“Azzeccare i cavalli vincenti” è l'ultimo titolo degli sterminati scritti di Charles Bukowski, uscito nel novembre dello scorso anno per i tipi di Feltrinelli Edizioni nella Collana “Canguri”. Si tratta di trentasei “pezzi” pubblicati (Buk vivente) su riviste, fanzine e giornali underground (tra cui “Portfolio”, “Story”, “L.A. Free Press”, “Open City”, High Times”, “Small Press Review”, dal 1946 al 1994) e ora ottimamente raccolti da David Stephen Calonne, curatore del libro. Del Bukowski poeta e scrittore in prosa questi “pezzi” hanno lo stile e il linguaggio, riconoscibilissimi, ché la scrittura di Hank è inconfondibile tanto è unica. Il pregio di questo libro è che, traverso gli inediti che contiene, rivela qualcosa in più (semmai occorresse) sulla versatilità creativa della incalcolabile opera bukowskiana, così vasta che -allo stato- non esiste una bibliografia completa di tutti i lavori di Bukowski. In questa raccolta si possono leggere racconti brevi, recensioni a libri di altri autori, brevi saggi e veri e propri manifesti sulla sua poesia. Tutti e trentasei i “pezzi” sono altrettanti piccoli capolavori e dopo le duecentosessantanove potentissime pagine del libro la sensazione più evidente (OLTRE TUTTO... CH'È MOLTO ALTRO...) è quella di piena soddisfazione per i diciassette € spesi (CHE IN QUESTI TEMPI DI CARENZE NON È POCO!), in uno al fatto di sapere che di Hank c'è ancora tanta scrittura inedita... Per quanto dopo questa premessa possa sembrare inutile esercizio segnalare qualche “pezzo” in particolare, meritano una nota a parte quello che dà il titolo al libro, “AZZECCARE I CAVALLI VINCENTI (Come vincere all'ippodromo o almeno come riprendersi i propri soldi)”, nonché “IN DIFESA DI UN CERTO TIPO DI POESIA, DI UN CERTO TIPO DI ESISTENZA, DI UN CERTO TIPO DI CREATURA FATTA DI CARNE E OSSA E SANGUE CHE UN GIORNO MORIRA'” e “INCONTRO IL MAESTRO” . Nel primo c'è il Bukowski delle corse di cavalli, a suo perfetto agio nell'ambiente dell'ippodromo con tutti i personaggi che lo frequentano (e che lui ignora osservandoli), che tanta sua scrittura ha ispirato.
Qui c'è il tentativo di dare delle regole all'azzardo, ché non sia -puntare su un cavallo-l'ennesimo modo per farsi fottere (dal gioco come dalla morte). "In difesa di un certo tipo di poesia...” è uno scritto che sembra un manifesto del comecazzovannolecoseporcodiooggigiorno, tanto è attuale nella sua causticità.
Il tema è quello più caro a Buk: vivere fuori da qualsiasi omologazione, seguendo il proprio istinto, le proprie passioni, il proprio pensiero. Cito stralci: “Abbiamo avuto alcuni buoni insegnanti nelle Arti. E alcuni scadenti. Ma nella storia delle nazioni tutti i leader dei secoli passati, i nostri leader politici, sono stati cattivi insegnanti e ci hanno condotto all'odierno vicolo quasi cieco. I nostri capi di stato evidentemente sono stati malvagi, ottusi e stupidi... perché per governare il popolo morto i nostri cosiddetti leader hanno dovuto pronunciare parole morte e predicare azioni morte (e la guerra è una di queste) per essere capiti da menti morte. La storia... non ci ha lasciato nulla se non sangue e tortura e rovina -perfino ora dopo quasi duemila anni di cultura semicristiana le strade sono piene di ubriachi e di poveri e di morti di fame e di assassini e di polizia e di invalidi solitari, e quelli che nascono oggi vengono schiaffati in mezzo a tutta questa merda- la Società. Non so se sarà possibile salvare il mondo; bisognerebbe che ci fosse una tremenda inversione di marcia, il che è quasi impossibile. Ma se non possiamo salvare il modo, allora per lo meno diteci in cosa consiste, dove siamo. Ci sono tanti, tanti salvatori del mondo. Quasi quanti se ne possono trovare morti. E, sfortunatamente, quasi tutti i salvatori del mondo sono già morti. Essendosi dimenticati, strada facendo, di salvare se stessi. Il che ci porta dritti a quella parola sporca, POESIA”. Buk considera sporca la poesia scritta dai professori universitari che identifica nei centri di potere delle lettere e, in generale, quella che è un mondo sicuro e un mezzo sicuro, quella che tratta di tutte le cose che non contano, quella che nel loro mondo è come un conto in banca. Quella di quel professore d'inglese che -in una delle sue lezioni- avrebbe detto “qualcosa del tipo: . Questa (prosegue Henry) è stata interpretata come una frase molto profonda e arguta, colma di saggezza, ma naturalmente si trattava semplicemente di una frase rubata, una frase che anni fa si diceva a ogni angolo di strada, e quindi, in questo caso, il tizio è un fottuto plagiario da due soldi. I suoi problemi non sono i miei problemi. Ha scelto di contrastare i problemi e di morire. Io ho scelto i problemi e di vivere la vita”. (…) Henry sputa tutto il veleno servito in calici d'oro da quei cosiddetti poeti (accademici e non) che hanno perso di vista la finalità della scrittura, ossia LA VITA e “derubano spudoratamente dei poveri figli di puttana nel nome altisonante del Progresso e del Profitto... Noi, che scriviamo la poesia della Vita, molti di noi sono piuttosto stufi e tristi e nauseati e quasi sconfitti (ma non del tutto). Eppure sappiamo bene che non abbiamo bisogno che Dio sia divino, che non abbiamo bisogno di versi fioriti per essere Salvati, che non abbiamo bisogno della Guerra per essere Liberi, che non abbiamo bisogno di ammirare i Creeley, che non abbiamo bisogno dei Ginsberg che cadono in farneticanti stranezze, ma forse abbiamo bisogno di piccole lacrime... capite che non sto sostenendo che tutto ciò che scrivo è ... pochi uomini come me hanno fatto una scelta, con o senza talento, siamo stufi del continuo gioco della morte... VIVERE? Già, vivere, la cosa che ci accomuna tutti, voi morti viventi e noi vivi viventi. Il mondo della poesia attira certi coglioni tremendi. La maggior parte dei coglioni tremendi... Siamo le farfalle di una brutta estate. E allora, 'fanculo, questo articolo è tuttora in difesa della poesia e contro certe forme considerate poesia e vita. Molti di noi non ce la fanno, ma grazie alla buona sorte e, oh mio dio, all'amore, molti in un modo o nell'altro ce la fanno...”. Cos'altro aggiungere? Una volta ho scritto (oltre a averlo detto ripetutamente) che posso leggere di tutto e di più, sino alla nausea, sino al vomito, e posso starmene -per refrattarietà- senza ascoltare e sentire e leggere nulla per settimane, ma quando i miei occhi incontrano Charles, ogni volta, la sua scrittura mi riconcilia con la letteratura e col mondo. Poi, qualcuno (non ricordo più chi) mi ha chiesto: perché? La mia risposta è stata: trovalo da te: leggilo! E, se oltre a quanto sopra, servisse ancora spiegare perché, provate a intuire chi -il vecchio Hank- considerava suo Maestro. “Incontro il Maestro” è uno dei più bei racconti di Henry: è noto che Bukowski ha letto moltissimo e che -in particolare- di tutti i poeti e gli scrittori del suo Tempo aveva (tranne rare eccezioni) ben poca considerazione. Per dirla con Hank “Centinaia di scrittori conosciuti e centinaia di sconosciuti... E mi facevano male perché a volte era roba buona, ma a singhiozzo, a scatti qua e là, per poi ricadere nella pesante monotonia letteraria. Questo era molto più che avvilente, perché significava che secoli, SECOLI di letteratura e di scrittori avevano fatto fiasco con me. O almeno avevano fallito nel darmi quello di cui avevo bisogno nelle loro opere. Ma, come stavo dicendo, proprio quel pomeriggio stavo perdendo come al solito la giornata prendendo i libri, aprendoli a casaccio e leggendo un paio di pagine per poi riporli sullo scaffale. A quel punto ne presi un altro a caso... Aprii una pagina aspetandomi il solito, e invece le parole, sì, le parole, mi saltarono addosso, proprio così. Balzarono dalla pagina e mi trapanarono. Le parole erano semplici, concise, e si riferivano a qualcosa che stava succedendo proprio allora! Anche il tipo di carattere sulla pagina sembrava diverso. Le parole si leggevano bene. C'erano spazi vuoti e poi parole. Le parole sembravano una voce nella stanza. Portai il libro a un tavolo e mi sedetti. Ogni pagina aveva forza. Non riuscivo a crederci. Mi pareva come se le parole potessero saltare fuori dal libro e iniziare a camminare in giro, o spiccare il volo. Avevano una forza straordinaria, erano completamente reali. Come mai quest'uomo non era mai stato citato da nessuna parte?”. Quell'uomo era John Fante! Il “pezzo” (tutto da leggere) si chiude così: “Avevo incontrato il mio idolo. Capita a pochissimi”. A me non è capitato, né può capitare più, ormai. Anche perché (nonostante questo pezzo) non ho più idoli!