Una volta ancora alle prese con
forma e sostanza. Ancora una volta a cercare di delimitare il campo del
quotidiano in cose dell’esistenza nelle quali è imprescindibile il rispetto
della forma, ché questa e la sostanza coincidono, e altro giornaliero in cui la
sostanza non può, mai, essere sacrificata per il mancato ossequio della forma.
Credo che la sostanza dovrebbe essere sempre in primo piano e avere la giusta
considerazione al di là di qualsivoglia involucro. Ma ci sono livelli del
sociale dove la forma è sostanza e ignorarla finirebbe per assumere contorni
estranei alla legalità. Il riferimento è, all’evidenza, all’osservanza delle
leggi. E che le leggi vadano rispettate è come dire che il primo nutrimento del
neonato è il latte. Se non fosse che ci sono buone leggi e cattive leggi. Se
non fosse che, spesso, le leggi non esprimono lo spirito del tempo e di chi
quel tempo abita. Se non fosse che, sovente, le leggi sono strumenti di
conservazione del potere o espressione di lotte tra i poteri per il potere. Se
non fosse che, di leggi, ce ne sono comunque troppe. Se non fosse che venire a
capo di una normativa, in molti casi, è come trovare la via d’uscita in un
labirinto sperso in un angolo imperscrutabile di conoscenza. Se non fosse che
ogni annunciata semplificazione di qualsiasi sistema codificato si è risolta
nella più becera complicazione del già scritto… Credo che poche chiare e
compiute norme sarebbero sufficienti per regolare una civile convivenza, in uno
alla necessità della loro fattuale applicazione… Non è questa la sede per
disquisizioni di tal natura, ma l’intro ha senso per dire (anche e soprattutto)
d’altre forma e sostanza: in questo caso l’inizio e la fine della riflessione
risiedono in una lettura, nel senso che ho pensato alla forma e alla sostanza
leggendo “Budapest Bank Connection” e di questo libro, in fine, vi dirò. Dopo
un’altra brevissima digressione. Vi sono infiniti esempi di libri ben confezionati,
privi di smagliature grammaticali e di refusi, in cui l’attenzione all’oggetto
libro è superba, ma che, dopo la lettura, rimane solo quel che colpisce
immediatamente l’occhio, senza scomodare altri sensi. Altri libri, meno belli a
vedersi, custodiscono grandi contenuti. Inutile dire che preferisco questi
ultimi. Se, poi, di un libro (che qualche domanda mi ha fatto porre…) conservo
anche un buon ricordo estetico e la sua sostanza si è dipanata traverso una
scrittura semplice pulita e senza refusi, è decisamente meglio. Ma, forse, è
chiedere troppo e tant’altro ci sarebbe da dire… Nel caso di specie, con la
consapevolezza di esprimere la mia personale opinione, “Budapest Bank
Connection” ha una bella copertina, una sgradevole impaginazione, alcuni refusi
macroscopici, una non condivisa scelta dei segni d’interpunzione, e contenuti
di spessore. La sostanza è nella storia e di questo bisogna rendere merito
all’Autore, Antonello Giurgola, alla sua seconda prova letteraria. La forma, a
parere di chi scrive, avrebbe avuto bisogno di maggiore cura. L’Editore, Città
Futura, prenderà questo mio appunto nella dovuta misura, ossia come monito a
far meglio, unendo alla passione anche più attenzione. Per entrare nel vivo del
libro, dirò che –per intanto- mi è piaciuto: un bel poliziesco che evidenzia la
versatilità di Antonello Giurgola di cimentarsi (bene) con diversi generi
letterari. Chi ha letto il suo libro d’esordio, “L’angelo di Lisbona”, si
troverà spiazzato tra le pagine di “Budapest Bank Connection”, ché questo
romanzo di genere è piacevolmente anomalo. Del poliziesco (il primo e più
antico tra i sottogeneri del “giallo”) questo libro ha tutti gli elementi
caratterizzanti: un omicidio (la morte violenta di un italiano a Budapest), un
investigatore (il commissario Istvan, per gli amici Pisti, Kruger), le indagini
(poco scientifiche e molto deduttive) e lo svelamento dell’intreccio con
individuazione finale dell’autore del delitto in questione. Ma, non credo di
sbagliare, il genere è pretesto per raccontare altro. In “Budapest”, man mano
che le indagini chiudono possibilità e aprono probabilità, emergono
–parallelamente- scenari, umani e sociali, che con la morte di un lercio
mafiosetto italiano di stanza in Ungheria poco hanno a che fare. Quel che
prende la scena è un’altra fine: la morte di una società. Insieme alla morte
dei sentimenti. Non so individuare la cronologia dei rispettivi capolinea.
Forse vanno di pari passo. Ma so che riscoprendo i secondi si può sperare in
una nuova società, migliore di quella passata. Ché quella narrata in “Budapest
Bank Connection” è malata sino all’osso, dove il malaffare non è roba di
delinquenza comune, ma sistema che ha fatto del danaro l’unica divinità in
terra, strumento di controllo del potere per reggere i fili di chi quei fili
ignora e di chi non ha mezzi per reciderli. “Budapest Bank Connection” è una
speranza più che una denuncia. Episodi come quelli descritti in questo libro
sono reali e ormai noti, basta voler aprire gli occhi. Che il mondo della
Finanza abbia inquinato l’Economia e abbia iniziato a far tracimare l’Occidente
è affare ormai chiaro, siccome sono alte le fiamme di Atene. Nessuno può far
più finta di niente. L’incendio è divampato. Può estendersi dappertutto. La
scintilla è scoccata negli Stati Uniti. La Grecia sta ardendo. L’Europa è a rischio, focolai
sono sparsi ovunque. Bisogna rifondare regole e civiltà. Il problema
prioritario, però, è che dobbiamo cambiare noi: bisogna rigenerare l’uomo. E si
tratta di un mutamento radicale che importa una forte sterzata culturale…
Tornando a “Budapest” è ovvio che non aggiungerò altro sulla trama, ché va
gustata step by step sino alla soluzione del “giallo”, ma del commissario
Kruger qualcos’altro va detto: quasi cinquantenne, burbero, disilluso, al
limite del trasandato fuori siccome è privo di slanci d’entusiasmo dentro,
sospettoso come dev’essere un buon poliziotto, “specie dei cambiamenti ancor
più se lo riguardano, quindi non farà alcuna scelta, non ha voglia di sdoppiare
la sua coscienza né di aggiungerne una seconda. È sufficiente quella che ha
così com’è, in fin dei conti si è sempre dimostrata comprensiva e soprattutto
indulgente; non tenterà mai il viaggio da una coscienza all’altra, non avrebbe
nulla di turistico e per di più gli rovinerebbe l’appetito, avrebbe a che fare
con parole come oblio, abbandono, rinuncia… Comunque la coscienza sporca non ha
mai impedito a nessuno di riempirsi la pancia, mentre una pancia vuota mette a
dura prova le coscienze più integre”. Schietto e, a modo suo, simpatico. Ma,
soprattutto, vero! Come può essere autentico chi delle apparenze ormai se ne
fotte. Forma e sostanza. La prima non ha più alcun significato. La seconda sta
nel suo stare che preferibilmente non coincide col fare. Kruger fa soltanto il
necessario. Tipo rispondere a una telefonata che gli annuncia un omicidio anche
se avrebbe avuto voglia d’ignorare quel richiamo alla realtà. La prima tornerà
a interessargli soltanto quando anche la seconda si risveglierà dentro di lui.
Quando quella donna ch’era stata sua moglie gli parlerà di nuovo… e i
sentimenti desteranno i sensi. Quasi che per riparlare d’amore fosse necessario
acquistare un paio di scarpe nuove. Ché quelle vecchie hanno inciampato su
quella strada e lui non vuol cadere di nuovo. Ché, in fondo, sensibile lo è sempre
stato. È un bel personaggio Kruger. E, mi sbaglierò, ma –per quel poco che so-
somiglia al suo Autore. O, forse, la cifra dell’Autore è disseminata in più di
un solo personaggio. E tra i dialoghi che, cupi o esilaranti, epilogano spesso
in un vaffanculo, a mo’ di saluto e contengono (spesso) aforismi che si
stagliano sulle vie e tra i palazzi di una splendida decadente Budapest e
scorrono sul Danubio con la svogliatezza di un giorno buio o con la forza di un
sole che incendia la città a ovest di un pensiero che dissente dall’ovvio. Ché
la soluzione non sta nell’ovvio. In questo caso, almeno, è ben distante
dall’ovvio. Ché questo libro di ovvio ha ben poco. E, fosse soltanto per
questo, merita di essere letto.