desiderio di trascendenza (e il desiderio si fa vegetazione) e dall’altra l’immanenza del quotidiano, che si vuole conquistare alla stregua di tanta razionalità invocata, intravista nella disposizione dei libri sui ripiani squadrati e inseguita come un farmaco, (…) un ordine alfabetico da reiterare come monotone litanie domenicali. Tutte le poesie esprimono una sensibile tensione poetica nel raffinato tentativo di aspirare all’apollineo ordine delle cose, fuggendo dal caos naturale della percezione. Situazioni della vita quotidiana assurgono al più alto rango del sentire poetico, attraverso una sensualità che non ha più il corpo per oggetto della sua percezione, come nella precedente inedita produzione, ma la natura, con la quale l’autrice vive quasi un processo di identificazione dall’eco dannunziana (vorrei… esser nata oleandro o aloè); una natura che si fa parola poetica e ineluttabile nutrimento: parole che lievitano, che sanno di sale e rovi, parole impastate con farina di rose e acqua di ninfee; una parola poetica che, nel quasi rimorso di non aver potuto regalarla alle persone care che non ci sono più, continua a svolgere la sua antica funzione eternatrice. Pertanto questi versi svelano anche il loro contenuto metapoetico, come anche nelle voragini delle parole o nel groviglio dei pensieri che si fa ricordo e lei, divenuta bambina, rincorre schive galline prolifere di uova deposte altrove/altro tempo altre parole. E’ esplicito il ricorso ad una parola che sprofonda a recuperare innumerevoli significati, collocandosi in altri luoghi, altri tempi; divenendo, quindi, una parola “altra”. E da luoghi lontani, ancora una volta la natura restituisce la memoria di un’infanzia felice, come il profumo del mallo acerbo di quel noce che ombreggia il gioco di Tita e Francesco. Ma al di là del mallo e il noce, altre immagini simboliche si aggiungono da subito, dopo l’apertura salmodiante del primo breve componimento (Beati coloro che hanno verità e disegni definiti…). E così la luce e l’acqua, di cui la poetessa vuole nutrirsi, vanno a scomodare inveterati archetipi che preludono alla figura di un dio e di un divino intesi in senso umanistico, utili a superare l’immanenza. E ancora, l’antico giardino dei desideri, che nella nostra cultura arriva a confondersi con l’orto, ci regala mediterranei profumi familiari di salvia, menta e prezzemolo; peperoni, arance e limoni; percezioni totali che arrivano al sinestetico profumo biancastro del gelsomino materno. E poi la civetta e la gazza, il gufo e la rondine. Tutti simboli che rimandano ai quattro elementi naturali, ad eccezione del fuoco che compare indirettamente attraverso il sale che, estratto dall’acqua mediante evaporazione, altro non è che un fuoco liberato dalle acque. Il sale, così carico di significazioni, rimanda ancora una volta alla figura di Cristo (Matt. 5,13) e al suo valore di forza e salvezza; al concetto di purificazione e, più di tutto, a quello di una trasmutazione (fisica, morale, spirituale): il sale conserva gli alimenti ma può anche distruggere per corrosione. Ecco perché, nel suo ultimo avvertimento metapoetico, appreso nella famigliare fucina materna, Anna Maria suggerisce quel ‘sale quanto basta’, quasi ad indicare una certa parsimonia nell’uso della parola poetica, in sintonia con quella tenue luce che poche ore dopo/ il tramonto regala ombra/ e poi il silenzio agguerrito/ contro la parola urlata.

casa editrice: http://www.editsantoro.it/index.asp

su concessione dell'autrice

venerdì 25 dicembre 2009

Emmaus di Alessandro Baricco (Feltrinelli) visto da Elisabetta Liguori

Un romanzo misurato, quello di Alessandro Baricco, ma radicalmente diverso dalle storie alle quali ci aveva abituato lo scrittore tra i più mediatici del momento. Il tema? L’incapacità dell’uomo di riconoscere se stesso, le proprie ideologie, i propri limiti, narrata partendo dall’antica strada di Emmaus. Forse una scelta provocatoria, oggi che siamo chiamati a decidere se appendere in classe un crocifisso o lasciare a ciascun luogo la libertà che merita. Quella di Emmaus è infatti la più poetica tra le testimonianze evangeliche sulla Resurrezione di Cristo. Di certo la più amata dai fedeli. Vediamo il contesto: Gesù è appena morto sulla Croce. Il Sepolcro è stato trovato vuoto dalle donne, dopo giorni di strazio. I discepoli di Gesù sono sconvolti. Siamo a sole sette miglia da Gerusalemme. qui due pellegrini tristi incontrano un viandante. Parlano, camminano. Solo dopo, durante la cena, i due, guardando il viandante spezzare sapientemente il pane, lo riconoscono: è il loro maestro tornato uomo. Quando lui, come era comparso scompare, i due restano a domandarsi come abbiano potuto essere così ciechi. Tutta la testimonianza attribuita all’apostolo Luca è quindi giocata sulla dimensione dello smarrimento. Desiderio, paura e amore s’intrecciano, mentre la verità resta sullo sfondo: anelito irraggiungibile.
Da questo umano bisogno di verità prende le mosse l’ultimo Baricco. I suoi personaggi non sono apostoli, ma quattro diciassettenni, figli di una generazione cattolica e quieta, ormai in via d’estinzione. Anche i due discepoli descritti dal Vangelo erano alquanto misteriosi. Di uno soltanto di essi Luca fa il nome: Cleopa. Non sembra si tratti di due apostoli - cioè della cerchia più stretta di Gesù - ma di due discepoli appartenenti alla cerchia più ampia di coloro che si erano aggregati a lui, dopo le predicazioni e i miracoli. Cleopa - Kleopas nell'originale greco - potrebbe essere la contrazione di Kleòpatros, cioè Figlio di Padre famoso. Un appellativo assai diffuso nella Palestina dell'epoca. Secondo fonti antiche, questo padre famoso sarebbe stato nientemeno che lo zio di Gesù. Con buona pace di Dan Brown che forse non l’ha ancora scoperto! Figure oscure quanto i ragazzini scelti da Baricco: quattro anime piccole borghesi, ancora impreparate alla vita. Tra questi solo Luca ha un nome; gli altri sono desiderio astratto, contesto generazionale, cultura, modo di essere. Nulla appare più fragile, mesto e stupefatto della loro giovinezza. Emmaus è, dunque, una storia dura, che parte da un suicidio e si spinge verso temi quali la violenza, la bellezza, il tradimento, la malattia. Snodi cruciali in cui fede e ragione vengono messe a dura prova. Un raggio di luce taglia il piano orizzontale della loro vita quotidiana. La profondità del vivere diventa pulviscolo, intuito d’improvviso dal sole in una stanza buia. Quello che illumina questo romanzo è infatti il desiderio di chiarezza, di necessaria narrazione, così come sembra voler reclamare la sua copertina, sorprendentemente bianca e silenziosa.

su concessione dell'autrice

giovedì 24 dicembre 2009

Al Fondo Verri Lemaniel’ascolto IX edizione
















Torna Le Maniel’Ascolto. Come consuetudine - con il sostegno dell’Amministrazione Comunale di Lecce - un pianoforte abiterà il Fondo Verri. Un appuntamento che si rinnova in occasione delle festività per il Capodanno, una rassegna di parole e di suoni giunta quest'anno alla nona edizione. Libri, esperienze autoriali e ricerche sonore in una maratona di ascolti che avrà luogo e pubblico dal 28 dicembre al 6 gennaio nella saletta di Via Santa Maria del Paradiso. Il costante contatto con la scena creativa (musicale e letteraria) è una delle prerogative del Fondo Verri. Le Maniel’Ascolto rinnova il desiderio di costruire avventure sonore proponendo repertori che hanno il pianoforte come elemento di guida e di raccordo delle performance, pretesto di incontri, scambi, creazioni, in una tensione di ricerca che attraversa i generi, i modi d’espressione, l’arte con le sue con-fusioni esistenziali e con il rigore che interviene a fare stile, segno, lingua.
Otto serate di incontro di contaminazione tra suono, poesia, scrittura, teatro e immagini. Il primo appuntamento il Lunedì 28 dicembre, dalle 20.30, con il libro di Manila Benedetto, Donne e altri animali feroci, edito da Coniglio. La tastiera del pianoforte è affidata alle Interferenze di Stefano Pellegrino.
A seguire:
29 dicembre
Il libro di Pierluigi Mele, Da qui tutto è lontano, Lupo
La musica di Raffaele Vasquez, Nicotina 06
30 dicembre
La poesia di Giuseppe Greco
La musica di Roberto Gagliardi e Massimiliano Ingrosso, Melting pot duo
2 gennaio
Le poesie di Guido Picchi e Maurizio Nocera che legge Totò
La musica di Raffaele Casarano e Marco Bardoscia
Ospite della serata l’arpa di Keti Giulietta Ritacca
3 gennaio
Il libro di Vito Antonio Conte, Fuori i secondi, Luca Pensa
La rivista, Palascia, l’informazione migrante
La musica di Emanuele Coluccia, Volo e di Claudio Prima, Dentro la città
4 gennaio
La poesia di Daniela Liviello con Il segno e il suono
per la musica di Rachele Andrioli e Donatello Pisanello
5 gennaio
La poesia di Anna Maria Mangia e Patrizia Ricciardi letta con
Giovanni Santese e Fernando Bevilacqua
La musica di Mauro Tre e Irene Scardia, Piano Duet
6 gennaio
Da Qui Salento, Salento da favola, storie dimenticate e luoghi ritrovati”
Letture di Andrea Contini, Antonella Iallorenzi, Ippolito Chiarello,
Angela De Gaetano, Piero Rapanà, Mauro Marino,
Simone Franco, Simone Giorgino, Fabrizio Saccomanno

Tutte le serate dalle h. 20.30


Città di Lecce / Assessorato alla Cultura. Associazione Culturale Fondo Verri, Presidio del libro di Lecce. Lemaniel’ascolto, IX edizione. 28 dicembre ’09 / 6 gennaio ‘10

Oltre The Secret di Brenda Barnaby (Età dell'Acquario)

Ormai parlare di The Secret e di Legge dell’Attrazione, vuol dire fare riferimento ad una sterminata bibliografia e videografia a tutt’oggi in Italia edita parzialmente. Tra le opere che recentemente sono uscite nel nostro paese, due in particolare meritano una certa attenzione. La prima di Jack Canfield e D. D. Watkins, edita da L’Età dell’Acquario nella collana Anterpima dal titolo “La Chiave della Legge dell’Attrazione – il metodo Canfield per creare la vita dei tuoi sogni”; la seconda sempre per la stessa casa editrice ha per titolo “Oltre The Secret – nuove rivelazioni del Segreto per cambiare la tua vita” di Brenda Barnaby. Partiamo dal primo libro dicendo che si tratta di una pietra miliare in questi ambiti di ricerca, dal momento che la Byrne - si dice - abbia preso ispirazione proprio da quest’opera per fondare il “sistema filosofico” che l’ha resa celebre in tutto il mondo. La peculiarità del lavoro di Canfield e Warkins risiede soprattutto nell’aver messo l’attenzione sul potere della scrittura e della parola di attivare un processo di energia visualizzante nella mente delle persone che si concentrano sul desiderio di modificare le proprie condizioni di esistenza, tale da aver realmente delle ricadute extra/mentali significative, da lasciare a bocca aperta. Si tratta di qualcosa di semplice e di rivoluzionario insieme. La chiave di volta è l’evocazione di ciò che si desidera, attraverso un’autodisciplina volta a controllare la qualità dei propri pensieri, mediante atteggiamenti e azioni coerenti. Gli autori pianificano esercizi e verifiche, e ciascun lettore è messo gradualmente in condizione di vivere una vita degna di tal nome. Ciò che appare come “segreto” altro non è che la capacità del singolo di mettere in pratica una sorta di ecologia mentalistica tale da condizionarne lucidità e capacità di interpretare i fenomeni che accadono nella quotidianità del soggetto agente. La seconda opera presa in considerazione, quella della Barnaby (realizzata tra l’altro anche con la collaborazione di altri studiosi come Roma Bettoni, Anil Bhatnagar, Gerina Dunwich, Gerald Epstein, Christian H. Godefroy, Alison Greiner, Susan Jeffers, Deirdre Jones, Peter Kummer, Dennis Lewis, Linda Mackenzie, Ursula Markham, James. J. E Constance Messina, Vera Peiffer, Lee Pulos, Peter Ragnar, Remez Sasson, Marty Varnadoe Dow, Waldo Vieira) parte da un’approfondita analisi delle correnti di pensiero e degli autori che fanno parte in maniera diretta ed indiretta del New Thought, per proseguire poi nella definizione di strategie d’azione per quanti volessero andare al di là del “Segreto”. I prodromi delle considerazioni e riflessioni portate avanti dall’autrice partono dalle consuete affermazioni per questa tipologia di pubblicazioni, che dicono come la Legge dell’Attrazione regoli l’Universo, e come il pensiero attragga irresistibilmente ciò che immagina. La singolarità di questo lavoro però, è che ha qualcosa di più esoterico e scientifico insieme ( si tenga presente ad esempio come le teorie di fisica quantistica di cui ne fa ampiamente uso il New Thougth, sono state utilizzate dallo scrittore Dan Brown nel suo ultimo lavoro “Il simbolo perduto”). In sintesi in queste pagine si prende in considerazione la legge, utilizzata anche nella tradizione alchimistica, del “come in alto, così in basso” propria della Tabula Smeralgdina attribuita ad Ermete Trismegisto. Esiste dunque un collegamento tangibile e reale che collega e rende quasi un unico organismo macroscopico l’infinitamente piccolo e l’infinitamente grade, ossia tutte le energie e vibrazioni fanno parte di un’unità psico-cosmica. In più si accostano metodologie di ricerca proprie della psicoanalisi e del mentalismo, alle pratiche mistico/ascetiche la cui fonte sta nelle Upanishad. Il tutto per spiegare che la volontà di realizzare i propri desideri può entrare a far parte della nostra vita. Con la sola forza di ciò che pensa, ciascuno di noi può essere protagonista di una rivoluzione, che comincia nell’interiorità ma si traduce rapidamente in occasioni sorprendenti. Le storie raccontate in questo libro sembreranno a molti incredibili, ma sono tutte vere. Dimostrano che la malattia può essere sconfitta, che qualunque difficoltà può essere superata, che la ricchezza è alla portata di tutti, che l’amicizia non può escludere nessuno.

Nuove rivelazioni del Segreto per cambiare la tua vita

ISBN: 9788871363110

Prezzo € 13,60
invece di € 16,00 (-15%)


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mercoledì 23 dicembre 2009

Roberta Calò, Scavamilanima (Giuseppe Laterza editore, 2009)

Parlare di Roberta Calò e del suo lavoro dal titolo “Scavamilanima” edito per i tipi di Giuseppe Laterza, risulta agevole per la chiarezza degli intenti poetici che sono alla base dell’intera raccolta e per la immediatezza e forza dei versi che l’autrice manifesta senza veli ai suoi lettori. Parliamo di una dimensione lirica dove i sensi sono all'erta e l’amore sviluppato in ogni sua dimensione, e latitudine, tanto che la parola diviene strumento di scandaglio ideale per potenziare il senso stesso del rapporto e del dialogo amoroso che vive del suo essere corpo, pelle, vita. In questi versi sopravvivono solo piccoli ma essenziali punti di riferimento (l’amato è non solo l’oggetto del sentimento ma forza deflagrante eros e sensualità; l’amante invece è universo generante il canto delle due voci narranti e narrate) indispensabili alla sopravvivenza dell’io poetico dell’autrice che proprio per il contenuto essenziale ed esistenziale del canto prodotto cerca di superare solitudine e desolazione con uno sguardo lucido che racconta una realtà come tante, una storia d’amore come tante, ma proprio perché simile a molti altri universi di relazioni amorose, richiede delicatezza, sensibilità, eleganza, e uno sguardo in grado di produrre una scrittura lacerante, lacerata, mai paga.
Roberta Calò è una giovane poetessa che non si risparmia nel suo darsi al pubblico, e non ama nel modo più assoluto fare economia del suo poter essere senza limiti, considerando che si tratta anche della prima raccolta poetica. E devo dire che sebbene si tratti di un’opera prima, non vi ho trovato solo entusiasmo, e determinazioni tipiche dell’esordio, della giovane età o di altre caratteristiche che comunque rientrerebbero in altri criteri di analisi extra-testuali, di chi insomma è alle prime armi in un mondo come quello della Poesia rischioso, rischiosissimo soprattutto se si pensa all’enorme produzione di pseudo-poesia che oggi riempie gli scaffali di molte librerie nel nostro paese. L’autrice è sulla strada giusta, quella della maturità poetica che sa cogliere l’universale nel particolare, ovvero quella capacità di saper essere nei cuori di chiunque parlando delle proprie esperienze e di rendere tutto questo entrando nel respiro del verso e nel suo ritmo. Ingenuamente (perché ancora lontana da un’autoconsapevolezza di poter divenire grande con la sua Poesia) nella sua prefazione al volume, spiega il miracolo di un sentimento che diviene per lei incanto cosmico: l’amore, quello di cui tutti parlano, da tutti vissuto e a volte perso, di cui comunque non si finirà mai di dire e di trattenere nel cuore e nei gesti. Roberta Calò è in grado di trascinare il lettore in un turbinio di versi caldi, a volte “very hot”, a volte delicati come le nuvole, ma gravidi tutti di inarrestabile furore, e gemito che toglie il respiro. Sono d’accordo con quanto scrive Lino Patruno della giovane autrice dicendo che la sua scrittura è perennemente oscillante “fra torrido erotismo e ingenuo candore”. Ed ecco allora che Roberta Calò ci farà immergere in tracciati di pelle e gola, sudore, sesso, e sentimento, tra il senso dell’oblio e la ricerca di un’identità corporea, sciolta e ricomposta incessantemente dalla parola, quasi in un’estasi orgasmica che brucia gli attimi. Un lavoro che si lascia apprezzare nel suo parlare e scrivere di amore e di morte e forse … di altre sciocchezze!

L'acqua scivola sul mio corpo
come la tua mano avanza dentro di me

e goccia dopo goccia
ci incontreremo
nell'abbraccio di un'onda

martedì 22 dicembre 2009

STORIA DI GIUSEPPE, DAGONET E TANTI ALTRI AL MONDO. Di Silla Hicks















A volte la nebbia è così spessa che proprio devi fermarti e aspettare ore che non passano, incolonnate come tir sull’Adriatica mentre fa giorno.
E non puoi nemmeno bere che se ti beccano all’alcolemico addio patente, così parlare e mangiare e fumare è tutto quello che riempie il vuoto: chi può telefona o dorme, sì, ma siamo tanti a non avere nessuno da chiamare o rivedere chiudendo gli occhi, tanti a restare lì, immobili, sulle sedie di plastica fuori da un autogrill mentre il grigio ci si condensa addosso. Nel fumo di MS fissiamo il vuoto umido che ci avvolge, potrebbe esserci qualsiasi cosa, ovunque, oltre i pochi centimetri che possiamo scandagliare. Alberi, case, persone, che lavorano e vivono e fanno l’amore, strade che portano a casa, ammesso se ne abbia una. Qualcuno tenta di indovinare, altri non sono così fortunati da aver voglia di provarci e s’azzuffano, litigano per cazzate, bestie che finalmente hanno il tempo per rendersene conto, per pensare.
Io li guardo, ci guardo, e finalmente capisco di avere un posto nel mondo, non importa se scomodo e umido e freddo, è il mio posto, questo, e io sono uno di loro, uno di questi articolati forzatamente fermi cui nessuno fa caso, tappezzeria delle autostrade, lavori in pelle, direbbe Ridley Scott, che come tutti hanno le stesse domande e la stessa mancanza di risposte, anche se non dovrebbero, anche se a nessuno importa. Mentre tiro fuori il termos dallo zaino lo sento, più che vederlo, sbattere il portello del suo Scania bianco e sedermi vicino senza dire niente, l’offerta di una sigaretta come saluto mentre si passa la mano sul cranio rasato, non credo ricordi di non avere i capelli. Porta occhi più azzurri dei miei, del celeste assoluto che è sopra di noi oltre la caligine densa che non ci lascia vederlo e una cicatrice dal sopracciglio al labbro che gli attraversa la faccia arrossata come il trucco pesante di un mimo: è lo sfregio del sergente Barnes che gli dà l’aria triste di un gigantesco Pierrot. Perché è alto, alto quasi quanto me e forse venti chili più pesante, un colosso, sì, ma anche un origami nelle parole che gli gocciolano lungo il solco slabbrato che dovrebbe indurirlo e invece l’addolcisce dell’imperfezione umana mentre cerca il coraggio per dirle: non so perché a me, ci conosciamo appena. Di lui so il nome, il CB e poco altro, so che malgrado l’aspetto vichingo è italiano e meridionale, e abita a Taranto: me l’ha detto, una volta, ma è stato prima che ritrovassi la capacità di ascoltare, che tornassi me anche senza esserlo, dio, mi hai bruciato l’anima, solo da qualche mese ho ricominciato a sentire almeno dolore. Ma lui non può saperlo, lui crede che io rammenti, e mentre penso solo che somiglia al personaggio di uno dei miei film ma non so bene quale, è convinto che io sappia già che l’ha conosciuta quest’estate, che ricordi tutto quanto mi ha detto di lei mentre solo adesso scopro che ha vent’anni meno e il codino, che lavora all’Esselunga e porta vestiti leggeri anche d’inverno. Particolari così minuziosi che posso quasi vederla, questa ragazzina che descrive dipingendola e pretende io riconosca, perché non può credere ci sia qualcuno immune dal demone che lo possiede come tuttora io non mi rassegno a che tutto esista anche senza noi. Vorrei dirglielo: non mi merito questo regalo, non mi merito il tuo cuore e il tuo sangue, davvero non so quasi chi sei, davvero non ricordo, non so niente, nemmeno ti stavo a sentire. Vorrei dirglielo, ma all’ultimo momento capisco, sarebbe ancora peggio voltargli le spalle adesso, nella nebbia, mentre il racconto gli si affolla sulle labbra spaccate dal freddo e forse dalla febbre, col brusco cambio di temperatura quasi tutti noi andiamo avanti a nimesulide e lui ha i brividi sotto la giacca a vento di nylon giallo con la zip tirata fino al mento: non s’è mai accorto che non lo ascoltavo, fuori dalla mia consapevolezza non gli ho mai fatto veramente male, ma potrei fargliene adesso, e non volevo e non voglio. Perché davvero quasi non lo conosco, ma vorrei abbracciarlo, quest’omaccione di cinquantatre anni e due metri che s’accartoccia sulla sedia di plastica, qui, davanti a me, ai piedi della sua Cristina che fa la ragioniera e doveva essere un’avventura e invece gli ha mangiato via il cervello e la vita, questa ragazza che è un fuscello ma gli si è abbattuta addosso come una sequoia, imprigionandolo tra il proprio corpo e i cocci di tutto il resto. Ha moglie e due figli grandi, il camion è suo, si è comprato casa e aveva una vita, fino a ieri. Qualche storiella in giro, sì, perché gli piacciono le donne e lui piace a loro, così granitico e immenso e con quella faccia e con quel sorriso e con quel modo sfacciato di spogliarle coi suoi occhi così azzurri: ma sempre niente di che, in piedi contro un muro e poi tornare da Adele e i suoi strilli nel cellulare, ma dove sei, stai dormendo, si sono messi insieme adolescenti e certo l’amore è un’altra cosa, ma cazzo, c’è una vita intera di mezzo e i ragazzi, che hanno studiato e saranno qualcuno, nella patente la foto della figlia, che è anche lei bionda, ed è bellissima e torna solo a Natale, Manuela che fa l’architetto, e sì, mi ricordo, almeno di lei. Ma poi c’è stata Cristina, Cristina cui ha dato un passaggio a casa un giorno che i treni erano in sciopero e lei aveva la macchina rotta, un passaggio dopo qualche settimana di schermaglie, che doveva essere un episodio e invece ha cambiato tutto il film. Sliding life, come porte che scorrono e tutto cambia se sali o no sul quel vagone, sul sedile dello Scania sono passati dallo scherzo più o meno allusivo ai fatti concludenti, o meglio è stata lei a passarci, mentre lui continuava a guidare. E quaranta chilometri scarsi d’autostrada sono stati due ore e mai era stato così, senza nemmeno fermarsi, la sua bocca e le sue mani dappertutto, che proprio – testuale – avrebbe voluto ricambiare, ma lei gli ha detto no, non sono cose che si ricambiano, e: sono collaudato a centotrenta, conclude, fiero e insieme quasi ancora incapace di crederci lui stesso, d’altronde: sai, anche lei mi ha detto che se l’avessi raccontato in giro non mi avrebbe creduto nessuno. Ma no, io invece lo credo, ti credo, Giuseppe, e poiché ti credo so anche che non è stato quello, non è stato per un pompino che sei ridotto così, che di certo te ne avranno fatti tanti altri, e anche migliori di quello che può averti fatto mentre guidavi una ragazza con le labbra sottili da cui avevi strappato via il gloss a morsi, che invece ti è parso l’unico della tua vita perché quelle erano le sue labbra, e quella era lei. È così che funziona, con l’amore, ed ho già capito tutto ma non voglio interromperlo mentre si affanna a cercare le parole per spiegare com’è stato: parole accurate, delizioso, sopra tutte, parole che non ti aspetteresti e invece ci sono, perché ha la terza media, forse, ma ha letto La Storia della Morante un mare di volte, e anche L’isola di Arturo, perché è un camionista ma anche un uomo, e per quello non servono le scuole ma solo occhi per guardarsi attorno, e i coglioni per tenerli aperti, anche, vabbè, ma questa è un’altra storia. Ed era il trenta di ottobre, ed era sabato, e il lunedì mattina è andato a prenderla per portarla al lavoro e vaffanculo c’era anche Paolo che doveva aiutarlo a scaricare e per tutta la strada le ha guardato le gambe e si è sentito esplodere senza poterla sfiorare: mi dice della sua pelle sotto le calze che gli si incollava al cervello, si era messa la gonna apposta per smarrirlo e ci era riuscita bene. E quando è scesa e Paolo ha detto che era un gran gnocca, allora l’avrebbe ammazzato, davvero, voleva mettergli le mani al viso, che cazzo, come si permetteva, era roba sua. Me lo dice così, e senza accorgersene finalmente ammette che già non poteva essere una scopata e basta, e che se anche lei non avesse compiuto gli anni dopo qualche giorno e non le avesse regalato una notte intera qualcosa dentro il suo meccanismo di chilometri da e fino a casa s’era inceppato senza rimedio, nel momento esatto in cui le aveva sfiorato la faccia con le dita dentro alla cabina, cinque minuti dopo che era salita, prima ancora di baciarla e tutto il resto. Ma comunque sia, poi c’era stata la sera del quattro novembre che s’erano visti alla fine del suo turno nel piazzale dell’Esselunga, e mentre l’aspettava già sentiva le sue mani sulla pelle sotto la maglietta e la camicia, leggere, dolcissime: sono proprio queste le parole che usa, che scivolano giù dall’azzurro dei suoi occhi lungo la sua cicatrice fino alle sue labbra, e mai te la immagineresti nella sua voce roca e coerente con tutto quanto in lui una tenerezza così fonda mentre le dice, ha la forza di scaricare un rimorchio intero senza transpallet e l’ho visto farlo, ma l’amore l’ha spezzato, come fa con tutti gli altri. Lui non lo chiama, non gli dà un nome, ma in questa nebbia è evidente, che si è perso, ed ha paura, così tanto da non riuscire più a pensare né a salvarsi, e no, non gli servirebbe una doccia fredda, anche se è questo che le ripete quando l’incontra, il fatto è che paradossalmente è solo con quel corpicino addosso che si sente al sicuro. Così immenso, con quelle spalle e quelle braccia, sta tutto nella mano di una ragazzina, rannicchiato tra le sue dita, perché è questa l’illogicità dell’amore: con il suo tocco lieve lei l’ha fatto a pezzi, non gli arriva nemmeno al petto ma può schiacciarlo, voltandosi appena. Lei non gli chiede né gli ha chiesto niente, ma è lui a chiedere e volere, il suo tempo e i suoi pensieri e naturalmente la sua pelle, è successo tutto da solo, e forse è così che doveva andare, mi dice, Cristina non è come nessuna delle altre. Vorrei chiedergli perché, certo deve avere le palle una che non fa niente per non nascondersi il cuore, che ti guarda dritto e ti dice mi piaci, ho pensato tante volte a come poteva essere fare l’amore con te, volevo baciarti e via dicendo, ma non basta questo, dev’esserci di più per forza, non può bastare fartelo venire duro per farti perdere il senno, tanto più se la prima cosa t’è capitata spesso e la seconda mai. Ancora meglio se quando ne hai avuto la possibilità per la prima volta non sei nemmeno riuscito ad averla da tanto che la volevi: e lui racconta che la notte del suo compleanno ha passato gran parte del tempo a tenerla soltanto abbracciata, coperto di sudore freddo, disteso sul suo letto standard in cui non entrava, assolutamente felice di tenerla rannicchiata addosso: quando sono stanco capita, ha cercato di scusarsi, dopo i cinquant’anni non è come a venti, ma lei ha continuato ad accarezzarlo, e gli autotreni possono anche essere fragili, ha sussurrato, perché la cinquecento ha la doppietta e come guidi la guidi lo stesso, un autoarticolato va trattato con cura. Vorrei chiedergli se è stato questo a dare un senso diverso a tutto, ma non me ne lascia il tempo, e forse non gli importa nemmeno, parla di lei perché ne è intriso e questo basta: come e perché sia successo adesso non ha senso chiederselo, ed è comunque tardi. E forse lo è stato sempre, ha ragione lui, le cose succedono da sole, anche se no, ha torto, non è perché siamo grandi e consenzienti né perché – testuale – siamo due persone che si stimano, si vogliono bene e si piacciono molto, perché fosse così resterebbe posto, per Adele, e casa, e tutto il resto. Invece Cristina non ha lasciato posto a niente, l’ha travolto davvero come un tir e se l’è portato via, ridotto a carne maciullata e indifesa e sanguinante, e se lei ha mani delicate e lui morse attaccate ai polsi è solo un dettaglio, incongruo, sì, ma niente è mai come sembra, e io dovrei saperlo, in fondo, io che aspetto ancora che torni anche se sono passati quasi tre anni e lo so, che non tornerai. Io che ascolto quest’uomo, qui e adesso, fuori dalla stazione di servizio Chienti che è un’ora da Fano e a trenta minuti da Ancona Nord, quest’uomo che svuota la sua anima su questo tavolino di plastica come uno zaino in cui cerca le chiavi che non riesce a trovare, come se esistessero chiavi, come se esistesse via d’uscita, come se ci fosse modo di tornare a casa quando ci si è persi nella nebbia e sta diventando tutto freddo e buio. Apro il mio termos e gli verso del caffè, mentre lui si passa una mano sulla testa, di nuovo, ma adesso so che non è perché crede di avere ancora i capelli: cerca le tracce delle sue dita, invece.
Adesso la vedo, Cristina, che lo accarezza nella cabina dello Scania, i polpastrelli che s’infilano nel colletto della camicia per avvelenarlo, come serpenti: è esile quanto lui è mastodontico, può stringerla tutta con un braccio solo, e mentre lo fa capisce cosa vuol dire, essere dio. E c’è la strada, che mai è stata così sua come adesso, vorrebbe portarla in un altro mondo ed avere un’altra vita, e vaffanculo a tutto, vaffanculo, cazzo, gli anni gli cadono dalle spalle e la cicatrice si rimargina, non c’è più niente, solo lei: è tutto chiaro, da questa parte della storia, nel fumo di una MS vorrei dirglielo, dirgli che l’amore l’ha infettato, e per questo continua a rabbrividire e senza di lei non c’è cura: ha deciso di essere forte e non chiamarla ma poi squilla il suo telefono, e attraverso il Nokia ne sento la voce, appena percettibile, solo un soffio, come stai. E persino il suo nome comune in quella voce è caldo e liquido, un mare d’estate in cui si ha solo voglia di nuotare lontano, acqua scaldata dal sole, il blu sotto gli scogli che ti porta al largo prima che tu possa accorgertene: sì, ha ragione, è dolcissima, e lieve, persino la sua voce è irresistibile carezza: mi piace immensamente, mi ha detto, e ora quasi so anch’io che voleva dire. E mentre lo guardo parlarle, finalmente ricordo anche in che film l’ho visto, King Arthur di Hans Zimmer, certo: è identico al legionario Dagonet, invecchiato, ma con la stessa faccia di pietra e gli stessi muscoli fibrosi di cavallo da tiro e lo stesso incosciente coraggio di correre sotto una pioggia di frecce per aprire una crepa sul lago gelato a colpi di scure: cazzo, non ho mai capito perché non scegliesse lui, Ginevra, piuttosto che l’arciere Lancillotto o il tormentato Artù indeciso tra Celti e Romani, Dagonet che muore come Polinice, mentre il ghiaccio s’incrina e il lago inghiotte i Sassoni. Non è questo che spero gli capiti, ma certo è possibile, l’amore raramente lascia qualche via di scampo, e non c’è retroguardia che possa coprirti, quando decide di venirti a cercare: ci sei solo tu, senza difese sotto un nugolo di frecce nemiche, dardi che ti strappano via la carne a morsi. Difficilmente si resta vivi e anche quando succede si portano cicatrici molto più dolorose di quella che gli attraversa il viso dall’infanzia, piaghe infette che a tradimento marciscono di cancrena. Vorrei dirglielo, ma è la verità e avvertirlo non servirebbe, adesso l’unica cosa cui può credere è la sua illusione. La sua illusione, e questa sirena con la coda di cavallo che porta mollette viola tra i capelli, che ha oscurato tutto con la sua ombra sottile e se lo porta dietro, nella mano. Cristina che non è come nessuna, perché l’amore ha mille facce, e questa è quella che ha guardato lui. Quando chiude, la nebbia ha cominciato a diradarsi, e qua e là il cielo è un frammento dei suoi occhi, azzurro intenso e terso, di cui c’è solo l’ombra, nei miei. Ci alziamo e gli tendo la mano, ma lui l’afferra e mi abbraccia, un muro di cemento armato che mi appoggia la testa rasata sulla spalla: grazie, mi dice, sorridendo, avevo davvero bisogno di parlare. Mentre riavvio il motore, lo Scania bianco è già uscito dall’aera di servizio, trascinandosi dietro il suo rimorchio e tutto quello che adesso so e non potrò scordare. Vorrei avere la speranza che ora lo scalda, la temperatura si è abbassata ancora. Apro una bustina di nimesulide, me la verso sulla lingua e l’ingoio, col resto del caffè. Senza accorgermene, sorrido. Non è detto che anche per lui sarà la stessa cosa, che finirà nello stesso modo, non è detto che anche i suoi occhi sbiadiranno e che si sveglierà e non riuscirà più a sentire niente, nemmeno dolore. Non lo so, che farà. Non lo so, come e per quanto potrà incastrare il dilagare di Cristina con quello che ha costruito finora, né se tutto finirà per travolgerlo e spazzarlo via, non so quanto dovrà soffrire e lacerarsi: di certo, che scelga lei o no, so che si farà male, e che arriverà il momento in cui sanguinerà e cercherà di tenersi dentro gli intestini con le dita, come Dagonet sulla lastra di ghiaccio che si spacca. Ma potrebbe riuscire a rialzarsi, e ad arrivare dall’altra parte, sulla riva. Ancora vivo. King Arthur, in fondo, è solo un film. Dagonet muore, io non ho avuto altrettanta fortuna, ma può darsi che a lui vada in modo diverso, che riesca a farcela, a stringere l’amore tra le dita, a non lasciarlo cadere e sfracellarsi, e insieme a non farsene fare a pezzi. Ma quando passo davanti all’Esselunga è la pausa pranzo e rallento, per vederla: fuma una sigaretta nel piazzale, una ragazza davvero sottile che non arriva all’uno e settanta, i capelli legati a coda che scendono fino a metà delle spalle. La mia piccolina. Si volta, e per un attimo ne incrocio gli occhi sfumati, porta un giacchetto leggero e i jeans negli stivali made in China e tutta la dolcezza del mondo a scaldarla in quest’aria tagliente – ci sono otto gradi. La mia piccolina. Vorrei raccontarle un’altra storia, ma non sono mai stato capace di inventare, e lo so che non ci può essere nessun lieto fine. Perché non c’è ne è mai, non solamente nei film, e la vostra, hai detto bene, è una storia assurda, Giuseppe, lei vent’anni di meno e tu sei sposato e per quanto tu sia forte non lo sei abbastanza per scardinare il mondo, né per andare oltre lei che ha la luce attorno. No, davvero non lo so che sarà di te, Giuseppe, né di Cristina, ho chiuso gli occhi sul finale, perdonami. La vedo, passarti le dita sulla testa rasata, in piedi è alta poco più di te seduto, ti accarezza la faccia e la stringi forte come per assorbirla nel tuo corpo: se solo potessi tenertela dentro, nascosta così che nessuno possa vederla, questa cosa che è più tua di tutto il resto, perché non devi chiamarmi, lo fai solo se vuoi, ti ha detto, ma poi è stata lei a farlo, come stai, e tutte le tue difese si sono incenerite: no, davvero non lo so, che ne sarà di voi, non lo so e non chiedermelo, non oggi, soltanto lasciami qui qualche minuto ancora, senza pensare, lasciami qui, soltanto a guardarla. In questo freddo in cui lei porta vestiti estivi e scalda l’aria attorno, col respiro.

ogni riferimento a cose, fatti, persone e luoghi è frutto di pura fantasia dell'autore

referenze iconografiche: Elegy for Darkness-The Lady of Shalott". Appearing on the cover of the novel, Banewrecker by Jacqueline Carey (57" x 46" Oil on Paper on Panel). © 2004 Donato Giancola - collection of Scot Tubbs.
http://www.donatoart.com/paintings/elegyd2.jpg

lunedì 21 dicembre 2009

Maddalena Mongiò parla di "Separè" di Annalisa Bari (Giuseppe Laterza) e intervista l'autrice

La grande distribuzione, sempre più aggressiva, non si accontenta di attirare clienti con le offerte a prezzi stracciati. In tempi di crisi lo sconto sul prodotto non è sufficiente a ravvivare un mercato in cui non girano troppi soldi. La ricetta? individuare nuove tipologie di prodotto, da offrire ai clienti, per risvegliare la sopita voglia di acquisti. Parte così lo sconto selvaggio al libro con percentuali di ribasso che possono sfiorare il 40% sulle novità. Questa politica di vendita non può lasciare indifferenti perché incide profondamente sulla realtà editoriale e distributiva del libro. I primi a pagarne le spese i librai indipendenti che mai potrebbero applicare un simile sconto, a seguire la stessa produzione editoriale che potrebbe ancor più essere indirizzata verso titoli a grande tiratura. Per chi ama il libro un’ipotesi sconfortante. Resistere resistere resistere, veniva affermato per ben altre ragioni, ma oggi è il motto da adottare per difendere la possibilità di continuare a fare cultura. In questa stretta mortale il rischio di soffocamento, per gli scrittori che non sono nelle top ten, per gli scrittori che vivono per la scrittura, per gli scrittori che amano dare vita alle storie che popolano la loro fantasia, per tutti loro la possibilità di asfissia è concreta. Ogni euro risparmiato, ogni euro che felici tratteniamo nel portafoglio acquistando libri super scontati, determina una potenziale perdita di patrimonio umano e culturale. Rischiamo di dover rinunciare alla libreria indipendente che ha fatto del rapporto con il cliente il suo punto di forza. Rischiamo di dover rinunciare ai narratori che non fanno cassetta, ma hanno ricchezza narrativa da regalare ai lettori. Questo scenario si profila in un momento culturale in cui gli scrittori spuntano come fossero funghi prataioli, come se un virus si aggirasse impertinente tra le penne di più o meno dotati. Ovvio anche l’editoria a pagamento, vero e profondo cancro della letteratura contemporanea, ha dato il suo contributo alla corposa schiera di aspiranti scrittori. Il tutto alimentato dal glamour che accompagna lo scrittore di chiara fama. Anche il Salento ha vissuto e vive una stagione di grande fervore letterario. Una corposa produzione ha rimpolpato i cataloghi delle case editrici locali e un tourbillon di presentazioni rende effervescente il salotto culturale salentino. “Fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza.” Scrisse un grande. Cosa rimarrà del nostro fervore creativo? Poco, molto poco. Molti dei libri che trovano accoglienza editoriale si giustificano unicamente per l’autoreferenzialità dei vari circoli pseudo intellettuali liberamente costituiti. Poche le penne che meritano attenzione, che si presentano al lettore con un bagaglio di competenze e di padronanza del mestiere tali da meritare la lettura. Annalisa Bari è una tra le voci narrative più interessanti del panorama letterario salentino e non. Autrice prolifica, in una manciata d’anni ha già prodotto cinque romanzi e il suo ultimo, “Separé” edizioni Giuseppe Laterza, è appena arrivato in libreria.

“Separé” racconta del mondo dell’avanspettacolo. Perché si è interessata a questo momento della storia del costume e dello spettacolo?
In realtà volevo scrivere un romanzo sugli odori. Gli odori sono di due tipi: quelli familiari che riconducono alla quotidianità, alla famiglia e quelli che riconducono al mondo dei sogni. L’odore del soffritto, del bucato, del caffé, fanno parte del mondo delle esperienze della vita di ogni giorno. Il mondo sognato è fatto di essenze e da qui il passo è breve verso il mondo della donna e di quella dello spettacolo in particolare. La donna del varietà compariva e scompariva, come una meteora, lasciando nostalgia e la memoria olfattiva di un profumo. L’olfatto ha una capacità evocativa e può raccontare, come ben ci ha insegnato Proust.

Parlando di quel mondo ha voluto segnare le differenze che distinguono il mondo dello spettacolo di oggi e di ieri?
È stato un punto di arrivo. La storia mi ha trascinata. La minuzia descrittiva del mondo dello spettacolo di ieri può essere la chiave di comparazione tra quello che era e quello che è l’universo dei lustrini e delle paillette.

“Separé” è un’opera di fantasia o è un romanzo che racconta una vicenda di vita vissuta.
Ci sono aspetti autobiografici. Avevo più o meno sette anni e con la mia famiglia assistetti a uno spettacolo di avanspettacolo. Me lo ricordo bene. Era un mondo lontanissimo da me che vivevo in un paesino sperduto, l’impressione è indelebile e il lettore la ritrova nella voce narrante della bimba, nipote della protagonista, che vive con la zia e l’accompagna in teatro attendendo in camerino la fine dello spettacolo.

Quindi ci sono, nel personaggio della bambina, aspetti in cui si riconosce?
Sicuramente. La scoperta della scrittura, è la mia. Ho raccontato esattamente il modo in cui io mi sono avvicinata alla scrittura. Quello è il mio pezzo d’infanzia, ma è nella psicologia femminile di Giorgia, la protagonista, che io mi riconosco. Come lei, anch’io tendo a rinviare la soluzione di un problema e ad assumere decisioni istintive che possono rivelarsi sbagliate. Come lei, divento aggressiva, ariete che cerca di sfondare il muro. Mi ritrovo in questo personaggio.

Si ritrova anche nel suo spirito di abnegazione?
Giorgia ha condizionato la sua vita per occuparsi della nipote e anch’io agirei nello stesso modo per le persone che amo. Credo sia una caratteristica che accomuna molte donne.

Qual è il romanzo, tra quelli di cui è autrice, che ama di più?
“I mercanti dell’anima” .

Vuole spiegarci il perché?
Mi piace il romanzo storico, amo la Storia. Adoro immaginare la vita di gente vissuta in un periodo storico lontano. Adoro rappresentare la vita di gente anonima che non trova spazio nelle pagine della Storia.

Quindi ha rimpianto per l’assenza di un Grande Fratello ante litteram che documentasse gioie e dolori di un’epoca passata?
No. Non è questo che intendo. Io sono interessata alla vita reale, concreta, i personaggi del Grande Fratello sono fittizi costruiti ad hoc. Chi partecipa a quella trasmissione è sotto i riflettori e si adegua al ruolo che gli è stato assegnato. A me interessa mettere in luce un’epoca e le modalità di vita in quel contesto storico e in quelle condizioni. È una passione, una passione che mi accompagna sin da quando ero una studentessa.

A quando il nuovo romanzo?
È in cantiere. Sto lavorando a un racconto documentaristico sulla famiglia Storace, nel periodo tra le due guerre.

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domenica 20 dicembre 2009

Anarquistas, graças a Deus - Zélia Gattai. Editora: Companhia das Letras Literatura Nacional.Di Adriana Maria Leaci

Ser a mulher de Jorge Amado era já algo de muito especial mas, Zélia Gattai, carregava dentro de si muitas histórias fascinantes que inspiravam alguma coisa a mais. Foi o mesmo Amado que lhe sugeriu um dia, visto que Zélia gostava de contar as aventuras de toda a sua família com tanta paixão, reunindo parentes e amigos que ficavam escutando as suas recordações com interesse e muita atenção, de tentar passar no papel e transmitir por escrito, enfim que ela sentasse e escrevesse. E foi o que ela fez. Começou com rascunhos que era certa não tivessem nenhum valor. Zélia Gattai se sentou e contou toda a sua vida e nao só, começando pela imigração dos pais, italianos, imigrantes de regiões diferentes: Toscana e Vêneto. Cada um com a sua concepção de vida, amorosos e respeitosos recíprocamente. Pessoas que se uniram e fundaram uma família dentro de valores que se somaram a todos os imigrantes, e acabaram por construir os valores de grande parte da população de São Paulo. A descrição dos fatos é construida em base às próprias recordações, pulando de um parente ao outro, passando pelos avós, depois contando dos vizinhos de casa, dos colaboradores da família, da empregada que trabalhava para a mãe, dos tios, dos funerais e dos nascimentos, sem uma ordem temporal mas, com uma sequência sem par de bons sentimentos. Surge assim, de maneira instintiva, uma escritora de memórias que surpreende pela naturalidade, pela observação dos detalhes e pela habilidade na utilização de termos que escorrem livres, como um grande caminho de contos. Zélia leva três anos para elaborar essa sua primeira obra, publicada pela primeira vez em 1979, sem privar seu núcleo familiar do próprio cotidiano, escrevendo nos momentos de pausa, sem a pretensão de fazer literatura, como diz o mesmo Jorge Amado na introdução. Mas o que emociona, atrai e faz grudar os olhos do leitor é o jeito familiar de escrever que se transforma, sim, em pura literatura popular, que alcança todas as gerações, que não engana as expectativas. Zélia tem o poder de entrar na alma do leitor e foi assim, provavelmente, que ela entrou também na Academia Brasileira de Letras, ocupando a mesma cadeira que pertenceu ao marido, conquistando os grandes acadêmicos da literatura simplesmente através da sua graça comunicativa. Anarquistas graças a Deus, já foi reeditado mais de 30 vêzes. Atualmente foi efitado pela editora Companhia das Letras e continua sendo lido por inteiras gerações. E’ um livro que, pessoalmente, não desejava que acabasse. Um livro que me ajudou e me inspirou, e assim pode acontecer com o próximo leitor.

Anarquistas, graças a Deus - Zélia Gattai. Editora: Companhia das Letras Literatura Nacional / Biografias e Memórias

sabato 19 dicembre 2009

Omicidio a Road Hill House ovvero invenzione e rovina di un detective. Storia di un omicidio datato 1860 (Einaudi). Di Maria Beatrice Protino

Il romanzo di Kate Summerscale (Einaudi 2008) vince il prestigioso Samuel Johnson Prize 2008 per la saggistica e conquista un vastissimo pubblico. La sua forza: poter essere letto a diversi livelli, cioè come un giallo ambientato in epoca vittoriana, come ricostruzione storica di una vicenda realmente accaduta e documentata in modo ineccepibile e chiaro, come significativo ritratto di un’epoca – quella del diciannovesimo secolo inglese - dominata da un’opinione pubblica ancora stretta in fortissimi pregiudizi, ma anche epoca d’oro del romanzo inglese e della creazione della figura del detective. In una notte d’estate del 1860, in un’elegante casa in stile georgiano del Wiltshire - di cui vengono riportati foto e planimetrie dell’epoca - mentre tutti dormono, un bambino di tre anni, Saville Kent, viene prelevato dalla suo lettino e assassinato. I genitori che dormono nella stanza accanto e la bambinaia che riposa addirittura nella stessa stanza del bimbo, non si accorgono di niente. Solo il mattino dopo l’orribile scoperta nel giardino della casa: il bambino è stato sgozzato e avvolto in una coperta. La polizia locale, prima ad arrivare sul posto, si dimostra incapace di indagare, così viene mandato sul posto l’ispettore di Scotland Yard Jack Whicher: lui, per primo, userà metodi di indagine che poi diventeranno famosi al pubblico dei romanzi gialli di Dickens, Stevenson o Conrad, che si ispireranno proprio alla sua figura per creare i loro personaggi immaginari. Le conclusioni del detective, però, non saranno accettate: solo in un secondo momento e dopo anni - che vedranno pagine di quotidiani e fantomatiche giurie popolari affannate attorno ad un caso - si riveleranno esatte. Leggere questo libro significa scorrere la storia di un’epoca, oltre che quella di un omicidio: dai continui riferimenti letterari alla narrativa vittoriana - a dimostrare di come una parte essenziale della scuola gialla inglese affondi le sue radici proprio in questo caso di cronaca - alla recente invenzione della figura del detective - un poliziotto in borghese, ancora poco conosciuto dall’opinione pubblica e che, proprio grazie alle prime pagine del giornali che per anni si interrogarono morbosamente sul reale assassino del bimbo, fu dipinto ora come un eroe ora come un intruso nelle mura domestiche della ricca casa borghese, terrorizzata dallo scandalo. Ma la scrittrice offre anche una visione interna del delitto, attraverso la presentazione di uno scritto di pugno dell’assassino, ritrovato decenni dopo e che lascia poco all’immaginazione e molto alla pietà. La riflessione finale della scrittrice, attenta e sensibile alla vicenda umana, lascia il solito retrogusto amaro di chi non può intervenire in alcun modo sugli esiti della vicenda: «.. immagine che ci restituisce il bambino in vita, un bambino che si sveglia e di colpo si vede perduto. Quando ho letto queste parole mi sono ricordata, con un sussulto, che Saville è esistito davvero, che era vivo e vegeto. Nel dipanare la matassa di questo delitto me ne ero come dimenticata».

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giovedì 17 dicembre 2009

Vito Antonio Conte su "Senza Storie" di Luisa Ruggio edito da Besa

“Senza Storie”, edito da Besa nella Collana “Nuove Lune” (pagg. 154, € 14,00), è l'ultima boutade che Luisa Ruggio ha donato, come altra parte di sé, ai suoi lettori. Trentatre racconti brevi. Credo poco alla numerologia e altre similari scienze e parascienze, ma se i numeri contano qualcosa (e io, l'ho detto o lo ripeto ancora, ci credo all'unica condizione che rivelino dei contenuti...), allora tra la scrittura di questa raccolta di “Storie” di numeri ne troverete quanti volete: tutti quelli della vita e, financo, della morte. Ché non si può discernere la prima ignorando la seconda. Ché si può apprezzare in tutte le sue espressioni la vita soltanto se non s'incorre nella presunzione di credersi immortali. Ché l'unica immortalità è data dal vivere sino in fondo e autenticamente ogni istante prima della fine. La fine, così, può segnare un altro inizio. E non c'è nulla di religioso (in senso canonico) in quanto affermo. Se volete, paradossalmente, è quanto di più religioso abbia mai detto. Ché la religione (scevra da pregiudizi, definizioni e timori) è cogliere le contraddizioni dell'esistenza. Anzi delle esistenze. E scommetterci sopra. Donando il meglio di sé. Ch'è quel che si è! Luisa Ruggio è tante cose, tante esistenze, tanti respiri, molte delusioni, parecchie gioie, una manciata di felicità, qualche nodo irrisolto, angoli bui, piazze piene di luce e Amore. Ma, soprattutto, è scrittura. Ché tutto quel ch'è Luisa, tutto quel che c'è d'intorno a Luisa, tutto quel che dentro Luisa s'agita, tutto diventa scrittura. E la scrittura, come espressione di quel ch'è stato, ch'è e che ancora sarà del Suo vivere, è il meglio di Luisa, è il meglio che può dare a chi vuol leggerla... Con quest'unico dubbio: non so sino a che punto la Sua scrittura è vissuto e quando -invece- diventa desiderio di vita o premonizione del divenire. Di storia in storia, esergo dopo esergo, citazione dopo citazione, troverete nei racconti che leggerete tutto quel che l'Autrice ama di più e che di più la fa soffrire: dal cinema alla letteratura, dalla musica alla pittura, in una sequenza di giorni dal sapore autentico in ogni soffio di canzone, in ogni scena rubata a un film, in ogni dialogo estrapolato da un litigio tra vicini, in ogni istante di tristezza fermato in una nota, in ogni momento di violenza quotidiana, in ogni ricordo che non può promettere più nulla, in ogni contatto che mai più sarà, in ogni cosa di quest'andare verso l'Amore che, sì (haivogliaadire!), c'è, dannatamente c'è, grazie a dio c'è! Attraverso infiniti passi c'è. È tante cose. E una soltanto. Il segreto per comprendere questo e il luogo in cui dimora, Luisa Ruggio lo conosce e lo rivela, sol che si sappia trovarlo nella Sua scrittura. Già, una volta ancora: la scrittura: quella di chi, come me, vorrebbe essere capace di rendere (come mezzo per dare se stesso a chi continua -a ogni sole che sorge, come a tutte le notti che arrivano- a dipingere di luce questo schifoso triste barattare l'anima con la mercificazione imperante dell'acquista usa e riempi i cassonetti dell'immondizia... e del tutto a ciò sotteso e/o teleologicamente connesso...), vorrebbe distillare parole per disvelare un'altra via possibile, senza la presunzione d'indicarne il cammino. Luisa Ruggio possiede questo segreto. Cercatelo nei racconti di questo libro, il più bello scritto dall'Autrice, proprio per la scrittura in cui è reso e che non m'impegnerò a spiegare... sappiate, però, ch'è un distillato di parole. Un distillato di parole. Un distillato di parole. Ottenuto senza alcuna alchimia, ma dopo lungo procedimento iniziato con dolorosa spremitura di visioni, di ascolti, di pensieri, di letture, di momenti di colori diversi in cui predomina il porpora: quello della passione: quello che ti fa fare qualunque cosa in cui credi davvero come se fosse l'ultima che fai. Lo stesso delle parole usate da Truffaut per dire quel che aveva appreso da Rossellini: “O faccio questo film o crepo”.

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Gargoyle presenta L'ospite maligno / La stanza al Dragon Volant di Joseph Sheridan Le Fanu. Traduzione e introduzione di Sandro Melani

Tracce - L'ospite maligno: alla fine Settecento, il nobile Richard Marston, dopo aver sperperato gran parte del suo patrimonio per estinguere i debiti di gioco, ormai decaduto, si ritira a vivere, con la moglie e i due figli, nel Cheshire, presso la tenuta di Gray Forest, un'imponente magione di campagna circondata da un bosco vasto e selvaggio. Divenuto cupo e diffidente a causa del suo declassamento, l'uomo sembra trovare sollievo unicamente nell'isolamento: evita i signorotti del luogo ben più fortunati di lui ed è estremamente parco di affetto anche verso i familiari. Tollera a malapena la presenza estranea di Eugénie de Barras, l'ambigua istitutrice francese di sua figlia, mostrandosi refrattario a qualunque novità. È dunque con enorme contrarietà che Marston accoglie la notizia dell'arrivo di Sir Wynston Berkley, suo lontano e odioso parente. Una visita che si annuncia carica di cattivi presagi. La stanza al Dragon Volant: 1815, poco dopo la disfatta di Napoleone a Waterloo, in piena restaurazione della monarchia borbonica, giunge a Parigi il giovane e facoltoso Richard Beckett, persuaso che la capitale francese possa portargli fortuna sia ai tavoli da gioco che in amore. In una sosta del viaggio, il gentiluomo inglese s'imbatte nei conti di St. Alyre, restando fulminato dalla bellezza della contessa. Determinato a rivedere la donna, Richard si affida al marchese d'Harmonville, ben inserito nella mondanità parigina, che gli consiglia di alloggiare a Versailles nella locanda del "Dragone volante", confinante proprio con la residenza dei conti. L'unica stanza dell'albergo rimasta, però, è rinomata per essere stata sfondo delle inquietanti sparizioni di chiunque vi abbia soggiornato. Il giovane sembra infischiarsene, ma sarà costretto a ricredersi, quando capirà di essere la vittima designata di un'ingegnosa quanto diabolica macchinazione.

Il libro - Rielaborazione di "Some Account of the Latter Days of the Hon. Richard Marston of Dunoran", storia d'ambientazione irlandese pubblicata a puntate sulla «Dublin University Magazine», tra l'aprile e il giugno del 1848, L'ospite maligno (The Evil Guest) uscì nel 1851 nella raccolta Ghost Stories and Tales of Mystery. Gargoyle lo propone per la prima volta ai lettori italiani nella traduzione di Sandro Melani, poiché il racconto è rimasto finora inspiegabilmente inedito in Italia. La stanza al Dragon Volant (The Room in the Dragon Volant) fu pubblicato nel 1872, dapprima a puntate sulla rivista «London Society» e poi all'interno di quella che è probabilmente la più importante antologia di Le Fanu, ossia In a Glass Darkly, che comprende anche i racconti Green Tea, The Familiar, Mr Justice Harbottle e il celebre Carmilla. Se ne L'ospite maligno il terrifico si fonde al mystery, conferendo alla narrazione le tonalità fosche della ghost story e richiamando tutti gli elementi del gotico dell'epoca, La stanza al Dragon Volant può leggersi anche come un breviario di "ars furfantesca" all'insegna di un esilarante humor nero, dove al giovane protagonista rubano la scena navigati professionisti del camuffamento e della doppiezza, che hanno fatto dell'impostura la propria raison d'être. In questo secondo racconto sono addirittura riscontrabili echi del teatro elisabettiano, rendendo possibile un accostamento con il Volpone di Ben Johnson. Sia ne L'ospite maligno che ne La stanza al Dragon Volant, continue sono le allusioni al soprannaturale, sebbene in essi non ci sia nulla di veramente tale e gli intrecci che legano i vari personaggi affondino, anzi, nella più bieca terrenità. Risiedono proprio in questa raffinata distonia tra cifra stilistica e contenuto il tratto distintivo di Le Fanu e la sua grandezza. La cornice gotica viene, dunque, aggiornata a favore di un dinamico rimescolio delle carte in tavola, dai risvolti imprevedibili: se non mancano sovvertimenti della realtà, torture psicologiche, misteri da svelare, famiglie di antica discendenza in balìa del disfacimento, manieri in rovina pieni di antri segreti, tutto però viene mosso da avidità, lotta per il denaro, arrivismo sociale e subdoli raggiri a scopo di lucro. Le Fanu risente a pieno, dunque, dello spirito del tempo, rivelando una poetica di profonda modernità. Esponente di quell'alta borghesia delle professioni, dell'economia e dell'amministrazione, in un contesto di rigida stratificazione sociale non priva di slanci paternalistici verso i ceti meno abbienti, Le Fanu è autore fortemente ancorato agli imperativi della sua epoca - grande dirittura morale, spirito di rinuncia e autocontrollo, esaltazione del lavoro e del sacrificio, stigmatizzazione del fallimento economico -, che diventano un corpus valoriale rintracciabile in filigrana in molte delle sue opere.

L'autore - Giornalista e scrittore irlandese, Joseph Sheridan Le Fanu è unanimemente riconosciuto tra i maestri della letteratura gotica. Snobbato dalla critica in vita, è stato riscoperto, agli inizi del Novecento, grazie soprattutto al lavoro critico di Montague-Rhodes James. Nato a Dublino nel 1814, Le Fanu trascorre l'infanzia tra i villaggi di Chapelizod e Abington, nella contea di Limerick. Qui, vive a stretto contatto con una società rurale orgogliosa e imbevuta di superstizioni. La componente favolistica e fantastica, propria della cultura contadina irlandese, l'interesse per la demonologia e l'occultismo, nonché la fascinazione per l'opera del filosofo e mistico Emmanuel Swedenborg influenzeranno profondamente la sua poetica. Nel 1832, Le Fanu intraprende gli studi in Legge presso il Trinity College di Dublino; tra il 1835 e il 1839, vengono pubblicati alcuni suoi racconti (The Ghost and the Bone-setter, The Furtunes of Sir Robert Ardagh e Schalken the Painter) sulla rivista «Dublin University Magazine», con cui Le Fanu continuerà a collaborare per tutta la vita, diventandone anche editore e proprietario. Dopo una breve esperienza nell'avvocatura e un matrimonio che lo lascia inconsolabile vedovo, nel 1858, Le Fanu si allontana dalla vita sociale per dedicarsi esclusivamente alla scrittura fino al 1873, anno della sua morte. È autore di diverse antologie di racconti e di alcuni romanzi, tra cui i più importanti sono Lo zio Silas (1864, pubblicato per la prima volta in Italia da Gargoyle nel 2008) e Carmilla (1872), che narra di una vampira sensuale e affascinante, in odore di lesbismo, da cui sembra che lo stesso Stoker abbia tratto ispirazione per il suo Dracula.

Dall'introduzione: Quello del sensation novel è un mondo che ha ormai perso ogni innocenza e cristallinità, un mondo costellato adesso di matrimoni infelici, spesso frutto di tiranniche imposizioni, relazioni adulterine, convivenze more uxorio che confinano con la bigamia, figli e parenti segreti, divorzi, vizi innominabili, instabilità psichiche che affondano le radici nel lontano passato familiare, disastri e rovesci economici, frodi e ricatti, manipolazioni testamentarie, cruenti omicidi e, a sovrastare tutto questo torbido magma, schiaccianti sensi di colpa che il più delle volte si cerca invano di tacitare con una tracotante e spavalda crudeltà.

mercoledì 16 dicembre 2009

Buone da sposare di Adriana Maria Leaci (Gruppo Albatros, Il Filo editore)

Non sono mai stata una femminista come quelle degli anni Sessanta, che partecipavano alle manifestazioni e che poi bru¬ciavano i reggiseni in piazza. L’estremismo di ogni idea mi ha sempre causato disgusto. Mi ritengo piuttosto una giusti¬ziera precoce, dato che una volta capito, sin da piccola, che in questo mondo le donne spesso sono martiri della società in cui vivono, mi sono subito ribellata. Partendo dalla scuola elementare, dove ho avuto un compagno, rivale spietato, che pretendeva di avere voti superiori ai miei, e per ottenere ciò non misurava termini; per poi scontrarmi, tutt’ora, con quei soliti discorsi che giustificano il mio modo di pensare solo perché sono una donna. Ho cercato continuamente di difendere, a spada tratta, non una probabile superiorità – ci sarebbe da aprire un trattato su questo – ma l’uguaglianza di diritti, nonché i doveri tra uomini e donne che si amano veramente, essenziali perché la discri¬minazione non sfori la dignità umana.
Quand’ero solo un’adolescente, quando facevo i primi passi da adulta, cercando anche i consensi di quelli più grandi di me, era abituale sentire la frase “sei tanto brava che ti puoi già sposare”. Già. Osservando e misurando le faccende dome¬stiche si stabiliva − e si stabilisce ancora oggi − quanto una ragazza fosse adatta al matrimonio. Come se quel traguardo fosse l’obiettivo unico nella vita di una donna; come se, all’in fuori di quello, nulla rimanesse, nulla valesse veramente la pena per restare vivi in questo mondo. Certo è che l’unione dell’uomo alla donna è basilare per la sopravivenza della specie, ma vorrei tanto che la scienza non ci ponesse sempre al confronto, limitandosi soltanto a chiarire i nostri dubbi e dandoci risposte ai nostri problemi. Sempre la stessa scienza usa la parola uomo, dal latino homo, come identità anche per noi donne (in latino sarebbe mulier, poco sonoro, poco significante, poco conosciuto persino nel¬le poesie latine), nonostante la sua partecipazione alla pro¬creazione non l’impegni per più di quindici minuti, per ogni parto, anche gemellare. Affrontiamo il dolore fisico, ognuna con la sua soglia di sopportazione, però ci rifacciamo con le altre gioie della vita. Fu inflitto dal Creatore su Eva e per tut¬te le generazioni di donne, nei secoli dei secoli, si partorisce con dolore − eccezion fatta per quelle che hanno conosciuto la meravigliosa invenzione dell’anestesia epidurale − e ogni mese ci ricordiamo del peccato originale di quell’ancestrale e cara parente. Per molto tempo siamo state relegate alla figura tenera di madri e nonne, rappresentate in dipinti dai maggiori artisti, senza altri scopi se non quelli di badare alla prole e al nido fa¬migliare. La storia dell’umanità purtroppo racconta più degli eroi, morti per difendere un ideale politico o di pensiero. Sono stati loro a tramandare i valori più decantati dai libri. Sull’eroi¬ne, esclusa Giovanna D’Arco e qualcun’altra del genere, por¬tate al sacrificio di se stesse, si fanno poche menzioni. Nel secolo XXI invece l’evoluzione della donna spaventa, soffoca, disorienta. È successo tutto troppo in fretta perché fosse compreso senza traumi. I ruoli si sono invertiti. Gli uo¬mini sono divenuti le vere vittime. Questa non vuol essere, assolutamente, una manifestazione contro gli uomini, anzi. Cerco di riflettere. La vita non avrebbe senso se non fossimo in coppia sulla faccia della terra. Siamo esseri bisognosi uno dell’altra e le sofferenze sono superabili proprio perché vissute insieme. Mi piace pensare e vivere con un compagno con cui condivido e divido ogni evento della mia esistenza. Durante la stesura di questo libro sono passata spesso dal racconto, puro e semplice, a un’analisi personale del signifi¬cato della persona-donna, fino ad arrivare al titolo principale. Ora mi trovo a voler quasi giustificarlo, forse perché io stessa comprenda la scelta di questo percorso di scrittura.
Come è solito in me, cerco una descrizione dei sentimenti più profondi, attraverso le scelte di vita che fanno le persone, puntando sui vari interessi e sui valori inculcati dalla società. Determinati comportamenti provengono dall’ambiente in cui si vive, quindi è sufficiente nascere in un continente piutto¬sto che in un altro, per trovare la differenza di sviluppo delle donne. Anche il clima incide enormemente sull’umore uma¬no. È la mentalità però che regge il destino di ognuno ed è quest’aspetto che vi farò conoscere. Descrivo donne del passato, educate nel rispetto della figura maschile, a loro servizio, talvolta nell’idolatria, altre volte nella ribellione, ma sappiamo che tante nel mondo si trovano anco¬ra a vivere le stesse cose, solo in Occidente. Questo vuol’essere un omaggio alle donne che ho cono¬sciuto e dalle quali ho tratto l’ispirazione, non solo per scrive¬re. Donne che mi hanno insegnato e trasmesso il vero senso dell’esistenza e che sono diventate una parte di me. Donne inventate, sognate, invidiate e amate. Donne. Siamo gli esseri che generano l’umanità, e dobbia¬mo ancora conquistare il mondo.

Adriana Maria Leaci è nata il 29 agosto del 1959 in Brasile, da genitori italiani. A venticinque anni ha lasciato il Paese ed è venuta a vivere in Italia, dove si è sposata e vive tuttora. Lavora come impiegata nella Pubblica Amministrazione. Nel 2006 ha pubblicato Con gli occhi di mio padre, Luca Pensa Editore

dalla premessa - su concessione dell'autrice

martedì 15 dicembre 2009

Amianto. Storia di un serial killer, di Stefania Divertito, prefazione di Alessandro Sortino, Edizioni Ambiente (2009). Recensione di Nunzio Festa

AMIANTO assassino. Fibronit, Materit, Fincantieri, Eternit, Ferrovie. Sono nomi colpevoli. Di morte. A volte addirittura parti dello Stato. L'Italia è una repubblica fondata sull'amianto, si deve nuovamente leggere e scrivere, riscrivere. Leggendo il libro d'inchiesta della giornalista Stefania Divertito, “Amianto”, alla mente non mi possono che tornare innanzitutto alcune immagini, riflessioni; prima d'entrare, ovviamente, nel documentato, di documenti e testimonianze, viaggio dell'autrice del volume. Focus utilissimo per sapere tantissime cose e avere molteplici quanto vari elmenti su quello che nel mondo è una delle più forti cause di tumore: l'amianto carnefice. Dolori individuali che sono però collettivi. Perché spesso spaccano quote di territorio e territori lasciando pochi superstiti, in ogni senso. Si diceva che non è possibile non pensare, cosa ricordata più volte dalla Divertito durante le pagine del libro, che il 10 dicembre è da non dimenticare più. Perché è data epocale. Il cominciamento del più grande processo della Storia che riguardi l'amianto: in questo caso proprio i danni dell'azienda Eternit. Una delle poche vittorie, per ora. E anche al di là dell'esito. Poi, ancora, dobbiamo ricordare che oltre a tanti siti ancora inquinati, esiste il passaggio – attraverso i porti italiani – non solo di navi già italiane (ancora almeno in parte vissute da amianto) ma anche di navi che lo trasportano, non solo per commerciarlo, che arrivano dalla Cina e da altri paesi del mondo. Per non dire, arrivando al locale che sa di globalizzazione dei mali, che in tanti piccoli e grandi centri abitati d'Italia, vedi la mia stessa Pomarico (MT) onduline d'amianto sono a volte depositate in zone di campagna. A tutt'oggi, Pomarico, in un tratto di landa agreste, custodisce amianto e la cosa è persino nota. In testa, inoltre, e non solo dopo aver scoperto che negli incontri di Stefania Divertito ovviamente c'è quello con Fulvio Aurora (Medicina democratica, associazione esposti amianto...), ritorna un incontro d'anni or sono svoltosi a Ferrandina (sempre provincia di Matera) posto vessato dalla presenza della Materit e non solo che lavora amianto. Diciamo questo, dopo aver visto anche il documentario di Andrea Spartaco, “Amara Lucania”, che è uno degli ultimi lavoro che toccano il tema anche questo in virtù di testimonianze. La Materit è una dei tanti nomi che sono subito da associare ai grani colpevoli di catastrofi. Dove morti e malati si registrano in continuazione. I dati citati e studiati, analizzati, ascoltati dalla Divertito sono impressionanti per grandezza e potenti quali simbolo di tutto il male del mondo. Alla base dell'atrocità, nella maggior parte dei casi, comportamenti consapevoli di tanti uomini che sapevano e non hanno informato. Una sola fibra d'amianto, un granello d'asbesto malvagio può provocare malattia. Con un'incubazione che può arrivare persino ai quarant'anni. Vittime, ovviamente, soprattutto i marinai che hanno lavorato su tante navi, i lavoratori di tante fabbriche che producevano prodotti con questo materiale killer. E persone che mai l'avevano sfiorato. Se non, per esempio, magari pulendo vestiti di mariti o carezzando i loro capelli. Oppure semplicemente limitrofi a zone contaminate o dentro queste. “Amianto. Storia di un serial killer” presenta la tragica realtà di persone che non ci sono più, la vita e le storie di parenti o malati che combattono e cercano di farlo spesso dovendosela vedere per ottenere riconoscimenti non facili da avere, la carte geografica del dolore delle presenze degli spazi maggiormente colpiti e quindi delle popolazioni di questi luoghi. In più, si potrebbe aggiungere, la giornalista è capace di tenere il filo con le dinamiche economiche internazionali dentro quali l'amianto può e ha potuto espandersi per ammalare e aspetti direttamente legati a una prospettiva, a tratti per mezzi dell'epidemiologia, d'attenzione medica se pur soprattutto rispetto alla prevenzione. I colpevoli, di ieri, d'oggi, di domani, sono e saranno tantissimi. Magari si facesse giustizia piena, e assoluta. Definita. Che poi sarebbe, in maniera più particolare, mettere al bando su tutto il Piante l'amianto. Senza dimenticarci che la bonifica, anzi, le tante bonifiche sono necessarie e parte necessaria pensando a tentare di risolvere almeno una porzione del gigante problema. “La fabbrica della morte si chiama Fibronit”, cantano i Suoni Mudù. Esattamente come il cantante Oscar fa rap con il bianco amianto del suo quartiere della periferia milanese. L'Italia è stata ammazzata. Tutte le vittime, sempre, hanno bisogno di verità e giustizia.

lunedì 14 dicembre 2009

IO & FREDDIE (BD). La storia di un ragazzo, dall’infanzia ai giorni nostri, vissuta attraverso il mito dei Queen. Recensione di Ilaria Ferramosca

È il 1984, Mike Dawson è un bambino inglese di 9 anni e scopre per la prima volta i Queen in televisione. Sulle prime rimane basito e divertito, dinanzi al video di I want to break free e alla performance ironica di un Freddie Mercury in versione “soap opera”, poi viene rapito dalla potente voce e dalla presenza scenica del cantante. Nasce così un rapporto, tipico dell’età pre-adolescenziale, che per Mike durerà tutta la vita: quello tra un ragazzino e il suo idolo. Chi cercasse all’interno di questa storia una ricostruzione delle vicissitudini della band britannica o del suo leader, potrebbe rimanerne deluso. Il fumetto è in realtà la pura e semplice autobiografia dell’autore e narra quindi episodi della sua giovinezza: dai continui e talvolta “feroci” bisticci con la sorella Sarah, fan sfegatata degli Wham! e di George Michael, che gli propina ore e ore di Careless Whispers; all’adorazione per il fratello maggiore, a un cui regalo deve la prima cassetta dei Queen; alla condivisione della musica con i compagni di scuola; ai travestimenti e le gare canore, per poter emulare il grande Freddie; al rapporto con le ragazze; alla passione per il disegno e la creazione degli storyboard per un ipotetico video, da realizzare con la propria band. Il tutto intervallato da fantasiose ricostruzioni sulla vita dei Queen, o sulle origini di varie band musicali degli anni ’80 e ’90, per come il giovane Mike le immagina. Un bel giorno però, il padre di Mike Dawson si trasferisce in America per lavoro, dove l’intera famiglia è chiamata naturalmente a raggiungerlo. Lì il mito dei Queen non è così forte e sentito, al contrario è persino ostacolato, a seguito di alcuni contrasti sorti tra la band anglosassone e i media americani. Difficoltà che non mina comunque la sua grande passione per la musica di “Freddie”, la quale non viene meno neppure con la tragica notizia della sua morte. L’intera vicenda in sé, potrebbe sembrare assolutamente banale: il racconto di una vita come tante, che alterna alle simpatiche vicissitudini quotidiane del protagonista, sottolineate delle note di Bohemian Rapsody, le ricostruzioni visionarie dei miti del pop di quegli anni. Se non fosse, però, per alcune toccanti e sconcertanti riflessioni che egli introduce di tanto in tanto, sulla caducità della memoria e dei ricordi. Si comprende allora che questa lunga biografia, altro non è che l’esorcizzazione di una paura comune a tutti: quella del dimenticare e dell’essere dimenticati. A un certo punto della sua vita, Mike Dawson si rende infatti conto di non avere più ricordi di quando era un bambino. Il terrore che quelle immagini mentali e quei pensieri siano andati perduti per sempre, inizia a terrorizzarlo. Alcune forme sono infatti sfocate, di determinate persone non riesce a ricordare più il volto ma solo dettagli; inquadrature buie e angoscianti, riproposte con disegni grotteschi, che dalla sua testa si trasferiscono al foglio, per essere condivisi dai nostri occhi assieme a quelle stesse paure. «Non era solo per i ricordi che erano già scomparsi...» afferma l’autore in una delle vignette «era per il fatto che avrei potuto perderne degli altri invecchiando. Che alla fine avrei anche potuto dimenticare per sempre tutta la mia vita.» La storia di un adolescente, che può essere quella di noi tutti. Perché ognuno di noi, in fin dei conti, avrà avuto un mito da prendere a modello; come anche delle canzoni del cuore, che l’hanno accompagnato nei momenti più allegri o tristi dell’esistenza. Un’ancora a cui appigliarsi, per fermare di tanto in tanto dei ricordi, nella speranza che non si perdano nell’oblio.

Titolo: Io & Freddie
Autore: Mike Dawson
Edizioni: BD
Pagine: 304 b/n
Prezzo: €16,00

domenica 13 dicembre 2009

GALLERY – CAFÈ & RESTAURANT presenta RINASCITE a Milano

Il Gallery Cafè & Restaurant, in collaborazione con Famiglia Margini, presenta una collettiva di artisti che esplorano le possibilità di una nuova genesi capace di ricucire le distanze, superando le differenze e gli steccati ideologici. Tornano i Re Magi a Milano, ricostruzione contemporanea del Presepe: l’energia del cosmo genera e ripete incessantemente i suoi meccanismi nel tempo, così come l’arte sfonda le distanze e genera messaggi multietnici ed universali. La cultura persiana ha dato i natali a grandi esponenti dell’arte e della cultura mondiale. Si intreccia con la storia dei nostri territori e tradizioni sin dal suo fondamento: i testi sacri riferiscono che i Re Magi, sacerdoti e studiosi degli astri, arrivarono a Betlemme dall’altopiano iranico per rendere omaggio alla nascita del Re dei Re. Questo avvenimento segna la storia, la cultura, il costume, i testi e la tradizione figurativa sin dalle decorazioni musive paleocristiane. Un ulteriore avvenimento segna il legame tra la cultura persiana e Milano: fu il vescovo Eustorgio nel IV secolo d.C. a guidare il gravoso sarcofago dei Re Magi da Costantinopoli sino alle antiche mura della città meneghina. Così fu fondata la Basilica di Sant’Eustorgio che ospitò le sacre reliquie dei Magi, sino al saccheggio di Federico Barbarossa nel XII secolo. La stella ad otto punte, sormontante il campanile della Basilica, ed il grande sarcofago segnano indelebilmente il passaggio dei Magi e rafforzano la loro memoria presso tutti i milanesi.Oggi l’Iran soffre la chiusura culturale imposta dal regime, ma le nuove generazioni persiane continuano ad esprimere la propria volontà di vivere nella libertà di espressione e di crescita culturale. Tocca a noi rendere omaggio alla loro volontà di aprirsi al mondo superando integralismi politici e religiosi. La volontà di produrre un cambiamento. Incidere concretamente la realtà determinando una risemantizzazione dei processi socio-economici e culturali: questa ambizione universale scorre e si dipana tra piccoli anfratti della quotidiana esistenza fino all’attimo in cui sopraggiunge una deflagrazione di energie rinnovatrici. L’epidermide raggrinzita della società si sbriciola. E’ La muta del serprente, l’umanità cambia pelle per la nuova stagione. Trasformazioni planetarie e piccoli avvenimenti quotidiani filtrati dalla sensibilità creativa si fondono e si amplificano. Rinascite e Risorgimenti. Rincorse ad ostacoli e Redenzioni di massa.

Il serpente che non può cambiar pelle muore. Lo stesso accade agli spiriti ai quali s'impedisce di cambiare opinione: cessano di essere spiriti.
Fiedrich Wilhelm Nietzsche, da Aurora

I RE MAGI: Soheil Doaei, Yousef Sharif Kezemi, Bahador Moayer e Amin Davaei, giovani artisti iraniani di origine persiana, esprimono e promuovono con i propri lavori un messaggio di rinascita sociale e culturale dal quale potrà originarsi una società aperta al confronto con gli altri popoli in un clima di reciproca e fertile comprensione.
GESÚ: Angelo Cruciani, ambasciatore iconografico del Tibet, di cui sono celebri i volti di Cristo disseminati in tutto il mondo tra i quali quello di Milano in Piazza Oberdan. Raccoglie nei suoi lavori l’urgenza di aprire una nuova stagione di riappacificazione e ri-umanizzazione dei rapporti nella società “senza tempo” e “senza qualità”, che predilige lo sterile contatto estemporaneo, superficiale e digitalizzato, ai duraturi legami generati da sentimenti ed emozioni palpabili. Cruciani porta avanti un progetto di rinascita sociale, artistica e culturale che confluirà in un più ampio disegno di ridefinizione della comunità umana mondiale.

GALLERY – CAFÈ & RESTAURANT presenta RINASCITE

Dal 15 dicembre al 28 gennaio 2010, Via Anfossi, 28 - Milano. A cura di Mario Margani
Artisti: Angelo Cruciani, Soheil Doaei, Yousef Sharif Kezemi, Bahador Moayer, Amin Davaei. Mostra realizzata in collaborazione con Famiglia Margini, Associazione Culturale e Galleria d’Arte Contemporanea, Via Simone D’Orsenigo, 6 – Milano

Vernissage 15 dicembre ore 18/22
ORARI MOSTRA - Da lunedì a sabato dalle 10:00 alle 22:00. Ingresso libero


Info: 02 55 19 94 49
Mobile: 329 25 27 165
email: famigliamargini@gmail.com


l'opera riprodotta è di Angelo Cruciani

A PALAVRA MÁGICA – CARLOS DRUMMOND DE ANDRADE. (EDITORA RECORD – 2002 – SELEÇÃO DE POESIAS). Di ADRIANA MARIA LEACI

Apesar de ser um volume destinado ao público jovem, os conhecedores do autor não podem deixar de apreciar essa seleção de poesias. Drumond nasceu para ficar: se aprende na escola, se estuda e depois passa a ser, para cada um de nós, um clássico, daqueles que definimos como o poeta preferido. E como Drummond é o maior poeta brasileiro, acaba sendo o preferido de todos. Inspira pessoas de todas as categorias, jovens e adultos, que amam ou que não conhecem o amor, e chega na cabeça e no coração de qualquer um, através de uma linguagem simples, usando palavras de todos os dias, palavras que conhecemos e que acertam nos sentimentos de cada leitor. Palavras que parecem mágicas mas que sempre estiveram presentes em nós. Nesta obra, selecionada por Luzia De Maria, encontramos as poesias mais conhecidas de Drummond, entre elas “José”, “Memória” e a minha predileta “Aos namorados do Brasil”, só para mencionar algumas. Para quem tem sede de poesia só esse livro não basta, porque ao chegar no final, fica aquela vontade de continuar a ler, de continuar a beber da fonte das suas palavras. Deve ser essa a verdadeira magia. Depois dessa leitura, é como não acabar o almoço, ou o jantar. E’ como tomar um sorvete pela metade. Fica aquele desejo que quer mais, que não satisfez, que não saciou. Drummond alimenta as mentes, entra no sangue e permanece. Não é só poesia, é conto, é cronica, é tudo o que a palavra pode construir e ainda é muito mais. E para terminar acrescento um trecho desse livro, que do poeta diz tudo: “Não me leias se buscas flamante novidade ou sopro de Camões. Aquilo que revelo e o mais que segue oculto em vítreos alçapões são notícias humanas, simples estar no mundo, e brincos de palavra, um não-estar-estando, mas de tal jeito urdidos o jogo e a confissão que nem distingo eu mesmo o vivido e o inventado.” Nesse trecho de “Poema Orelha” o autor se revela exatamente pela simplicidade, pela escarsa presunção de ser poeta, e se define como alguém que brinca com as palavras, contando as suas histórias ou somente o que viveu. E após 22 anos da sua morte, o mundo inteiro ainda traduz os seus escritos, legados imortais da literatura.

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