Non sono un critico musicale. Non sono un critico di niente. Potrei andare avanti dicendo tutte le cose che non sono. Tante cose non sono. Molte cose non sono. Troppe cose non sono. Potrei dirvele una a una. Oppure, far prima, dicendo quel che sono. Semmai dovesse interessare a qualcuno. Ma, dubitandone, mi limiterò a dirne una, che ne riassume -contenendole- altre. Sono uno che ama dire (com'è capace) quel che sente. Sono uno che ascolta musica. E ama il jazz. Jazz, una parola ch'è dire tutto e dire niente quando si parla di musica. Come le definizioni che si sprecano per questo, quello e quell'altro. Come per tutto. Qualcosa di pertinente rimane: Sud, un altro: quello degli Stati Uniti, dove questa musica folklorica degli afro-americani è nata, senza incorrere nell'errore di cercare una data e un luogo precisi. Un riferimento ci vuole e allora penso all'inizio del secolo scorso nel basso Mississippi. Poi, quel che ho ascoltato di Sidney Bechet, Louis Armostrong, Duke Ellington, Count Basie, Django Reinhardt, Billie Holiday, Charlie Parker, Ella Fitzgerald, Thelonius Monk, Sarah Vaughan, Dina Washington (l'elenco potrebbe continuare...), evocano infinite cose e poche parole per trattenere più di qualcosa della voce jazz. Prudenza e misura mi fanno dire, con Marshall Stearns, che il jazz è “una musica americana semi-improvvisata caratterizzata da un'immediatezza di comunicazione, un'espressività tipica del libero uso della voce umana, e da un complesso, fluente ritmo; è il risultato di una commistione attuata negli Stati Uniti nel corso di tre secoli delle tradizioni musicali dell'Europa e dell'Africa occidentale; e i suoi ingredienti predominanti sono un'armonia di origine europea, una melodia euro-africana e un ritmo africano”, ma ciò è vero per i musicisti sopra citati, per quelli che li hanno preceduti, per chi li ha seguiti e all'unica condizione possibile quando si parla di musica: che si tenga sempre conto della continua, rapidissima trasformazione che ogni genere subisce siccome muta la cultura di cui è espressione. Il jazz è espressione della cultura dei neri americani e, successivamente, di quella di due gruppi etnici -ebrei e italo-americani- che con loro, in un circoscritto periodo, hanno condiviso emarginazione sociale fisica e psicologica. Non farò di questo pezzo un saggio sulle origini e sull'evoluzione del jazz. Né su altro. Voglio soltanto cercare di tracciare -per grandissime linee- una memoria per dire d'una musica d'oggi, come farò tra poco. E non posso, per far ciò, non ricordare la musica folklorica nera, dai “calls” (richiami) ai “cries” (grida) agli “spirituals” (canti religiosi), densissimi tutti di quell'africanità che, poi, incontrandosi e scontrandosi con culture diverse, ha prodotto quell'ibrido ch'è il jazz. Come non posso ignorare che se New Orleans è per antonomasia la culla del jazz, Chicago e New York l'hanno visto crescere e esplodere prima del buio e che Kansas City l'ha adottato quando altrove era in declino. E non posso non spendere parola su tutti i suoi figli, legittimi e non, come lo swing, il bebop, l'hard bop, il free jazz, per non dire di tant'altro, sino al rock di Bob Dylan (ispirato da Woody Guthrie e dal folklore americano) e oltre. Una vicenda lunghissima. Sino a oggi. Sino a Lecce. Dove, tra gli altri e con gli altri, c'è Dario Congedo. Nato a Galatina nel 1983, iniziato alla batteria all'età di tredici anni, drummer, percussionist, composer, diplomato presso il Conservatorio Tito Schipa di Lecce nel 2005; perfezionato in batteria con Maurizio Dei Lazzaretti; con un passato a New York, dove ha approfondito lo studio delle percussioni afro-cubane; e vari corsi di perfezionamento con celebri batteristi di fama internazionale; vanta varie collaborazioni e diversi premi. L'ho incontrato una sola volta Dario Congedo. Il tempo di stringergli la mano e scambiare poche parole. All'inaugurazione dell'ultima libreria (“Gutemberg”) nata a Lecce. Ho perso varie occasioni per sentirlo suonare dal vivo. Ho ascoltato, a lungo, il suo ultimo progetto: “NADAN”. Ch'è un luogo o un nome proprio. Che sta a Nord-Ovest fuori Italia, se lo cerchi. O a Oriente, se lo pronunci. Nadan è il CD che uscirà il 7 novembre prossimo, in concomitanza con un concerto alle ex Officine Cantelmo. Nadan è oltre il jazz, è la visione del jazz diretto da Dario Congedo e da lui reso note armonia battito disarmonia e storia, insieme a tre validissimi musicisti: Raffaele Casarano (sax), Giorgio Distante (tromba) e Marco Bardoscia (contrabasso). È un lavoro in cui ho trovato tutto quel che detto sopra sul jazz (con l'aiuto di Arrigo Polillo), passando per i giorni nostri, in una proiezione di quella libertà primordiale oltre ogni umana ignoranza che schiude all'uomo la conoscenza delle radici dell'essere e ne fa sudato sogno quotidiano. Il CD s'apre con “Le Strade E I Clown”, l'elettronica sposa il ritmo sincopato dell'andare comico e tragico in queste vie e racconta la pesantezza di occhi scolorati dall'umido di mille tristezze ma anche la visione di un sorriso che si svela sotto occhi tristi. Il secondo pezzo, “Skippy”, è pura ricerca che s'innesta su un motivo facile da trattenere alla maniera di Dizzy Gillespie (mi è venuto in mente, anzi all'orecchio, “A Night In Tunisia”); improvvisazione e ritorno. “Prospect Park” è un lento svogliato risveglio, che restare nel momento precedente avrei voluto, ma tant'è, e allora alba sia, carica di fumi impenetrabili, densa di costruzioni che sfiorano il cielo senza toccarlo davvero, e quella rada che spalanca le braccia, come un altro mattino, dopo un cerchio alla testa che un caffè bollente fatica a spezzare, pieno, con la lentezza ch'è da sempre nelle cose e comunque sbadigliando s'affaccia sul nuovo giorno, lo saluta con cenno, ché parlare è difficile a quell'ora, poi ci si butta dentro in un crescendo che culmina in un'esplosione di vita. Il quarto pezzo, “Il Viaggio Dell'Eroe”, narra di un'altra vita, tra genti epiche -sin dall'incipit: come di notte squarciata da una luce violenta d'apocalisse-, liberata dalla visione onirica di una lunga traversata fitta fitta di ostacoli, che li senti tutti nel suono della tromba, e di riposi, fatti a ogni nota di contrabasso, sul filo costante e invisibile delle bacchette sulla pelle e nell'infierire poi su quel tondo che fa a gara col sole al tramonto e non importa chi vince ché ciò che importa è mai smettere di andare. “Brezza” è quel che resta del the sul fondo della tazzina vuota, è aroma diffuso, è granello di zucchero da leccare... “Drum Solo?”, il sesto pezzo, è uscire un giorno qualsiasi ché non se ne può più, muovere passi e respiri, incontrare tanti e fottersene di salutare, abbracciare tutta la solitudine che c'è, la migliore compagna che viene quando vuole lei, è sperimentazione che evoca un'altra solitudine, quella di “King In The Court” dei King Crimson. E se così è non puoi far altro che trovare l'origine di tutto, l'Africa, nel ritmo de “La Pietra Bianca”, prima della fine. L'ottavo pezzo, che non so come cazzo si chiama (ché il CD esce il 7.11.2009 e io ho solo la registrazione... e l'ho annotato male e non ho voglia di ritelefonare, né di errare...), mi riporta all'inizio di un'altra fine, è l'onda che si placa e si stende sull'arenile, sulla riva dei sogni perduti e delle speranze infrante, ma come di acqua rigeneratrice dona nuova forza. “Parole Inutili” è l'ultimo pezzo, quello che chiude questo progetto: è tutto quel che sarebbe potuto essere e non è stato, è quel che resta (ché resta sempre qualcosa), è tutto quel che non ha un nome, è tutto quel che un nome ce l'ha ma nessuno l'ha mai pronunciato davvero, è quel che non appartiene a nessuno, è superfluità, quella che con leggerezza contiene ogni profondità, ch'è bene lasciarla dov'è... diversamente dal mio superfluo... Se ne può parlare, ma soltanto dopo averla conosciuta.
sabato 7 novembre 2009, in anteprima nazionale, negli spazi delle Officine Cantelmo a Lecce, il concerto di presentazione del disco Nadan di Dario Congedo. Start ore 22,00
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