«Noi non siamo nemici, ma amici. Noi non dobbiamo essere nemici. Possiamo essere stati tesi dalle nostre passioni, ma ciò non deve rompere i nostri legami d'affetto. Le corde mistiche della memoria suoneranno se toccate ancora, come sicuramente saranno, dai migliori angeli della nostra natura.». Era il 1988. Lo ricordo come se fosse ieri. Al cinema danno “American History X” un film del 1998 diretto da Tony Kaye. La pellicola è dedicata al tema del razzismo nazi e xenofobo negli Stati Uniti. American History X lo vado a vedere di nascosto dai miei. Ci rimango sotto. Ci rimango sotto a Derek che, dopo aver trascorso tre anni in gatta buia per aver ucciso un ragazzo di colore che stava tentando di rubargli l'auto (skinhead con tanto di svastica tatuata sul petto e camera arredata con cimeli nazisti), si dà da fare in atti di violenza e vandalismo e fa parte di una locale organizzazione di giovani neonazisti che viene finanziata da Cameron Alexander, proprietario di una casa editrice che pubblica libri propagandistici e dischi di gruppi musicali che inneggiano alla supremazia bianca. E ci rimango sotto anche a un libro che è uscito in questi giorni dal titolo “Nero. Autobiografia di un neonazista guarito” di Frank Meeink e Jody M. Roy edito da Piemme. In parole povere la storia di Frank Meeink di padre italiano e madre irlandese la cui vita è fatta sin dall’inizio di disordine e violenza. Che cosa ne può nascere se non un essere umano che cresce di odio in odio verso tutto e tutti, con una voce che si ripete giorno e notte, notte e giorno: “Io non sono negro!”. Già perché per Frank non essere “negro” vuol dire vincere sulla parte più vulnerabile di se stessi, quella più bisognosa d’aiuto, che rimane nell’ombra, nell’oscurità, dove tutto è “nero”!. Frank viene sbattuto fuori di casa alla veneranda età di 13 anni, passa da un affidamento all’altro sino al carcere, epilogo naturale e totale della sua vita. Poi il cameratismo, degli skinhead. Assorbe come una spugna e manda giù, tesi deliranti sulla razza ariana, sugli ebrei e il loro complotto giudaico-massonico, sui «negri». Festeggia addirittura il compleanno di Hitler, si fa tatuare una svastica sul collo, si esalta in una spirale di violenza e assurdità, tra cui pestaggi a barboni, gay, a tutti i «diversi». Frank è uno che a sedici anni diventa leader di una delle più famigerate gang di naziskin. Poi il Ku Klux Klan. E diventa un mito. In carcere poi, dovunque vada, qualcuno legato al mondo nazi lo protegge dai rischi peggiori. Ma Frank scopre in carcere che le battute razziste non fanno più ridere come prima e questo è già indice di tradimento. Libro terribile, ma nello stesso tempo da non perdere soprattutto perché ci insegna a capire da un punto di vista socio/culturale la temperatura psicologica di una parte malata d’America che a tutt’oggi sembra comunque godere di ottima salute!.
«Il mattino del 19 aprile 1995 mi infilai in una gastronomia, presi un panino preconfezionato e andai alla cassa. Il commesso era incollato a un piccolo televisore sistemato dietro il banco. «Cosa succede?» domandai. «Hanno fatto saltare in aria un edificio.» «Sul serio? Dove?» «Oklahoma City.». Poco dopo l’esplosione tutto il mondo era davanti al televisore. Perfino io e gli altri spacciatori abbandonammo il nostro angolo fra Second e Porter per seguire quello che era accaduto. Ci ammucchiammo in una stanza di una malandata villetta a schiera di South Philly. » (estratto dal libro)