È fine d’anno: col suo tornar
ciclico è ritualità che punteggia il fluire del tempo, a ricordarci che la vita
è succedersi di istanti-tempo che arrivano e passano. Ma non solo. È ritualità
che scandisce un ritmo vitale profondo, tanto da avere un effetto coaugulo
sulle vicende occorse nell’arco di un anno, così che siamo spinti, anche senza
volerlo, a fare uno sforzo di integrazione e composizione di tutte
quelle vicende in un che di
narrativamente credibile. Potremmo dire anche, in un che di sensato.
Alle prese con questo lavoro di
cucitura di un senso complessivo dell’anno che va compiendosi, mi ritorna
dentro insistentemente l’immagine di una lettura, di alcuni mesi fa che, da
subito, mi aveva molto colpita, sebbene non la vedessi sotto la luce in cui ora
la vedo. È quel ricordo di Ante Zemljar di cui Erri De Luca scrive nel suo Le
sante dello scandalo. Ante Zemljar era un poeta croato. Ma arrivò un momento in
cui la sua poesia ‘offendeva’ i canoni estetici del socialismo realista. Così
“sotto il comunismo di Tito è stato imprigionato per dissidenza e chiuso ai
lavori forzati e alle percosse su un’isola, detta Isola Nuda. […] Ante mi ha
raccontato – scrive De Luca – come riusciva a resistere al giorno di lavoro a
spaccare pietre con la mazza di ferro, pietre su pietre per cinque anni. […] Si
era convinto che dentro ogni sasso da spaccare ci stava rinchiusa una scintilla
prigioniera. Con i colpi lui rompeva la gabbia e la liberava. Le pietre
spaccate gliele facevano buttare a mare, non doveva servire a niente la loro
fatica, era pena pura, solo abbrutimento. Ma lui aveva inventato lo scopo
segreto. Perciò pure a fine giornata menava i colpi per vedere uscire all’aria
aperta le scintille”. L’applicazione logica di un perfido meccanismo di
annientamento non riesce – in ultimo – ad aver ragione di un’interiorità che
nonostante tutto trova un sentiero che val la pena percorrere. È il sentiero
del senso: emerge dalle cose (come dalla pietra frantumata da Zemljar), senza
che possa dirsi bene come; è un brillare di scintilla; spesso va liberato dai
legacci del conformismo; certamente non lo si trova con un calcolo mentale, con
un ragionamento ‘se… allora…’; più che pensato va sentito, è ‘senso’ per
l’appunto. Ti chiede, il senso, uno slancio interiore di adesione: chiamalo
passione, immaginazione, illuminazione, irrazionalità, creatività o tutte
queste cose insieme. Non si lascia imprigionare in schematismi, regole
generali, modelli predittivi. Men che
mai si presta ad essere dimostrato da prove oggettive che ne attestino
la sensatezza! Arriva e se ne va,
lo scovi quando non te l’aspetti e spesso nelle cose apparentemente più
insignificanti. Ama i particolari di un normale quotidiano, le piccole cose che
hanno la potenza e la solennità del mare. Va coltivato, occorre predisporsi ad
esserne sorpresi, altrimenti non ti raggiunge. Può essere utile far esercizio
di musica, di letteratura, di cinema, di teatro, di arte insomma, in tutte le
sue forme; ovvero far l’esercizio di scovar l’arte nella prosa di tutti i
giorni, nelle strade, in uno scorcio di natura, in un gesto di lavoro. In qualunque
modo scorgiamo il senso, esso è ciò che fonda la nostra esperienza, i nostri
discorsi, le nostre scelte (che è perciò illusorio ritenerle il risultato di un
pensare, perché sono il frutto di un ‘sentire’). Se trovi il senso, allora
anche la condizione più drammatica può essere vissuta fino in fondo, ci
racconta Zemljar con le sue scintille. Trovare il senso! Ecco: credo che sia un
gran bell’augurio che possiamo farci per chiudere questo anno e cominciare il
nuovo. Finiamo il 2011 al suon della parola ‘crisi’, pronunciata spesso come
fosse il nome proprio della sciagura. La parola ‘crisi’ forse è un po’ più
neutra: indica frattura, interruzione, momento che separa un ‘prima’ da un
‘dopo’. Può dire dunque molte cose, e perciò dobbiamo ascoltarla, sentire il
suo senso profondo. Vi è un ‘prima’, che è stato, e che ora non funziona più,
non gira, non può più essere. E vi è un ‘dopo’, tutto da costruire. Perciò di
per sé ‘crisi’ non è né positiva né negativa. È negativa per chi si ostina a
voler perpetuare ciò che è stato, contro ogni evidenza che ne decreta giorno
dopo giorno il fallimento clamoroso e l’insostenibilità; è negativa per chi non
vuole rinunciare ai consolidati dispositivi di sfruttamento degli uomini e
della natura e al lucro che ne trae. Può essere positiva se cogliamo nella
‘crisi’ la sua valenza di bisogno di cambiamento e lasciamo che questo bisogno
ci proietti verso quel ‘dopo’ da realizzare. Così può farsi sollecitazione, a
trovare un altro senso, un nuovo senso; può farsi preziosa opportunità per
reimmaginare le nostre società e le nostre relazioni con tutti i popoli della
terra e con le sue finite risorse animali e naturali. È una prova: per tentare
di vedere oltre l’esistente, per avere quello slancio di senso necessario a
liberare la scintilla prigioniera. (editoriale di Ada Manfreda)