Lo si può affermare anche con una certa tranquillità, e soprattutto con la consapevolezza di non poter essere smentiti: Domenico Starnone, non solo è una delle migliori penne della nostra patria, ma è riuscito a regalare a noi, esiguo popolo di attenti lettori, un libro meraviglioso e splendido, che solo un amante e conoscitore del cinema, solo un occhio attento e indagatore che ha saputo assorbire il meglio della cultura e della storia del “grande schermo” poteva riuscire a realizzare. Dunque ulteriore prova narrativa, ulteriore pluriverso di storie che abbracciano un arco temporale di circa un sessantennio della nostra Italia. Prima parte del libro: conosciamo la vita di un bambino che nella Napoli del dopoguerra vive di atmosfere magiche a metà tra coscienza e stato onirico, nelle sale cinematografiche dell’epoca (fumose e non sempre igienicamente impeccabili) in grado di far sognare, magari tra un western con James Stewart o tra le volute morbide di nuances conturbanti di un’immensa Deborah Kerr.
Spazio di riflessione che Starnone si concede per parlare di umanità a vari livelli, e soprattutto per delineare profili topo/antropologici dove era possibile scambiare qualche battuta leggera, e magari stringere amicizia con il vicino di poltrona. Come “principium individuationis” nell’intera struttura della narrazione, il desiderio dei protagonisti di lasciarsi alle spalle miseria, sofferenza, incertezze e pensare al futuro, un qualsiasi futuro plausibile pur di ottenere una briciola di benessere. Seconda parte del libro: quel bambino che il lettore ha lasciato “imbambolato” nelle sale cinematografiche a vivere nella fantasia della sua solitudine innumerevoli e incredibili avventure , agli inizi del XXI secolo ha smesso di sognare e o meglio ha trasformato il suo sogno in realtà, divenendo scrittore di sceneggiature per il cinema. Ma quello di cui scrive il protagonista, non è il cinema di Fellini o di Rossellini.
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