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venerdì 11 giugno 2010

Il libro del giorno: La bambina di vetro di Jodi Picoult (Corbaccio)



















Tutti i genitori in attesa vi diranno che non vogliono un bambino perfetto, ma che vogliono un bambino sano. Anche Charlotte e Sean O'Keefe avrebbero chiesto un bambino sano, se avessero potuto scegliere. Invece, la loro vita è fatta di preoccupazioni, di notti insonni, di conti che si accumulano, degli sguardi pietosi dei genitori "più fortunati" e, peggio ancora, di "e se...". E se la loro bambina fosse nata sana? Ma vale la pena di affrontare tutto questo, perché Willow è perfetta, per quanto strano possa sembrare. È intelligente e carina, gentile e coraggiosa e, per avere solo cinque anni, è inaspettatamente e profondamente saggia. Willow è Willow, in salute e in malattia. Ma quel "e se..." scava a fondo nel cuore e nella mente di Charlotte, che proprio in nome di Willow e dell'amore che ha per lei, decide di affrontare un processo contro la ginecologa che non ha diagnosticato prima la malattia della bambina: osteogenesi imperfetta, un'espressione asettica che descrive una fragilità ossea incompatibile con uno sviluppo e una vita "normali". Questo significa per lei cercare risposta a una serie di domande che forse una madre non dovrebbe mai essere costretta a rivolgersi. E se Sean e Charlotte avessero saputo prima della malattia di Willow? E se la loro amata Willow non fosse mai nata? "La bambina di vetro" ci porta nel cuore di una famiglia unita da un incredibile fardello, da una volontà disperata di farcela e, infine, da una fortissima capacità di amare.

"I Romance, nel senso tradizionale del termine, sono romanzi in cui i protagonisti, personaggi perfetti e infallibili, sono inseriti in una cornice ideale. Sono storie in cui, ad esempio, la pioggia cade sulle finestre ma non inzacchera i vestiti, nessuno ha fame o ha bisogno di andare in bagno e l’happy ending è obbligatorio.
Mai come in questo caso il nome della collana in cui è stato inserito questo libro, Romance appunto, è fuorviante: non c’è personaggio più fragile e indifeso della bambina protagonista di questo romanzo. Willow ha cinque anni e sin dalla nascita le è stata diagnosticata una malattia rara e inguaribile, la OI, osteogenesi imperfetta. Si tratta di una mutazione genetica per cui il tessuto osseo del malato tarda a rigenerarsi e diventa fragile come il vetro. Basta un piccolo movimento inconsulto, anche uno starnuto, per provocare una frattura ossea. I bambini affetti da questa malattia hanno una struttura scheletrica deformata e sottosviluppata, al massimo in età adulta riescono a raggiungere il metro d’altezza, i loro movimenti sono lenti e condizionati dalla scarsa resistenza muscolare.
Willow, “salice” in inglese, come un albero che si piega ma non si spezza mai, a cinque anni ha già avuto cinquantadue fratture, di cui quattro nell’utero materno e altre tre, gravissime, alla nascita. Quando i medici si resero conto della gravità della situazione, la gestazione era arrivata alla ventisettesima settimana, troppo tardi perché i genitori potessero prendere qualunque tipo di decisione. E comunque Charlotte e Sean non avrebbero mai rinunciato a quella creatura. Quando si erano conosciuti Charlotte, una cuoca pasticciera, aveva già avuto una bambina, Amelia, da un precedente compagno, un giovane tossicomane sparito durante la gravidanza. Sean era un poliziotto robusto e affidabile, che aveva amato Charlotte dal primo momento e accolto sua figlia come un padre. Mettere al mondo una bambina tutta loro era stato un sogno, scoprire che la loro vita sarebbe improvvisamente cambiata era stato un brusco risveglio, che solo in parte aveva intaccato l’idillio della loro storia d’amore. Le notti passate a curare quella bambina, l’ovatta in cui materialmente era stata riposta per molti mesi, e poi le cure infinite dopo ogni frattura, quell’inconfondibile rumore, crack, che irrompeva nella mente di Charlotte spezzandole il fiato ogni volta che la bimba si sporgeva sul tavolo o scivolava su un tovagliolo di carta, avevano riempito la loro vita di angoscia. Ma Willow è una bambina speciale, e come tutti i bambini affetti dalla OI ha un’intelligenza, una curiosità e una vitalità fuori dal comune. No, Charlotte e Sean non avrebbero voluto una figlia diversa da Willow. Eppure a volte il dubbio irrompeva nelle loro menti… “Se avessero saputo prima cosa sarebbe successo?”, “Se la colpa non fosse stata loro ma dei medici che non avevano osservato con attenzione l’ecografia?”, “Perché dovevano pagare loro, con le sofferenze e gli sforzi quotidiani, ma anche con un enorme dispendio economico, per l’errore di qualcun altro? ”.
Il dubbio scava una voragine. Gli avvocati ai quali Charlotte decide di rivolgersi dopo una pessima disavventura a Disneyland sono chiari: il danno da nascita sbagliata già altre volte nel loro paese era stato risarcito con cifre esorbitanti. Purché venisse dimostrata l’imperizia del medico, le assicurazioni avrebbero offerto il giusto ristoro alle loro sofferenze. Ma per fare questo, Charlotte avrebbe dovuto denunciare la sua ginecologa, Piper, che è anche la sua migliore amica, e rischiare di essere giudicata da tutti come una mamma arrivista, pronta a speculare sulla malattia di sua figlia.
Provare a spiegare le ragioni profonde di questa madre e descrivere questo estremo atto come un gesto d’amore è l’intento di questo romanzo, ricco di emozioni ma anche di un’estrema indicibile sofferenza. Jodi Picault ci prova, mettendo in campo tutta la sua abilità narrativa e la sua sensibilità, regalandoci un “Legal & Medical” thriller che smuoverà molte coscienze.
(powered by ibs)

Il libro rosso di Carl Gustav Jung (Bollati Boringhieri, novembre 2010)




















Il libro Rosso di Jung (Boook Trailer)


fonte iconografica: http://www.jungmich.org/Copy_of_Jung_photo_8-11-04.jpg

giovedì 10 giugno 2010

Il libro del giorno: Protezione incivile di Piero Messina (Bur)




















La Protezione civile, nata per proteggere gli italiani in situazioni di emergenza, è stata svuotata di ogni reale funzione, diventando un calderone di interessi finanziari che costa agli italiani due miliardi di euro all'anno. È il cosiddetto "modello Bertolaso": la gestione dei grandi eventi assimilata a quella delle crisi, il disprezzo totale per leggi e norme comunitarie, il budget illimitato e incontrollabile, il rapporto esclusivo con Berlusconi e Letta e prima ancora Prodi e Rutelli, la tentata trasformazione in Spa. Il risultato di un simile scempio è sotto gli occhi di tutti: un "sistema gelatinoso", come è stato definito dai magistrati, fatto di imprenditori disonesti, appalti truccati e tangenti sessuali, che non solo non riesce a far fronte alle catastrofi, ma lucra su di esse arrivando perfino a festeggiare la notizia del terremoto abruzzese. Grazie all'acquisizione di documenti riservati e ai colloqui con funzionari e operatori, Piero Messina racconta dalle origini fino alle ultime inchieste la storia scandalosa di una macchina mai all'altezza degli eventi, ma sempre puntuale alla spartizione dei soldi.

Lettera a Lèontine di Raffaello Mastrolonardo (Tea)




















Non posso nasconderlo, ma in questi giorni ho finito di leggere un libro non solo splendido sotto ogni punto di vista, ma toccante, delicato, di grande talento e sensibilità. Il libro che incolpo nell’avermi tenuto incollato alla sedia è il lavoro di Raffaello Mastrolonardo "Lettera a Léontine" edito da Tea. Non che io sia un tipo romantico, di quelli che impazziscono per “Harry ti presento Sally” (When Harry Met Sally) quel film del 1989 diretto da Rob Reiner, né vado volentieri al cinema a vedermi le commedie leggere americane, magari con Sandra Bullock. In parole povere non ho un animo romantico. Ma questo libro riesce a toccare delle corde particolari, addirittura è in grado di scavalcare le barriere e i pregiudizi verso opere di questo tipo, di chi magari solitamente non si lascia andare, e si affida totalmente nelle mani della razionalità. L’Amore trova posto in queste pagine, e Mastrolonardo è in grado di parlarne con la stessa poesia con cui Al Pacino (nel film Frank Slade) parla del “profumo di donna” nel film Scent of woman, e lo fa con grande raffinatezza e bellezza. Se qualcuno mi chiedesse se Poesia alberga in “Lettera a Lèontine”, non posso che rispondere di sì; se qualcuno mi chiedesse se Raffaello Mastrolonardo sia l’antidoto a Moccia, io risponderei affermativamente. Ma soprattutto non potrei esimermi dal dire, che questo autore è in grado di far provare quelle sensazioni uniche di quando ciascuno di noi trova l'altra metà del cielo, e dunque tutto assume dei contorni nitidi e precisi, tutto assume una luce differente e particolare. La voce narrante del libro è il dott. Piergiorgio, medico affermato, avvoltolato in una relazione coniugale da diversi anni e dotato di figlia già adolescente. Léontine, il b-side di questa storia, è una donna felicemente libera, sensuale, bella ma con misura, l’incarnazione perfetta di tutto ciò di cui ha bisogno, oramai da chissà quanto tempo Piergiorgio: ovvero una donna ironica, intelligente, determinata, in grado di sostenere una conversazione sull’ultimo libro letto, sull’ultima mostra, magari davanti a un buon vino, insomma una donna fuori e oltre le righe. Tra i due scoppia una tempestosa relazione di forza e debolezze,con tanto di “se” e di “ma”. È Léontine la padrona indiscussa di tutto il romanzo. Una storia che dà una bella lezione agli uomini un po’ bambini e insicuri dl proprio fascino e delle proprie capacità, che ci mostra cosa significhi rimorsi rimpianti e ci spinge a riflettere sul potere dell'amore. Questo è uno di quei libri che anche se letto dopo molti anni, ne vuoi sempre di più!

mercoledì 9 giugno 2010

Artificial Life ( su concessione di Ignazio Licata)


















La ‘Vita artificiale’ annunciata dal gruppo di Craig Venter , ed il rumore mediatico che l’ha accompagnata, offre un’ottima occasione per ripensare ancora una volta la tensioni culturali e metodologiche che attraversano la scienza contemporanea e le loro proiezioni mediatiche. Leggendo l’articolo scientifico originale si scopre che i ricercatori hanno inserito in un batterio un DNA la cui sequenza era stata progettata a priori ‘copiandola’ da quella di un organismo con un patrimonio genetico estremamente semplice : il micoplasma, non scrivendo dunque ex novo le informazioni genetiche. Già questo aspetto ci dovrebbe indurre a considerare il modo con cui viene usata l’impegnativa parola ‘creazione’. Inoltre, anche se gli elementi iniziali (brevi tratti di DNA) erano stati sintetizzati per via chimica, il macchinario sintetico per produrre l’intero genoma in termini di assemblaggio e riproduzione era comunque naturale, trattandosi di cellule di lievito. In pratica, la “vita artificiale” di cui stiamo parlando è più propriamente una nano macchina biomorfa, già ipotizzata da Von Neumann e Feynman a partire dagli anni 50. Si tratta dunque di un notevole avanzamento tecnologico, ma non certo di ‘vita artificiale’, e neanche di un rivoluzionario metodo di sintesi chimica. Cerchiamo dunque di chiarire ulteriormente la cosa in modo da fare un distinguo tra l’invenzione, i proclami mediatici, e le eventuali ideologie nascoste.

Il DNA è una macromolecola, un polimero biologico costituito da una catena di monomeri (detti nucleotidi) uno in fila all'altro, legati fra loro da un legame covalente a formare un lunghissimo filamento; esistono quattro tipi di nucleotidi identificati da quattro lettere (A,C,G,T), il che fa sì che un filamento di DNA può essere immaginato come una lunghissima stringa di caratteri (circa 3 miliardi nel caso del genoma umano, ma di lunghezza diversa in altri organismi). I nucleotidi allineati lungo due filamenti di DNA si riconoscono fra loro con delle regole precise. La T si accoppia con la A attraverso legami idrogeno, che sono legami non covalenti, il che significa che non implicano la costruzione di una molecola differente ma solo la giustapposizione nello spazio di due molecole; inoltre la G si accoppia con la C. Ciò fa sì che nelle cellule il DNA si trovi sotto forma di due filamenti appaiati secondo la regola A-T / G-C che garantisce la duplicazione della molecola stessa. Questa molecola è una delle grandi invenzioni della natura, perché consente di memorizzare delle istruzioni di tipo chimico (ad alcune triplette di nucleotidi corrisponde uno specifico aminoacido che va a costituire il componente di una proteina, ad altre triplette delle informazioni regolatorie che influenzano quali e quanti geni ‘attivare’ ..) che possono essere trasferite da una generazione di organismi a quella successiva in modo relativamente rapido ed economico. Insomma, una “banca dati” in cui le regole di appaiamento garantiscono la duplicazione della molecola e la riproduzione di segmenti specifici per i processi di trascrizione e sintesi proteica.

Anche se questo meccanismo di ‘copiatura e riproduzione’ è cruciale per la vita, una molecola non è un essere vivente, in quanto da sola non fa e non produce un bel nulla: per esempio, non sfrutta l'energia dell'ambiente per costruire i suoi costituenti, non si sviluppa, non muore (piuttosto si degrada), e a ben vedere neanche si duplica visto che i processi descritti in precedenza necessitano del lavoro concertato di sofisticate macchine chimiche (enzimi, proteine strutturali, complessi sopramolecolari..) per essere portati a termine.

Un batterio invece è un essere vivente: ha una membrana con una struttura molto complessa che lo separa dall'ambiente esterno fornendogli individualità e quindi la possibilità di essere considerato un sistema biologico che si autoregola, si dà un gran da fare per sopravvivere, si riproduce ed alla fine muore. Per tutte queste ragioni, alcune molecole potranno entrare e uscire liberamente dal sistema, alcune saranno escluse, altre saranno accumulate, altre ancora saranno prodotte (sintetizzate) oppure demolite. Tutto ciò avviene grazie a una complessa architettura molecolare di strutture (generalmente proteiche) che garantiscono un metabolismo altrimenti fisicamente impossibile. In questo quadro ricco di attori comprimari, l'unico regista è la cellula, nella fattispecie il batterio preso nella sua interezza, mentre il DNA si limita a fare le funzioni di un "deposito" di informazione per produrre le proteine.

Affermare di aver creato la vita artificiale soltanto perché si è trasferito un genoma “stilizzato” in un batterio deprivato del suo proprio genoma sembra un’affermazione un po’ forte e per certi versi anche assurda. In altri termini, l’esperimento di Venter consiste nell’aver sostituito una componente (il DNA) della cellula: di importanza indiscutibile, ma che proviene comunque da un altro sistema vivente. Il punto è che la sua composizione in basi è nota pezzo per pezzo agli sperimentatori e quindi in via ipotetica ‘modificabile’ a piacere. L'ingegneria genetica segue queste vie da quaranta anni, solo che fino ad oggi si sintetizzavano tratti di genoma e non il genoma tutto insieme. In questo senso crediamo si possa parlare di un buon avanzamento tecnico che poco o nulla ha a che fare con la comprensione globale dei processi viventi. Affermazioni simili equivalgono a dire che si è costruito il "melodramma artificiale" unicamente dalla partitura musicale e senza bisogno di musicisti e cantanti: provate a immaginare che cosa succederebbe se alla prima della Scala sul palco venisse esposto lo spartito del Rigoletto e null'altro. Nel caso dell'esperimento di Craig Venter saremmo a uno stadio ancora inferiore, in quanto tutto sommato i cantanti e i musicisti eseguono abbastanza fedelmente lo spartito, mentre le cellule leggono in grande libertà il DNA, decidendo autonomamente che cosa, quanto e come leggere. E’ importante essere molto chiari su questo punto: una posizione ‘centralista’ in cui il DNA è considerato come il motore immobile ed unico principio causale della vita è completamente al di fuori delle evidenze scientifiche. Non si tratta però di discussioni fra esperti con diverse e variegate posizioni in merito, di differenti scuole di pensiero, è semplice biologia di base, su cui tutti i ricercatori (e anche chi ha una semplice infarinatura di biologia) sono completamente d’accordo. Non c’è neppure bisogno di chiamare in causa l’idea centrale della biologia sistemica, ben espressa da Dennis Noble: “Dove si trova, ammesso che esista, il programma della vita? La mia tesi è che non vi è alcun programma e che, nei sistemi biologici, non vi è alcun livello di causalità privilegiato”. Insomma, inutile cercare il direttore d’orchestra, in questo caso è l’orchestra stessa!

Allora come e perché si diffondono queste semplificazioni ingenue? La spiegazione immediata potrebbe essere quella economica: dopo le mirabolanti promesse degli anni 80, la biotecnologia versa da un pezzo in una crisi profonda. C’è bisogno di illudere gli investitori con l’illusione di potenza e controllo totale sul vivente, ma è una spiegazione molto parziale che, a nostro parere, non permette di mettere a fuoco i più sottili ‘segni dei tempi’ , legati ad un singolare intreccio tra epistemologia e tecno-burocrazia. E’ illuminante l’ articolo di Adam Wilkins ‘For the biotechnology industry the penny drops (at last): genes are not autonomous agents but function within networks” (BioEssays 29: 1179-1181, 2007). Wilkins scrive: ‘..Ma forse, la vera novità è che la notizia che i geni funzionino entro reti di regolazione complessa possa essere considerata come una novità. Come è stato possibile che così tante persone coinvolte nella biotecnologia abbiano trascurato un’idea (appunto quella dell’azione combinata dei geni NdR) che è un fatto assodato nella biologia dello sviluppo ed in molti altri campi ormai da decenni ?

Eppure l’idea centralista del genoma continua a sostenere progetti a dir poco discutibili.

Nel numero di Nature del 25 Maggio (Nature (2010) 465: p.410) si introduce un mega progetto da centinaia di milioni di dollari l’anno per trovare ‘..each gene’s role, (il ruolo di ciascun gene) eliminando un gene alla volta da gruppi di topi ed andando a vedere cosa succede. Qui non solo continuiamo a scordarci che i geni lavorano di concerto come ricordava Wilkins, ma il normale buon senso”: se tolgo una candela la mia autovettura non può funzionare, ma non mi verrà mai in testa di considerare la candela come lo strumento che manda avanti la macchina (e magari cercare di ricavare dalla struttura della candela le basi del moto dell’automobile). Il progetto milionario è stato lanciato dal National Institute of Health (NIH) americano, la più prestigiosa agenzia di ricerca biomedica mondiale, che sicuramente (almeno si spera) avrà delle persone se non altro di buon senso ai suoi vertici. Ma allora ?

A nostro parere questo insistere, con argomenti palesemente assurdi, sul lancio di progetti imponenti o sulla propaganda di imprese mirabolanti è il risultato avvelenato di mitologie convergenti su un imponente progetto di marketing che poco o nulla ha a che fare con la ricerca di base:

-Il mito della grande impresa che, mobilitando su un tema unico una grande quantità di risorse, indipendentemente dall’obiettivo proposto, genererà delle ricadute importanti per il semplice effetto di aggregazione di ‘migliaia di cervelli’. E’ il tema classico del progetto Manhattan, dell’impresa spaziale, dei grandi acceleratori e della teologia matematica delle teorie del tutto, e, naturalmente, della “decodificazione” del genoma. Sono le “magnifiche sorti e progressive” di una scienza-spettacolo che vuole attirare consenso e finanziamenti, basata sull’idea fuorviante di “innovazione” come ingenua capacità della tecnologia di espandersi illimitatamente utilizzando una sorta di “lego” concettuale del già acquisito e “colonizzato” secondo una logica unilaterale, riduzionista e prometeica.

-Il mito del dominio assoluto della vita con l’eliminazione del rischio, della malattia, dell’imprevisto. Non è un caso se i vagheggiamenti new age e la mitizzazione tecnologica sembrano aver stretto un patto per far balenare ai nuovi consumatori l’idea di cure miracolose e persino promesse di immortalità. Mentre nell’ultimo mezzo secolo la ricerca di base accumulava un numero crescente di indizi a favore della dimensione multifattoriale e quindi probabilistica di gran parte di ciò che possiamo osservare negli esseri viventi, la ricerca applicata si concentrava sulla manipolazione del DNA con la pretesa che ogni processo biologico fosse “per definizione” specificato dai geni in modo diretto, lineare e, per giunta, irreversibile. L’idea dell’ “organismo macchina”, fino ad allora puramente descrittivo, si sposa per la prima volta con quello assai più pragmatico di poter controllare e addirittura progettare ogni espressione della vita. Il tutto condito da un paradosso linguistico che ha segnato uno dei momenti meno felici dell'impresa scientifica del Novecento. Per molto tempo infatti nel gergo specialistico della biologia molecolare si è utilizzata l'espressione “dogma centrale” con riferimento a un fenomeno (la sintesi proteica) che, di fatto, presenta larghissimi margini di incertezza fondamentale. Oltretutto, l'idea che tutti gli organismi siano davvero "macchine" ha al tempo stesso offerto all’opinione pubblica l'immagine del corpo umano come di un oggetto manipolabile a discrezione, per esempio per predire malattie di qualsiasi natura, per "biologizzare" ogni tratto dell'esperienza umana e persino per evitare la morte. La deformazione culturale che ne è derivata sul carattere ed i valori dell’impresa scientifica ha influito in modo pernicioso sulle stesse aspettative che l'opinione pubblica nutre nei confronti della scienza. A tale proposito, non si può trascurare l'uso spietato che spesso viene fatto del "proclama" scientifico sui giornali e nelle televisioni. Le promesse di un'imminente cura definitiva delle malattie ancora oggi più difficili da trattare, come i tumori, sono l'espressione più atroce e oscurantista della strumentalizzazione della scienza del nostro tempo. Ogni ricercatore dovrebbe sentirsi ferito nel profondo ogniqualvolta il suo ruolo sociale, il suo mestiere e la sua deontologia professionale vengono mistificati in questa maniera.

I risultati recenti della biologia molecolare -- in primis il Progetto Genoma Umano (al quale Venter ha dato un contributo decisivo) -- hanno definitivamente mostrato che il DNA è soltanto “uno” dei fattori che determinano il fenotipo degli organismi. In fondo i geni sono infinitamente meno numerosi delle proteine, il che dovrebbe bastare a comprendere che la macchina molecolare può modificare o modulare l’espressione genica a seconda di ciò che la cellula “decide” di fare in relazione agli stimoli ambientali, senza nulla dire del fatto che esistono forme di eredità biologica (eredità epigenetiche) alternative a quella strettamente genetica.

Gli esempi tratti dalla letteratura scientifica illustrati sopra potrebbero sembrare casi eccezionali di come funziona la natura, ma essi rappresentano la regola più che l’eccezione. Le proprietà (normali e patologiche) degli esseri viventi, comprese quelle degli esseri umani, non sono specificate dal DNA, ma sono il prodotto di azioni e retroazioni segnaletiche continue tra l'ambiente interno all'organismo (di cui il DNA è una parte importantissima) e il suo ambiente esterno. Il che significa che anche conoscendo l’intera sequenza del patrimonio genetico di un individuo, qualsiasi esso sia, nessuna teoria o legge scientifica ci permette di prevedere quelle che saranno le sue proprietà vitali, ovvero il suo fenotipo. Dunque, ogni illusione meccanicistica di "controllare" gli esseri viventi, o, più opportunamente, i sistemi biologici, è semplicemente velleitaria.

Quello che manca, e che fatica a farsi strada, è il passaggio da una scienza basata sulle interazioni tra singoli “componenti” ad una in grado di comprendere la complessità dei processi collettivi. L’ostinazione riduzionista porta ad una concezione della scienza come tecnologia e manipolazione, a scapito di una visione critica che dovrebbe porsi invece sempre un problema centrale: comprendere che dietro ogni tecnologia (di calcolo o di laboratorio) c’è una scelta epistemologica che va valutata criticamente e con attenzione. Altrimenti si rischia di far passare il messaggio che gli ecosistemi possono essere perturbati, aggiustati e persino migliorati a piacere, idea cara ai tecnocrati, ma puntualmente smentita dall’evidenza quotidiana.

Paradossalmente, nell’epoca dell’individualismo più estremo, la complessità dell’umano non è contemplata.

Alessandro Giuliani ( Istituto Superiore di Sanità), Ignazio Licata (Inst. For Scient. Methodology, Palermo) Carlo Modonesi (Dip. Bio-Evo&Funz., Univ. Parma) - Gruppo Scienza Semplice


Ignazio Licata qui su ApertaMente di Nova del Sole 24 Ore


Il libro del giorno: Illusioni italiche. Capire il paese in cui viviamo senza dar retta ai luoghi comuni. Di Luca Ricolfi (Mondadori)





















Un'impresa rischiosa quanto affascinante quella in cui si è cimentato Luca Ricolfi, professore di Metodologia della ricerca psicosociale all'università di Torino e apprezzato editorialista di "La Stampa" e "Panorama": diradare il fitto strato di nebbia - ideologica e culturale - che spesso seppellisce la "verità" dei fatti sotto un cumulo di credenze. A seguito della crisi economica globale, possiamo dirci più ricchi o più poveri? Il gettito dell'Iva ha qualche relazione con il tasso di evasione fiscale? Ed è mai possibile che l'evidenza empirica e matematica dell'ultimo indice Istat possa piegarsi alle speculazioni propagandistiche sia di destra che di sinistra? Non sarebbe forse più corretto e politicamente onesto abbandonare le interpretazioni fasulle, separare i fatti dalle credenze? In questi "esercizi di disincanto", Ricolfi fornisce al lettore gli strumenti per cogliere la sostanza dei numerosi problemi che caratterizzano l'attuale dibattito politico e suggerisce, con esempi chiari e dimostrazioni comprensibili, in che modo si può riconsiderare il proprio ruolo di cittadini attivi e consapevoli.

La mala ora di Gabriel Garcìa Marquez (Mondadori). Intervento di Vito Antonio Conte















Primi anni Ottanta, alloggio universitario di Borgo Pietro Cocconi, in quel di Parma, interno 3, tendine della finestra -che dà sulla passerella che collega i due corpi dell'edificio- aperte sul meriggio d'altra luce, pausa studio: vado in cucina a preparare il caffè (il Quarta, portato da Lecce, ché il Segafredo di zona non è un granchè!), intanto Lucia e Danio continuano a parlare, entrambi studiano veterinaria. Ora, però, i libri di testo dell'ultimo esame (nonsocosadegliequini) sono in stand-by. C'è musica diffusa dal registratore. Danio ha un'anima hevy metal che porta anche addosso. Lucia è pazza (anche) di David Bowie: canta le sue canzoni (in perfetto inglese, mi sembra, cioè in inglese di sicuro, perfetto sembra a me, che non conosco quella lingua...) a memoria e le balla con una forza da lucida allucinata e con una grazia che sa d'antica danza. Io (a parte “giurisprudere”, essere fedele... e fare il caffè) leggo d'altro, scrivo improbabili poesie... e spedisco lettere e cartoline in lungo e in largo per lo Stivale. Quel pomeriggio sentii -per la prima volta- il nome di Gabriel Garcìa Màrquez (lo so, i segni paragrafematici non sono esatti, ma il mio PC non conosce altro... o forse dipende da me... senza forse...). Lucia stava leggendo “La incredibile e triste storia della candida Eréndira e della sua nonna snaturata”. Quel titolo colpì la mia fantasia e stuzzicò la mia curiosità. Poco tempo dopo avrei letto Màrquez e, tra gli altri romanzi, sarei rimasto folgorato da “Cent'anni di solitudine”, dai Buendìa (col colonnello in testa e le tristezze per la sorte dei lavoratori delle compagnie di banane) all'alchimia, dal dagherrotipo (prima forma di riproduzione delle immagini scoperta dal francese Daguerre -da cui il nome- nel 1839, che dà vieppiù fascino all'invenzione letteraria) ai ritmi sudamericani svogliati e stanchi eppur carichi d'altra vitalità (oltre ogni memoria), dai paesaggi madidi di pioggia e sudore di Macondo e dintorni... Oggi, a distanza di qualche lustro, ho letto “La mala ora” (Oscar Mondadori, pagine 199, € 8,00) e, una volta ancora, ho capito perché Màrquez è uno scrittore da Nobel. Ché Màrquez è riuscito, unico tra pochi, in quel deicidio ch'è l'atto della creazione letteraria, ossia (come ha notato -in proposito- Vargas Llosa) una ribellione contro Dio e il Creato, contro la realtà. Nella fittizietà letteraria delle sue opere Màrquez riesce splendidamente a fornire un mondo fantastico in antitesi a quello quotidiano, nevrotico e patologicamente folle. Vita reale e viaggio favoloso. Realtà rinvenibile in tutti i personaggi, così autentici e veri, perfetti (e, dunque, lontani dalla Terra) in ogni loro azione da apparire traslazione della fantasia. Favola che si coglie in ogni loro movimento all'interno di un luogo inventato, un villaggio tanto fantastico che sembra costruito pietra su pietra. Nell'immaginario dello scrittore questo ribaltamento delle due sfere vitali diventa confuso nelle trame, sudore e sangue si commistionano alle nuvole che sfiorano passioni e desideri, si sovrappongono in un flumen narrativo liberatorio che consente di vedere l'esatta espressione di quel che è e di quel che dovrebbe essere. Ché non si può cogliere il Bene senza la sua negazione... Una volta ancora, ho notato la costante nelle narrazioni di Màrquez ch'è metaforicamente possibile assimilare alla tessitura d'un tappetto: c'è la scelta delle fibre, e il disegno, e la trama, e l'ordito e si procede nodo dopo nodo, in una serie d'intrecci e di passaggi e di pause e di riprese, senza -però- definirlo mai... Così sono i testi di Marquez e smetto di mettere accenti a cappella... Ché le regole (tutte!) sono importanti, importante è osservarle, comprenderle è importante, importante è capire perché le regole tendono a scongiurare il caos... ma violarle (in questo caso!) non importa sanzioni e può consentire di vederlo il caos e penetrare un'altra possibilità e, da lì, muovere verso altre comprensioni... La mia visione disvela l'unica essenza sepolta sotto infiniti strati d'inutili costruzioni... Quelle che hanno avvelenato l'aria che respiriamo ogni momento. Quelle che hanno allontanato dalle nostre menti le pulsioni di tutto quel ch'è corpo. Quelle che hanno imbarbarito i nostri corpi rendendoli schiavi delle reiterazioni del così-è-e-per-essere-così-devi-impegnarti-il-culo-finché-vivi. Quelle di chi si erge a modello e predica l'emulazione impossibile per ammucchiare ricchezze e lasciarti mosche sugli occhi, sulla bocca, sulle orecchie, dentro gli occhi, dentro la bocca, dentro le orecchie, e in ogni cavità, senza reazione, senza forza, senza più lacrime, ché sei morto anche se respiri, e di questo hanno bisogno, di morti che si credono vivi, che respirano fino all'ultimo centesimo da spendere. Quelle che hanno fatto della spiritualità bussines per dimenticare il corpo e fottendoci se la godono qui e adesso, tanto noi siamo in pace con le nostre interiorità e non ci chiediamo più quale pace e quale interiorità, tanto abbiamo l'illusione che ce la godremo altrove, ché ci hanno talmente tante volte detto che c'è un'latra vita che abbiamo finito per crederci... giocandoci anche l'anima. Quelle che ogni vita che non è più aumenta la loro. Quelle... Costruzioni e costruzioni. Regole e regole. L'unica essenza è quella che risiede alla radice di ogni regola. L'unica regola, l'ho già scritto, è quella madre... Quella che potrebbe farci vivere, vivere, vivere davvero, vivere davvero meglio, vivere davvero meglio tutti... Ma per comprenderla ognuno deve avere consapevolezza che -senza il rischio di sanzioni- non cambierà mai questo mondo di merda... Ogni riferimento a pozzi di petrolio con falle e perdite incontrollabili, a terremoti che fanno ridere per gli affari che si possono fare sopra i lutti, a manovre economiche che stritolano i coglioni, a IOR otto per mille e cinque per mille, a prelati pedofili che dovrebbero essere inculati da chi so io, e ancora e ancora e ancora, ogni riferimento è assolutamente voluto! Non predico rivoluzioni fatte di sangue, non esorto a cambiamenti con le strade piene di morti, non sono in viaggio con borsoni colmi dell'armamentario della guerra decisiva, dico soltanto che perché tutti i morti che si credono vivi possano assaporare qui e adesso la VITA VERA devono lavare con acqua gelata e pura i propri occhi spenti per riuscire a vedere, e la faccia intera devono lavare con acqua gelata e pura, col naso che serve per sentire l'olezzo della merda d'intorno ma anche il profumo della vita, anzi delle vite, con le orecchie che servono per udire le stronzate ripetute a ogni spot ma anche i suoni della melodia della vita, anzi delle vite, con la bocca che serve per alimentarsi e non per ingollare frammenti dell'altro ma anche per parlare dicendo parole sensate all'altro e per sussurrare e per baciare e per sfiorare ogni centimetro di pelle d'amore... devono lavare con acqua gelata e pura le mani e le braccia e il torace e le gambe e i piedi e il sesso e la pancia e ogni centimetro di pelle... serve acqua gelata e pura per farsi baciare ogni centimetro di pelle... serve acqua gelata e pura per togliersi da questo torpore senza fine, per svegliare i propri sensi alla vita, per dire a quelli che si credono vivi che sono morti da tempo, che sono morti da sempre, che sono i veri morti e che non ci sono cimiteri né cieli per loro... E, forse, “La mala ora” diventerà una gran bella occasione per amare il tempo... E, forse, queste mie digressioni non sembreranno soltanto elucubrazioni incazzate... E, forse, si comprenderà meglio la ragione dei continui rinvii da un testo all'altro ch'é (come dicevo a proposito della metafora del tappeto...) nota precipua caratterizzante la scrittura di Marquez... E, forse, si capirà sino in fondo quel che lo stesso Marquez ebbe a dire in un'intervista a Plinio Mendoza (poi diventata un libro: “Odor di guayaba”, 1982) a proposito dei suoi romanzi e cioè della sua convinzione che “ogni buon romanzo dev'essere una trasposizione poetica della realtà” (e, in quanto tale, “le possibilità del romanzo sono illimitate”). E, forse, chi leggerà questo pezzo comprenderà cosa c'è dietro le parole o forse almeno proverà a chiederselo... Anche se non ho detto nulla dell'alcalde col mal di denti e il coprifuoco, del prete che censurava i film con i rintocchi della campana, del mercante siriano con bottega sul fango, del barbiere cospiratore, del dentista rivoluzionario, del giudice disoccupato tra birre ghiacciate, del segretario che spennava galline, del circo che dovette andar via, del fiume e della carogna putrida di mucca che portava con sè, della pioggia che non lavava nulla, degli assassini assoldati dalla polizia, delle zanzare, dei muli e di altri animali e di umani sciacalli, dei pettegolezzi e delle pasquinate e della veggente (pitonessa del circo itinerante) che -a proposito delle pasquinate- disse l'unica cosa sensata: “È tutto il paese e non è nessuno”, e di tutta la storia che ruota intorno a tutto questo e a altro ancora, di tutta questa storia ch'è tanto inventata da essere più vera di qualunque storia scritta, ché c'è sesso e sangue e nessuna speranza segnata perché la speranza non si può scrivere. La speranza si coltiva. La speranza è atto fattivo. E ognuno deve poterla nutrire ogni giorno, facendola diventare concretezza. Perché la nostra storia non rimanga senza significato. Perché ogni storia può e deve lasciare qualcosa. Ché non sia ancora oggi quel ch'è stata “La mala ora”, ossia, parafrasando quanto ebbe a dire l'Autore (sempre all'amico Plinio Mendoza), “La storia dell'America Latina è anche una somma di sforzi smisurati e inutili e di drammi condannati, a priori, alla dimenticanza. La peste dell'oblio esiste anche tra noi...”. La speranza è questo romanzo. La speranza è la fine di questo romanzo, che termina così: “Anche Mina si fermò, con la scatola vuota sotto il braccio, e abbozzò un sorriso nervoso prima di terminare la frase”. Senza una fine. Con tante pagine bianche ancora da scrivere... Colonna sonora: “Congo to Cuba” (Putumayo World Music, 2002) e, in particolare, “Yiri Yiri Boum” di Gnonnas Pedro (dal Benin).


Bollati Boringhieri a novembre 2010 pubblicherà il libro segreto di Jung












Finalmente anche in Italia il libro segreto di Jung, un'opera tanto temeraria e preziosa che solo oggi, grazie agli sforzi inesausti di Sonu Shamadasani, traduttore principale e autore del ponderoso saggio introduttivo, questo testo straordinario esce dal caveau della banca svizzera in cui era conservato, e vede la luce a ottant'anni dalla sua conclusione e a mezzo secolo dalla morte del suo autore. Nell'attesa che Il Libro rosso arrivi in libreria, Bollati Boringhieri propone, attraverso la realizzazione di un filmato, un assaggio delle pagine di questo libro che non solo svilupperà nuove possibilità per la comprensione del lavoro di Jung, ma diventerà, grazie alle prestigiose illustrazioni, un'autentica opera d'arte.

Info:

Evelina Gastaldo

Stilema
Via Cavour, 19 10123 Torino
Tel +39 011 530066 int 205
Fax +39 011 534409
ufficiostampa@stilema-to.it


martedì 8 giugno 2010

Boing Generation, il ritratto di una generazione?

Roma, 7 giugno 2010 - Boing Generation di Luca Sacchieri alla libreria Rinascita (Ostiense)

L’incontro si è svolto all’interno dell’accogliente caffèletterario, hanno partecipato alla discussione, eccezionalmente, il direttore editoriale di Edizioni della Sera Stefano Giovinazzo, l’autore Luca Sacchieri e l’attrice teatrale Laura Sinceri. Un interessante e divertente scambio di battute tra l’autore e l’editore ha animato il reading, al quale si sono intervallate le letture dei brani del romanzo scelti ad hoc per l’occasione. Dopo una breve introduzione alla storia, in cui l’autore ha presentato i quattro protagonisti, si è passati all’analisi contenutistica della narrazione, soffermandosi sul significato del titolo e sul riscontro con il contemporaneo. La Boing Generation viene fatta coincidere con la classe dei moderni trentenni, che secondo l’autore, appaiono disorientati e insoddisfatti, sempre alla ricerca di qualcosa di altro. Il motivo di tale spaesamento sembra scaturire da una sorta di costrizione sociale che ci vuole tutti omologati ad un modello vincente imposto, più che altro, dai mezzi di comunicazione di massa. I quattro protagonisti faticano a riconoscersi in tale modello e allora fuggono pensando che cambiare luogo vuol dire lasciarsi alle spalle i problemi, così facendo si costruiscono una corazza “molle” che li fa soltanto rimbalzare sulle loro paure. Da qui il titolo Boing Generation, che può essere associata alla Beat Generation, senza l’entusiasmo che contraddistingue quest’ultima. In realtà i personaggi del romanzo si portano dietro, inconsapevoli, i loro problemi, proprio come fanno i canguri con il marsupio. Il viaggio servirà loro per incontrarsi e raccontarsi e li porterà alla consapevolezza che il solo modo per sfuggire alle costrizioni e affrontarle, dunque torneranno a casa liberi dalla corazza. Sollecitato da Stefano Giovinazzo, l’autore ha poi esposto la sua personale esperienza, affermando di riconoscersi nei protagonisti e di vivere sulla propria pelle determinate pressioni sociali. La discussione si è conclusa con il partecipe intervento del pubblico.

Boing Generation di Luca Sacchieri

La Boing Generation è persa nel labirinto di apparenze e superficialità della vita di oggi; vede il futuro come una minaccia e il dolore come una debolezza da secretare. L'unica cosa da fare è fuggire.È questo che faranno i quattro protagonisti della nostra storia. In una disperata ricerca di se stessi e dell'essenza di vivere, quattro amici- divisi dal tempo e dalla vita – si ritrovano insieme per affrontare un viaggio nel tempo e nello spazio, tra ricordi e cicatrici.Quattro ragazzi in fuga dalle loro paure, dalle gabbie delle loro esistenze, per cui la vera meta non consiste in nuovi panorami, ma nell'avere nuovi occhi.

Luca Sacchieri - Nato a Roma nel 1982, dopo la Maturità Classica si laurea in Scienze della Comunicazione. Ha pubblicato due romanzi Tributo ad un ragazzo che come me (Proposte editoriali, 2003), C.H.A.T. - Come Ho Amato Te - (Fermento, 2004) e tre racconti La linea gialla (in “Parole in corsa V°”, Full Colour Sound, 2007), Bricolage ( in “Tutta la mia città”, Giulio Perrone, 2008), Consigli per gli acquisti (in “Dal manoscritto al libro”, Giulio Perrone, 2008). Luca è librofilo, fumettofilo, rockofilo, calciofilo, internetofilo, cinefilo e cinofilo, ma fondamentalmente di annoia

Il libro del giorno: Nel segno del cavaliere di Bruno Vespa (Mondadori)




















La storia politica di Silvio Berlusconi non ha precedenti nella vita pubblica italiana. Nessuno è entrato nel Palazzo così repentinamente e inaspettatamente, nessuno vi è rimasto così a lungo con il consenso degli elettori, conservando un ruolo da protagonista assoluto anche nel lungo periodo trascorso all'opposizione. In "Nel segno del Cavaliere" Bruno Vespa, che dal 1994 a oggi ha seguito passo dopo passo questa straordinaria avventura, compie una rivisitazione degli ultimi, tumultuosi diciassette anni della storia del nostro paese. Dal giugno 1993, quando Berlusconi decise di "scendere in campo" nel timore che la nuova legge elettorale consentisse agli ex comunisti di Achille Occhetto di prendere il potere con appena il 30 per cento dei voti, al maggio 2010, contrassegnato dalla clamorosa rottura con Gianfranco Fini e dalla tempesta che gli affari della "cricca" di Diego Anemone e Angelo Balducci hanno scatenato sul mondo politico e, soprattutto, sulla maggioranza di governo, con le dimissioni di Claudio Scajola, le inchieste su Guido Bertolaso e Denis Verdini e altro ancora. Naturalmente, grande risalto assumono nel libro le vicende e i retroscena dell'annus horribilis (maggio 2009 - maggio 2010) di Berlusconi, del quale ancora una volta molti hanno profetizzato la fine imminente: dagli scandali a luci rosse di Noemi e Patrizia al successo del G8 dell'Aquila, dalla vittoria alle elezioni europee (giugno 2009) alla riscossa alle regionali (aprile 2010).

lunedì 7 giugno 2010

Sarakostì. La riflessione di Salvatore Tommasi (Davide Zedda editore). Intervento di Donatella Neri
















È una storia salentina, negli anni che precedono la Seconda Guerra Mondiale, in piena campagna d’Africa. La società rurale è divisa tra simpatizzanti e piccoli gerarchi boriosi e la povera gente comune, per lo più indifferente ad una politica che sente lontana. Angelo, quattordicenne calimerese, è uno dei tanti ragazzini emarginati dalla scuola e costretti a contribuire al bilancio familiare. Per saldare un debito del padre, viene affidato al capomacchia Nino per essere avviato al mestiere di carbonaio, e così affronta la prima stagione di quello che diventerà il suo percorso di vita. Introdotto precocemente nel mondo adulto, lontano da casa (la macchia da disboscare è nella zona di Avetrana), impara a “leggere” i suoi compagni di fatica, il loro carattere, la loro forza e le loro debolezze, in una importante esperienza che lo matura e lo apre alla vita e alla natura della propria terra, ma anche alla riflessione sociale e politica. Mentre i carbonai sono impegnati nel loro duro lavoro, ad Angelo è affidato tra l’altro il compito di recarsi al pozzo di una masseria poco lontana; qui il ragazzo avverte una strana presenza e finisce col restare coinvolto in una storia più grande di lui... È questo uno splendido romanzo, nel quale il ritmo della prosa si armonizza con quello della vita d’anteguerra; una grande forza descrittiva rende il “respiro” dei paesaggi, mentre l’asciuttezza dei dialoghi esprime con efficacia la natura chiusa eppure intensa dei vari personaggi. Fedelissima la ricostruzione degli ambienti, delle credenze, della scala di valori che ispirava l’esistenza del popolo in quel periodo; coinvolgente l’esplorazione degli atteggiamenti umani; attenta la ricostruzione di un mestiere perduto. La delicatezza con cui è affrontato il tema sentimentale (sia nella scoperta del sesso, sia nel maturare dei rapporti d’affetto tra Angelo e gli adulti), il richiamo ad usi e tradizioni e l’equilibrato ricorso al griko rendono godibile la lettura mentre la vicenda del protagonista si intreccia a richiami storici e antropologici di tutto spessore.

L’autore: Salvatore Tommasi, calimerese, laureato in Filosofia e in Lingue e Letterature straniere, dopo un’esperienza di ricercatore presso l’Università statale di Mosca si è dedicato all’insegnamento nella Scuola secondaria superiore. Ha pubblicato la raccolta di poesie Le mie bandiere (Firenze Libri, 1988), Katalisti o kosmo (Ghetonia, 1996), raccolta di dialoghi e guida grammaticale al griko, Io’ mia forà (Ghetonia, 1998), fiabe e antichi racconti inediti della Grecìa Salentina, e Alia loja (Ghetonia 2009), antologia di versi in lingua grika.


domenica 6 giugno 2010

Il libro del giorno: Perchè siamo infelici a cura di Paolo Crepet (Einaudi)




















Le abbiamo dato nel corso dei secoli i nomi più diversi: malinconia, depressione, angoscia, pena, tristezza... Abbiamo tentato di esorcizzarla, di conviverci, di narcotizzarla, di addomesticarla o di farne una malattia da curare. Alcuni sono riusciti a farne la compagna di una vita, altri sono usciti sconfitti nel tentativo di negarla, altri ancora sono in cerca di consolazione. L'infelicità abita da sempre nel cuore dell'essere umano. La sua cura è stata affidata nei secoli alla religione, alla famiglia, ai manicomi, all'arte. Mai però come in questi anni la farmacologia è stata cosi invadente nel tentativo di appropriarsene per neutralizzarla. E il concetto di infelicità si è allargato a dismisura al punto da farci sentire come patologica ogni lacuna nelle nostre prestazioni. Ma siamo certi che l'infelicità sia una malattia? In questo libro non ci sono né ricette né rimedi. Ma un tentativo di rimettere la parola e l'ascolto al centro del discorso. E di restituire dignità a una condizione umana.

Sono ateo e ti amo, di Irene Chias (Elliot). Intervento di Nunzio Festa



















“Fucsia è il colore del disincanto”, “San Francisco 17”, “L’amica di Parigi”. Sono i titoli dei tre, sorprendenti, racconti che vanno a costruire, incastrandosi, il romanzo “Sono ateo e ti amo”. Quest’ opera prima è frutto delle invenzioni, si deve cominciare a precisare, della giornalista finanziaria Irene Chias; una penna, dunque, ben abituata e atta benissimo a indagare altri settori – soprattutto, meandri meno vergati da fantasia e ‘creatività’. Dove, per esempio, si deve solamente fare a conti con le certezze dei numeri e degli Affari. Chias s’affida, dunque, a tre racconti, in sostanza, che dopo aver fatto il giro del mondo convergono in un puntino sul globo: la Sicilia: per comporre un romanzo di parenti vicini e lontani. Sull’evasione e sull’inevitabile legame alle radici. Una fotografia (uno scatto di quelli arcaici e perfino moderni) ai circa trent’anni delle tre giovani protagoniste della storia. In sostanza: Ulna, Adele ed Elena. Tre donne fermatesi un attimo nel quotidiano tram-tram a contemplare i rapporti e le solitudini. Le assenze e le presenze. Un libro che porta a riflettere sulle origini e sui “cortili che ci hanno cresciuti”, senza perdere le occasioni che il presente offre e quelle che il futuro a volte non sembra propinare proprio rosee. Un inno alle sorelle e ai fratelli. Che simili o diversi che siano, originati dallo stesso grembo e cresciuti calpestando la stessa terra sono o dovrebbero essere i primi a sapersi nell’apice dei momenti di gioia o dolore. Tre storie che toccano tre intimità differenti fatte di lutti, ritorni e partenze. Senza mai perdere di vista crisi economiche, esistenziali e affettive che a trent’anni sembrano prendere forma in una società che offre lavori gratis a neolaureati e relazioni yogurt (con scadenza ben in vista sull’etichetta) con uomini – ma con uomini né uomini né ragazzini. In tutto ciò l’ultimo racconto almodovariano. Una full immersion sulla forza dei rapporti non solo del sangue ma del cuore. La volontà di non separarsi nonostante la morte imminente. La forza dell’amore che capovolge l’ordine costituito, e anche in un luogo difficile fatto di pregiudizi. E un segreto che nel rispetto delle parti, nel silenzio del segno solcato, in un silenzio dove lascerà un sorriso di stupore per la possibilità del non detto di persone care. Il linguaggio della Chias, pronto e vispo, praticato in special modo per trovare perfetta intesa con chi legge, subisce il fascino del racconto diretto e non condizionato da fluttuazioni retoriche. Una lingua a servizio della trama, innanzitutto. Dal suo mondo lavorativo, certamente, Irene Chias prende qualcosa. Ma senza farsi schiacciare da questo. Per uscire da fredde chiesette del Tremila.


Il libro del giorno: Consigli per un paese normale di Enzo Biagi (Rizzoli)





















Una cosa è certa: viviamo in un Paese da sempre abituato agli eccessi. Alle nostre spalle abbiamo una Storia millenaria, fatta di personaggi geniali e sregolati, crudeli e compassionevoli, candidi e loschi. A quanto pare le vie di mezzo non ci sono mai riuscite bene. E anche il nostro presente ci ha abituati a ogni tipo di esagerazione: dalla Tv che ha fatto a pezzi la privacy a una politica che ha fatto del vizio privato una pubblica virtù. E forse questa tradizione di eccessi, nel bene e nel male, ci ha disabituati a un concetto molto semplice e forse proprio per questo difficile da afferrare: la normalità. Quella cosa per cui un treno arrivato in orario non è un evento da festeggiare, quel principio in base al quale un lavoro sicuro e giustamente retribuito non è un obiettivo irrealizzabile, quella abitudine a vedere in chi è diverso da noi un compagno di strada e non una minaccia. In queste pagine Biagi delinea il profilo di un'Italia inconsueta eppure così facile da immaginare, un'Italia che sa stare composta non solo a tavola, ma anche nella vita di ogni giorno. E lo fa citando esempi concreti di oggi e di ieri, come i tanti eroi senza nome che sotto i nostri occhi spesso indifferenti salvano vite umane (o le rallegrano) o i nomi illustri che nel tempo ci hanno insegnato a essere persone migliori. Con la consueta semplicità che l'ha reso celebre, Biagi ci spiega cosa dovremmo fare per guadagnarci quello che ci meritiamo: un Paese normale.

Nel Paese della persuasione di Georges Saunders (Minimum Fax)












La casa editrice Minimum Fax, che da tempo apprezziamo per il suo encomiabile lavoro di scansione del meglio del meglio, offre nelle librerie del nostro paese, il volume dal titolo “Nel paese della persuasione” di Georges Saunders.

«Avevo portato mio nipote a New York a vedere uno spettacolo. Perché sapete cosa fa sempre quassù a Oneonta? Canta e balla, anche coi miei vecchi dischi delle commedie musicali, ma più che altro con il suo cd preferito, Babar canta!, a volte inventa pure i passi, ma non me ne preoccupo, o meglio cerco di non preoccuparmene.»

Siamo stati abituati a vagare nell’oscurità di un mondo della Muse che in apparenza non risulta essere in grado di fornire stimoli. Ma forse quando ci si abitua a camminare troppo nell’oscurità, anche i più piccoli punti di luce, possono apparire nitidi e divenire subito punti di riferimento. Ma che accade quando in un abissale baratro, esplode con intensità deflagrante un bagliore che acceca e stordisce? In tempi bui come i nostri una melodia frizzante, schietta e spregiudicata come quella che trasuda dalle pagine degli scritti di Georges Saunders, rinfranca e soddisfa gli appetiti dei palati anche più esigenti.

L’autore gioca molto con il surreale, o meglio con l’iper/reale e tra le righe si nascondono multiversi popolati da cani castrati, merendine dotate di “flatus vitae”, ed esistenze vissute e rivissute come in un eterno video frame mandato a circuito chiuso sui palcoscenici del nostro mondo.

continua qui su Il Recensore

venerdì 4 giugno 2010

Il libro del giorno: Una brava ragazza di Joyce Carol Oates (Bompiani)


















La sedicenne Katya Spivar e il sessantottenne Marcus Kidder si trovano contemporaneamente in una località balneare sulla costa del New Jersey. Katya viene da una famiglia povera e corrotta e si trova lì come baby sitter. Marcus è un artista (scrittore, musicista, pittore) di New York, ricchissimo. Tra i due inizia una relazione. Inizialmente lui le chiede di posare seminuda e lei accetta per soldi; poi, però, tra i due si crea una reale intimità, sembra amore ma i soldi e lo status di Marcus fanno troppa gola a Katya. I piani vengono rovinati da Roy, un avanzo di galera, amico della madre di Katya, che vuole approfittare della relazione della ragazza per rapinare Marcus. Katya in un primo tempo si presta al gioco, ma poi abbandona il complice e torna da Marcus, facendosi perdonare e arrivando al matrimonio. Ad attendere i due sposi però c'è la zampata di una maestra della suspence come Joyce Carol Oates.

Alla fine il segreto viene fuori di W.H. Auden da "La verità, vi prego, sull'amore" (Adelphi)















Alla fine il segreto viene fuori,
come deve succedere ogni volta,
è matura la deliziosa storia
da raccontare all'amico del cuore;
davanti al tè fumante e nella piazza
la lingua ottiene quello che voleva;
le acque chete corrono profonde,
mio caro, non cè fumo senza fuoco.

Dietro il morto in fondo al serbatoio,
dietro il fantasma sul prato del golf,
dietro la dama che ama il ballo e dietro
il signore che beve come un matto,
sotto l'aspetto affaticato,
l'attacco di emicrania e il sospiro
c'è sempre un'altra storia,
c'è più di quello che si mostra
all'occhio.

Per la voce argentina che d'un tratto
canta lassù dal muro del convento,
per l'odore che viene dai sambuchi,
per le stampe di caccia nell'ingresso,
per le gare di croquet in estate,
la tosse, il bacio, la stretta di mano,
c'è sempre un segreto malizioso,
un motivo privato tutto questo.


"I temi di queste poesie sono l'amore e la disonestà, i due poli tra i quali ci siamo trovati a soggiornare nel nostro secolo, pronti a gloriarci della loro occasionale divergenza ma bravissimi, anche quando siamo sfortunati, a conciliarli fra loro, a fonderli insieme. Ci sono buone ragioni se i versi del poeta oscillano tra la più intensa tenerezza e parossismi di indifferenza, e se da queste oscillazioni nasce uno stridente lirismo che non ha precedenti". Così scrive Iosif Brodskij presentando queste dieci poesie di W. H. Auden, composte negli anni Trenta.

Il libro del giorno: Nobody di Charlotte Link (Corbaccio)


















A Scarborough, una località di mare dello Yorkshire, viene trovato il corpo di una studentessa brutalmente assassinata. Per mesi la polizia brancola nel buio alla ricerca non solo di un autore, ma anche di un movente. Fino a quando un nuovo omicidio scuote gli abitanti della cittadina. Questa volta la vittima è una donna anziana. Le modalità dell'assassinio, tuttavia, sono le stesse e la poliziotta incaricata delle indagini si convince che il nesso fra gli omicidi sia da ricercare nel passato delle due famiglie. E, con l'aiuto di un diario trovato per caso, si imbatte in una vicenda accaduta più di mezzo secolo prima, quando in paese era arrivato, insieme agli sfollati da Londra durante i bombardamenti, un bambino di cinque anni apparentemente orfano, ritardato e che si era subito attaccato a una ragazzina di poco maggiore. Brian era il suo nome: questo era tutto ciò che si sapeva di lui. Da tutti era stato "battezzato" Nobody e da tutti era stato maltrattato per anni, atrocemente. Che fine abbia fatto nessuno lo sa e a Scarborough tutti hanno cercato di dimenticare questa brutta storia. Ma ognuno in cuor suo sapeva che un giorno o l'altro sarebbe saltata fuori.

Il caso Amicizia (Studio 3TV)












Siamo nel 1956. Bruno Sammaciccia e alcuni suoi amici entrano in una storia che ha dell’incredibile: due individui misteriosi li contattano dicendo di appartenere ad una razza extraterrestre. Uno alto più o meno due metri e mezzo, l’altro quasi un metro. Sammaciccia ed i suoi amici, non ci credono. Si devono però ricredere quando vengono introdotti in una enorme base sotterranea dove incontrano altri alieni. La base si trova nei pressi della Fortezza Pia di Ascoli Piceno, e all’interno vi sono spazi e strumenti idonei dove quelli che “loro” definiscono giovani, vengono educati all’apprendimento di tecniche di pilotaggio di astronavi, e all’apprendimento di tecnologie iper/avanzate. Sammaciccia e i suoi amici iniziano ad aiutarli nello sbrigare le diverse e numerosissime incombenze che vengono loro richieste dai cosiddetti “amici”. Richieste delle più svariate, come ad esempio il trasporto di frutta, cibo ed altri materiali mediante carovane di camion che, secondo i testimoni, vengono svuotati in tempi non “umani”. In media ogni mese vengono fatti giungere almeno due camion alle varie basi in differenti regioni di Italia dove Sammaciccia ed i suoi aiutanti si trasferiscono in base alle necessità del momento. Questo è il contenuto del libro di Stefano Breccia dal titolo “Contattismi di massa” edito da Nexus. Per chi non lo sapesse Stefano Breccia, ha partecipato (talora come responsabile unico del progetto) alla creazione di Scuole post-universitarie per TLC a Ljubiana, Praha, Bucarest, Novosibirsk, Cordoba (Argentina); è stato direttore scientifico del Centro Studi ed Applicazioni delle TLC di Catania ed ha partecipato al Delta Project della Comunità Europea, in qualità di responsabile per le problematiche di intelligenza artificiale, nonché autore di svariati libri e centinaia di articoli su pubblicazioni specializzate. Ora escono ben 55 minuti di DVD per i tipi di Studio 3TV di Porto S. Elpidio dal titolo “Il caso amicizia”. Certo, qualcuno potrebbe obiettare, nulla di nuovo sotto il cielo. Ancora una volta si parla dello straordinario caso italiano accaduto tra gli anni 50 e 60, di contatto alieno rimasto segreto per mezzo secolo. Ma non in questo caso. Si parla di un prodotto editoriale sconvolgente. Innanzitutto le persone coinvolte sono di alto livello sociale e culturale. Un esempio? il noto Console Alberto Perego. I testimoni di questa incredibile vicenda si sono decisi non solo a uscire allo scoperto ma di parlare. I documenti filmati e fotografici sono davvero eccezionali. Imperdibile!

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