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mercoledì 28 aprile 2010

Assalto a un tempo devastato e vile. Versione 3.0, di Giuseppe Genna (Minimum Fax ). Intervento di Nunzio Festa

















Non sono sicuramente tra quelli che corrono appena sentono d’una nuova uscita di Wu Ming, ma ho molto apprezzato “Assalto a un tempo devastato e vile”. Dicevamo prima di Wu Ming, in quanto, e solamente per ciò che so, alla fine per un pizzico d’affinità vera e cruda esiste davvero tra Wu Ming e Giuseppe Genna. Ma lasciamo stare. Per ripartire, più utilmente, dalla nuova edizione (o versione, se piace maggiormente all’autore) del corposo – nonostante la mole non eccessiva per un volume di ‘genere’ – impianto – struttura – motivo di fondo del “genere” che abbiamo davanti agli occhi ugualmente rovinati dal tempo che rovina. Lo scrittore milanese avvisa in una nota, tanto per cominciare, e approfittiamo dell’angolo da noi creato per dire che ha scelto decisamente bene scegliendo d’entrare come autore in Minimum Fax, che “la presente costituisce la terza edizione presso un terzo editore, in un arco di otto anni (ma a un decennio dal momento in cui fu sottoposto al giudizio di varie case editrici), di ‘Assalto a un tempo devastato e vile’: al tempo stesso, il mio libro d’esordio e il mio libro finale. Il primo nucleo, pubblicato presso peQuod nel 2001, è stato terminato nel 1999, e si conclude con l’explicit dopo il testo ‘Ciò che resta’. La seconda edizione, presso Mondadori nel 2002, ha portato all’aggiunta del testo ‘Questo è il martirio del Santo Me’. Ora, a distanza di dieci anni dalla prima stesura, in forza delle mutazioni personali e di scrittura, è stata aggiunta una ulteriore costellazione di testi, la quale non comparirebbe tale senza il decisivo consiglio di Christian Raimo (editor aggiornatissimo sempre e sempre attentissimo, ndr), a cui sono inimmaginabilmente grato. Ritengo importante precisare che il libro, nella forma attuale, si autocostituisce come non definitivo”. Da una premessa e da tratti di spiegazione del tipo ascoltato, non ci si sarebbe potuto che aspettare almeno buona parte della successiva lettura. Innanzitutto, occorre specificare, il libro distorce i canoni del romanzo solamente perché si serve per diverse pozioni di testo di forme diverse: dal racconto al reportage finanche al saggio. Non a caso, già anni or sono il libro fu definito “l’opera cult di Giuseppe Genna” e che “fece gridare alla nascita di una voce potente e originale delle letteratura italiana”. Attualmente, precisiamo noi, e per me fortunatamente, in un certo senso, invece il lavoro non incontra (almeno per adesso) le sirene della critica. Buon segnale, forse. Incoraggiante: potrebbe essere. In contemporanea, addirittura alcune e alcuni provano a dare stroncature di diversa costituzione. Ad avviso di chi scrive, tanto per cominciare, la pesantezza d’alcuni momenti – però molto significativi – è il giusto e sacrosanto pegno, da lettore, che si deve pagare se veramente si vuole leggere d’infiltrazioni nella società che a loro volta sono capaci d’infiltrarsi nella nostra fasulla tranquillità. Non è, cosa che ci pare ovvia, per rispondere d’altronde al lancio di copertina se ci permettiamo di ribadire come, vedi per Milano, Genna riesca a spulciare pagine amare della metropoli consumata dalla morte lenta per veleni. A emblema, ma sempre aiutati da altri segni, di tanti altri e a volte simili spazi urbani e inumani. L’opera presenta tanti punti sui quali per correttezza ci si dovrebbe soffermare. Prima per riflettere. E poi per invitare a riflettere su noi italioti che siamo in transito a favore di Libero e del Giornale, di Repubblica e della Lega e di Caltagirone e di Fini e di Casini. Nella constatazione, a forza di presenza concreta, dei beni e dei desideri dei potenti. Però ricordiamo, almeno, gli originali titoli dei paragrafi: Assalto a un tempo devastato e vile, Radiazioni dall’epoca del trauma, Zona padre, Noi supereremo le soglie di qualunque universo sia senziente. Per analizzare, per dovere di data, magari, un brano: “Gadal scarica e carica con Francesco. Francesco ha tre figli, una moglie, il mutuo da un milione al mese per la casa, le rate di trecentomila lire per la macchina. La macchina gli serve: ci dorme dentro. Smonta alle tre di mattina, dorme quattro ore in macchina, poi va in un’officina. Alle otto è di nuovo nel padiglione. Il venerdì notte prende la macchina e va a Gallarate, dove sta la famiglia. Lunedì ricomincia”. Anzi, un altro: “Ricordo il primo premier ex comunista della storia d’Italia, che fece il ’68 essendo allievo alla Normale di Pisa nella foto bianconera con il dolcevita sotto la giacca e chi sa quale gelido sogno, e dice il sì alla guerra di là dell’Adriatico e giustifica il sì con sillogismi che innalzano onde anomale di vergogna umana e di sangue altrettanto umano”. Un libro pazzesco di tempi pazzeschi. Per certi argomenti persino anticipatore d’analisi, o portatore di ‘profezie’ si diceva una volta. Lo stile di Genna viaggia tra la descrizione assoluta e perfettamente fedele incastonata in situazioni paratattiche o strappi, di contro e addirittura, che spingono sulla scia del teatro evocativo. Un linguaggio, quindi, parola su parola destinato all’evocazione. Con mezzo di stilettate tondeggianti. Dove, infine, l’impegno di scrittura è tutto frutto della causa civile dell’opera. Titolo più giusto, dunque, non si sarebbe potuto trovare. Il retroterra di Giuseppe Genna si sposa con un mutamento dei tempi che sconquassano la gestione delle vite di tutte e tutti.

Il libro del giorno: Io innalzo fiammiferi di Irene Leo (LietoColle)




















Io innalzo fiammiferi non è una raccolta di testi, ma un libro che obbedisce a una struttura ve­getale, a delle nervature come quelle delle foglie. Intorno a cose inanimate come ossa, vetro, cucchiaino, ruotano aria, luci marine. Si sente che chi scrive ha fatto i conti con lo spazio, con la memoria. Irene Ester Leo usa metafore audaci ma non arbitrarie. Se il suo linguaggio sfiora i mistici è perché quel lessico è il mezzo che ha a disposizione per dire l'assenza. In realtà i suoi versi più belli splendono di un calore orizzontale, frontale, consapevoli del fatto che "è tutto una questione di luce". Se c'è rivelazione è del corpo e del paesaggio. Se c'è un presagio non è oscuro. Ci sono "lacci" è vero ma sono "vivi": come quelli dell'uva.

dalla prefazione di Antonella Anedda


L'ho vista piangere in un'alba rossa di fuoco, mentre declinava il capo avvilita. Pochi prescelti ascoltano la sua verità e la portano in braccio, altri ne fanno triste bandiera. Ora che anche io sono un po' morta con lei, chiedo di rinascere bruco, per andare a cercarla nei luoghi più bassi, nel carbone più nero dei semplici, tra le carte gialle di una dimenticanza, o negli scaffali di una mensola buia, nella coerenza di chi non ha mezzi termini, e nelle parole più spigolose e graffiate. Nel dettaglio del sale unto di olio e di vita, tra le calze distrutte di un uomo, che ha messo le sue scarpe al sole nei pressi della strada più ricca. Nella pioggia, sì nella pioggia acida della vendetta di madre, nel buio che avvolge tra le lenzuola il sonno la notte, respirandosi addosso. Sarò così in basso, che sotto di me sentirò solo l'inferno incalzare, sarò così strisciante che le mie costole saranno orizzonti a metà. Sì. La cercherò in tutti gli angoli disprezzati, nelle mie mancanze, nelle assenze. Lascerò ad altri il gusto del volo e la sua leggiadra bellezza vacante. La seguirò ovunque mi chiamerà... seguirò solo la Sua voce. E ne farò Luce. Ma non fermatemi. Sto cercandomi. Sto cercandola. Non fermatela. È 'solo' Poesia, ma ben presto tornerà ancora, e si farà carne. La vedo, la vedo quasi che (come scrisse S. Toma) si torce al riflesso di un miraggio / insegna la favola più antica.

Irene Ester Leo


Dogma
Quanto più leggermi è diventare straniera alle perline di pietra,
collana pesante da legare all'andatura,
quanto più rivolto la pelle, che è sotto il sangue coi suoi lacci vivi,
fino a sentire tirare le gambe e le nocche, arricciarsi le pupille,
sfilacciarsi i polmoni,
secernere anima collosa,
quanto più mi decompongo queste ossa in azzardi
e li ricerco in tessere affinate alla Rubik,
quando mi apro la gola per vomitare fuori
un fiamma erosiva,
quando mi avvicina alla morte
ed infierisce con un cucchiaino freddo
infilato tra le costole pregustandosi me,
solo allora io segno
la sua verità.


Presagio

La polvere è l'ansia della spina
che cade piano dentro le cose morte,
prima dell'affondamento nella voce.
Ho ingoiato tutta la tua polvere
lungo il passo incerto spogliato,
ma negli occhi solo ora nacquero
appena tu le scartasti con parole a punta,
rose dal bouquet lungo,
omologate ai sensi altrui.

Assenzio

Se l'acqua lava ciò che penso,
forse un iris nasce tra quel fango, dopo.
Chiara la notte senza sangue e corpo, a volte
è la mia mano,
pesante lama che ti offende mio amato sempre.
Ma non c'è occhio cieco tra le ciglia del grano morto,
l'onda ferrosa della vita attanaglia la lingua
ed io lo so che tutto è.
Da quassù le orme dell'invisibile
sono mie.
Stelle laconiche di tempo
abbottonate tutte sulle maniche.
Spilli che reggono il gioco della prossima estate.


IRENE LEO - Classe 1980. Ha esordito "ufficialmente" nel 2006 con "Canto Blues alla deriva", Besa editrice. È presente su "Tabula rasa 05", rivista di letteratura invisibile nella sezione Poesia e su alcune antologie, tra cui "Verba Agrestia" 2008 e 2009 e "Il segreto delle fragole" 2009 , entrambe LietoColle edizioni.
Nel 2007 ha ricevuto dal Teatro di Musica e Poesia "L'Arciliuto"di Roma il riconoscimento in "Kagolokatia".
Sue liriche sono state recentemente inserite nella rivista letteraria "Incroci" diretta da Lino Angiuli e Raffaele Nigro, giugno 2009, Mario Adda Editore.
Collabora con il quotidiano" Il Paese Nuovo" per la pagina culturale.
Ha pubblicato "Sudapest" (Besa editrice, 2009).

Cacciatrice di rumori tratto da Forse tu sì. Storie minimali di Francesca Bertoldi (Lab - Giulio Perrone editore)





















È il primo settembre che passo qui, camminando con due buste della spesa tra le vie di questo quartiere popolare ricco di profumi, ricco di volti spessi carichi di storia. È quasi sera, e dopo il caldo sfibrante di questa strana estate sento il “venticello di Roma” che mi scosta una ciocca di capelli e dispettosamente mi copre gli occhi… provo a soffiare come facevo da bambina, spingendo l’aria su e sporgo il labbro inferiore, so di essere buffa e poi non mi riesce; devo fermarmi, posare un istante le buste a terra… scostare il ciuffo con la mano e in quell’istante l’odore della strada mi investe, intriso di antiche tradizioni. C’è un profumo di pane appena sfornato che si mescola a quello di un ragù che si consuma su un fornello che io immagino esiguo, modesto. Uno sciame di ragazzi mi travolge quasi, le loro risa si ammucchiano, si amalgamano impastandosi in un unico vocio danzante. È la sera che si avvicina accostandosi al giorno che muore e le cede il passo, e il quartiere si anima di giovani vite mentre le vecchie alle finestre sostano a lungo spiando la vita nuova e brontolano per il gran baccano che, ormai lo sanno, durerà fino a notte. È il primo settembre qui e settembre quest’anno mi mette la smania addosso, un’impazienza che non ha ragione, della cui origine vengo a conoscenza poco a poco e che colora tutt’intorno come con mano abile, affrescando la vita. Non era così là, nel grande appartamento immerso nel verde con l’eterno sottofondo delle cicale che fino a settembre, sbattendo le piccole ali, continuavano a “cantare” dall’alba al tramonto confortate dal caldo, fino a quando non arrivava la sera ed “attaccavano i grilli”. Non la sento più quella “musica”. Ma lo immagino a volte quel suono, e ragiono su quella casa buia, vuota, abitata da ombre e da ricordi, con i muri intrisi di parole di anni in una metafisica collisione di senso, e penso al sole che al suo rientro le renderà ancora giustizia e con la luce torneranno a stornellare le cicale anestetizzate dalla notte. Invece qua niente frinire; ma io amo i rumori della città, quelli assonnati che accompagnano l’inizio delle attività, borbottii, mormorii, sospiri e sbuffi, quelli vivaci con l’andar del giorno e quelli che accompagnano l’ingresso della sera che si accende di lampioni e quelli della notte, pungenti, acuti come lamenti. Li amo. Di più, sono ormai cacciatrice di rumori, impegnata al massimo nella cattura di ogni “esemplare”, di ogni frequenza, tendo l’orecchio agli scambi sonori, immagino il paesaggio urbano anche dietro le mie finestre chiuse e identifico i fatti che li hanno procurati. Rumori che per me sono come suoni, un’esaltante concerto di fragori. È la musica dei frastuoni questa che oggi fa da sottofondo alla mia vita, mi accordo con essi scoprendone le consonanze, l’accostamento, li combino insieme in una perfetta armonia con estrema naturalezza, modulando poi a modo mio le tonalità, ed essi rifrangono in un avvicendarsi fluido ed emergono dal silenzio più o meno chiari secondo la distanza: brusii di passi veloci, 18.19 affrettati, o schiamazzi festosi di giovani immersi nell’affollamento notturno.

Una nuova musica continuamente variabile; il suono puro, sottratto per il mio piacere e restituito al suo contesto. Il vociare si ammassa quando spengo la luce e mi sdraio. L’atmosfera è sospesa per un attimo. Poi il sonno, piano, dirada i rumori e li ingoia. E solo allora mi assale il ricordo del silenzio, e lo affido al racconto.

martedì 27 aprile 2010

Il libro del giorno: Tre donne forti di Marie NDiaye (Giunti)




















Tre destini femminili giocati fra l'Africa e l'Europa, con un esile legame tra di loro: al centro di ogni storia, la forza d'animo di una donna che riesce a sconfiggere la paura e il dubbio, l'ignoranza altrui e la propria delusione. Nella prima Norah, avvocato quarantenne che vive a Parigi, giunge a casa di suo padre a Dakar; l'uomo, un tempo tirannico ed egocentrico, si è imbozzolato in una follia silenziosa e trascorre le notti appollaiato su un albero in cortile. Tentando di penetrare nel mistero, Norah sarà assalita dai delitti e dai dolori della sua famiglia d'origine. Fanta, insegnante di francese a Dakar, deve seguire in Francia il marito Rudy. Succube di sua madre, frustrato e pieno di rabbia, l'uomo non riesce a offrire a Fanta e al figlioletto una vita soddisfacente, ma lei non si da per vinta. Khadi Demba, una giovane vedova scacciata dalla famiglia del marito, è protagonista della terza vicenda: poverissima e senza alcun sostegno, cerca di raggiungere in Francia la lontana parente Fanta; nella sua eroica esperienza di migrante, la donna sopporta ogni sorta di angheria senza perdere la propria dignità. Titolo originale: "Trois femmes puissantes" (2009). Il volume è vincitore del Premio Goncourt 200

Le conseguenze del caso di Alessandra Fiori (Piemme)



















La struttura della famiglia degli ultimi trenta anni si è andata modificando quasi completamente rispetto al modello tradizionale della famiglia italiana. Essa ha subito notevoli cambiamenti, negli ultimi 150 anni, una trasformazione radicale e profonda, innanzitutto sotto il profilo democratico. Ma quello che sta accadendo ha qualcosa di cancerogeno nel senso letterale del termine. E’ nata una nuova tipologia tumorale non fisica, che sta divorando tutto ciò che è stato sano almeno sino a un ventenio/trentennio fa: il termine precarietà sembra oggi da doversi associare a qualsiasi aspetto della vita dell’uomo e della donna, vuoi dal punto di vista della professionalità, dei sentimenti, della percezione dei ruoli, del senso del rispetto verso istituzioni laiche e religiose, dell’amore e del rispetto della vita e per la vita. E la famiglia non è esente da questa malevola e totale erosione. L'odierna realtà socioculturale presenta non poche situazioni matrimoniali difficili o irregolari. Ci si trova dunque dinanzi ad una famiglia che ha assunto su di sé il peso di convivere quotidianamente con una quantità di difficoltà tali da non riuscire più a gestirle senza incappare nel rischio della disgregazione della stessa. E all’interno di questa disgregazione, si accumulano,proprio come la polvere sotto il tappeto, segreti, e non detti che si trasformano in zone d’ombra inscalfibili da qualsiasi forza ed energia positiva. Una premessa necessaria per entrare a fondo nel bel libro di Alessandra Fiori, "Le conseguenze del caso" edito da Piemme, un libro che si fa amare per le realistiche pennellate d’ambiente e per la sua struttura ben congegnata. Ecco la storia: Chiara non desidera che starsene tranquilla nella sua casa a Fregene, giusto per rilassarsi un po’ e passare un’estate serena. Non le basta altro che avere attorno a sé i suoi cari. Fuori il caldo in agosto è terribile, e la fila di macchine sull'Aurelia fa presagire tensione e stress. Il peggio però deve ancora venire: la “fauna” estiva di Fregene, è più che retriva e ipocrita, pronta a scavare furtivamente nella vita degli altri. E nella vita di Chiara, l’ingresso della “radical-chic” Valeria, non è proprio la ciliegina sulla torta. Scoprirà per esempio, che suo marito Marcello, stregato dallo charme proibito di Valeria, non è poi un uomo così integro come faceva vedere. E lentamente, Chiara, attraverso tutte le bugie e menzogne che scoprirà presenti e ingombranti nelle sua vita, si vedrà cambiata, forse diversa.

lunedì 26 aprile 2010

Il libro del giorno: La casa senza sole di Michele Saponaro collana Novecentodaleggere curata Antonio Lucio Giannone (Lupo editore)












Per la sua rigorosa precisione espressiva e per il mirabile controllo dei mezzi capaci di suscitare la commozione, il romanzo, in numerosi passaggi, è straziante e vale, più di molti proclami e di molte facili denunce, a far comprendere in pieno la tragedia della guerra, di tutte le guerre, dell’idea della guerra in sé, anche se questo principio non può equivalere al pacifismo incondizionato né al rifiuto di prendere le armi per la patria e per la difesa della libertà e della giustizia. La vicenda, che mette il lettore in medias res fin dalla prima pagina, narrata nella forma di un diario, che va dal 2 aprile del 1915 al 1° aprile del 1916, passa attraverso gli snodi centrali dell’attesa delle lettere dal fronte e poi della loro interruzione. In un crescendo di pensieri angosciosi giungono poi, a una distanza tra di loro che mette la madre in un continuo stato di agitazione tra la speranza e il timore, i telegrammi che danno il giovane soldato prima disperso e poi caduto in combattimento.

«I giornali son pieni di esasperate descrizioni dei campi di battaglia. Perché scrivono così? Pare che trascorrano uragani di parole frenetiche sui fogli di carta. Perché parlano così della guerra?
Dicono di carne umana a brandelli, di volti umani mozzi e schiacciati, di velivoli che disseminan l’orrore sul campo avversario. Terribile semenza. Perché l’orrore? È una cosa orrenda dunque la guerra? Non basta il terrore? Non basta il dolore?»
La casa senza sole, Michele Saponaro

Storia di “Adoperabili”: il back stage visto da Giulio G. Pedaci













Il 18 settembre 2009 a Bologna, presso la galleria Oltredimore, si è tenuta la mostra del fotografo Gabriele Corni intitolata “Adoperabili” per la quale ho ricevuto l'incarico di fare la post-produzione.

Alle date bolognesi ne seguiranno altre che porteranno le opere in giro per l’Europa, fino ad approdare a New York. L’incontro con il fotografo Gabriele Corni avvenne presso il mio studio di Ritoccando il 10 Aprile 2009. C’è una bella idea di partenza che deve maturare e c’è una scadenza che deve essere rispettata: il 18 Settembre dello stesso anno. Un tempo molto breve per una mole di lavoro così ampia (16 immagini di donne quasi tutte a grandezza naturale). E’ per questo che il fotografo non si accontenta di un supporto puramente tecnico di post-produzione, ma si affida ad uno studio in grado di unire all’eccellenza tecnica, la conoscenza e sensibilita’ artistica necessaria per questa sfida. Rese le immagini, dal punto di vista compositivo, come appaiono finite, ho proceduto alla seconda fase lavorativa altrettanto complessa. In tale fase si sono presentate infatti alcune criticità: la luce della modella presentava una eccessiva esposizione in relazione al risultato che si voleva ottenere (rendendo difficile il recupero di alcuni dettagli), mentre le teste delle bambole, coi forti neri dei capelli, presentavano nei volti scarsa illuminazione e le mollette mostravano scarso volume. Una volta resa omogenea in ogni sua parte ogni immagine, sfondo compreso, ho proceduto all’ultimo passaggio: l’allineamento delle cromie di tutte le bambole affinché fossero figlie di un’unica madre.

http://www.ritoccando.com/Welcome_Page.html

I corpi neri di Shannon Burke (Isbn edizioni)



















Siamo nella Grande Mela, New York, agli inizi dei mitici e controversi anni Novanta. Ad Harlem si trova di tutto, tranne legalità e ordine. Ollie Cross non ce la fa a passare l'esame di ammissione per entrare a Medicina. Ha poco più di vent’anni. Si rimbocca le maniche e sceglie la via più difficile ovvero fare il paramedico sulle ambulanze. Le immagini di violenza e dolore sembrano susseguirsi senza esclusione di colpi nel lavoro di Ollie, in una città che mostra i suoi orrori senza ipocrisia e senza mezze parole. Ollie sembra essere, in questo libro di Shannon Burke dal titolo “I corpi neri” edito da Isbn edizioni, un medico di Emergency, che mentre fuori scoppiano bombe o i proiettili in caduta libera forano le tende degli accampamenti o sbriciolano i vetri delle finestre, salva tante vite umane. Già perché Ollie inizia, con il “partner” Rutkovski ex combattente in Vietnam, una catabasi in una zona morta della vita dove nessun uomo vorrebbe metterci piede, una zona morta dove l'altruismo, la speranza, lo spirito di solidarietà si trasformano in insensibilità e cinismo. Fino al Point Break finale. Ora devo dire che è un libro per chi ha molto “pelo” sullo stomaco, un romanzo che definire disturbante è poco, che indaga il volto più delirante di un’esistenza in grado di mandare in decomposizione anche i valori più alti. Un’opera che parla di New York, come di una città che non riesce a generare redenzione, armonia, integrità, quasi che nel suo dna abbia qualcosa di osceno e oscuro che può alimentare solo nano-universi fatti da tossicomani, malati di Aids, poliziotti deviati e devianti. Personaggi con cui il lettore non vorrebbe nulla da spartire, ma che, grazie alle gigantesche doti letterarie di Burke, si fanno apprezzare in quanto anelanti anch’essi a un pizzico di luce

domenica 25 aprile 2010

Il libro del giorno: Il giorno delle donne di Gyula Krúdy (Cavallo di Ferro)

In una giornata che dovrebbe essere come tante altre, l'impresario di pompe funebri Jànos Czifra si ritrova prima al banchetto di un matrimonio e poi in un bordello, dove assiste a una serie di scene bizzarre. La realtà, però, è che non è affatto una giornata come le altre. Infatti, poco prima di uscire, nella casa del mite impresario funebre è entrato un alito demoniaco che sarà destinato a rincontrare nel suo percorso. Gli si presenterà con il nome di Sogno, o meglio, tutti i suoi sogni sognati nel corso della vita. Accompagnato dunque da questo suo oscuro e seducente alter ego, Jànos assisterà a quanto di più esaltante e sordido può offrire il mondo. Attraverso lo sguardo di una giovane donna, che va in travaglio sola e abbandonata nella cuccia di un cane, il grigio impresario di pompe funebri, aiutato dal suo demone personale, potrà leggere il tragico racconto di quella povera vita, ma anche le storie di molti amori e altrettante terribili morti sullo sfondo di una Budapest dei primi del Novecento.

Prenditi cura di me di Francesco Recami (Sellerio editore)



















Siamo in una Firenze periferica. Quando si parla di margine e di vita suburbana, non riesci a fare la differenza, tra le “banlieues” di Napoli, Bari, Torino, o di altre città del nostro paese. Parliamo di degrado e fallimenti, i condimenti speciali che fanno della vita del quarantenne Stefano, un concentrato di sconforto. La sua vita fa acqua da tutte le parti. Ciliegina sulla torta, oltre la solita solfa che la moglie lo ha lasciato, non ha figli, etc, etc, è il fatto che si ritrova a collezionare una serie di attività che mette in piedi con amici, tutte miseramente fallite, e alla fine si ritrova a esercitare la professione del trasportatore con partita Iva per una cooperativa. E non è tutto: sta per affogare letteralmente nei debiti, riesce a vivere di futili fantasie che hanno il tempo di un flash, e si trascina come se stesse sempre sognando a occhi aperti. Per parecchi anni, immagina di impadronirsi del gruzzolo depositato sul conto bancario della madre, e pur di raggiungerlo si inventa di sana pianta una gravidanza della moglie. La madre però non cede, grazie anche a quel poco di lucidità e grettezza che le deriva da una mentalità contadina che le fa scattare subito un “campanello d’allarme”. Una battaglia tra i due senza esclusione di colpi, che sembra avere una soluzione quando la madre ha un ictus, e Stefano deve prendersi cura, dolente o nolente, di lei. Ed ecco che comincia un secondo calvario tra le follie burocratichesi delle strutture sanitarie, l’ipocrita solidarietà a volte molto ambigua e obliqua, le lunghe fila del traffico cittadino, un vero e proprio incubo per Stefano che nel suo furgone quasi ci vive.

Questo è l’ultimo lavoro per i tipi di Sellerio di Francesco Recami dal titolo “Prenditi cura di me”. Un libro che parla della generazione degli attuali quarantenni/cinquantenni egoisti e smarriti allo stesso tempo, una generazione che è frutto del precoce invecchiamento sociale, dell’iper/lavoro che non riesce ad assicurare nessuno spazio per la cura dell’altro a qualsiasi latitudine lo si voglia leggere, una generazione di cosiddetti “bamboccioni”. Questo di Recami è un libro duro, perché affronta il delicato argomento della cura degli anziani, ma soprattutto è un libro che spiega fondamentalmente come il volersi bene è frutto di una costruzione lenta e paziente che deve sempre essere alimentata dall’amore giorno dopo giorno.

sabato 24 aprile 2010

L'antologia Booksbrothers "Frammenti di cose volgari" il 29 aprile a Pantigliate (Milano)
















Giovedi 29 aprile alle 21 a Pantigliate presso la Biblioteca Civica in via Risorgimento 34 a Pantigliate (Mi) si presenta un libro importante e interessante. Nasce dall'esperienza di Booksbrothers, associazione culturale che ha messo su carta il lavoro di due anni di pubblicazione in rete. Booksbrothers ha sondato la realtà con l'ascolto delle voci e la selezione di qualità oltre che con notevoli interventi critici. Assieme a Cosimo Argentina e Francesco Savio, autori affermati che hanno dato contributi a quest'antologia chi lo vorrà potrà avere un'occasione importante per entrare nell'affascinante mondo della genesi della scrittura e potrà capire l'importanza anche fisica dei libri nella vita di tutti. La letteratura poi si farà voce con la recitazione intensa di Mauro Savino e Dona Amati che racconteranno una delle tante e diversificate storie, per stili e tematiche, presenti nell'antologia che ha visto il contributo di 36 autori.

Il libro del giorno: L' arpa muta ovvero, Mr. Earbrass scrive un romanzo. Di Edward Gorey (Adelphi)



















Edward Gorey era noto per scrivere e disegnare storie che non si sapeva mai come definire, e che di volta in volta potevano sembrare storyboard di minuscoli film muti, coreografie per balletti non danzabili, partiture per un teatrino di automi.
Fa eccezione proprio "L'arpa muta", in cui attraverso la vicenda di Mr Earbrass, uno scrittore alle prese col suo nuovo romanzo, Gorey gira un documentario surreale - e perciò crudelmente realistico - sugli imbarazzanti vizi, e le risibili virtù, del mondo letterario. E naturalmente su Edward Gorey alle prese col suo primo libro: questo.

Hanno preferito le tenebre di Antonio Monda (Mondadori)




















E’ difficile ammetterlo, ma in noi c’è un continuo variare di luce e tenebre. Non dobbiamo meravigliarci che sia così. Ed è sempre più necessario vigilare, soprattutto quando in giro c’è molta confusione, sulle proprie azioni e desideri, quasi a voler distinguere l'azione di Dio, o di qualunque Principio positivo che riteniamo regoli le nostre vite, da quella dello spirito del Male, o di qualunque Principio negativo ponga ostacoli e vessazioni nelle nostre esistenze. Ed è altrettanto difficile dirsi un’altra cosa: tendenzialmente preferiamo il Male, quel nutrimento indispensabile che alimenta figure sinistre macchiate di sangue di stragi familiari, che sono ai vertici del terrore internazionale, che trangugiano sesso estremo, che muovono le morbosità dei pedofili, che permettono ad una madre di abbandonare il proprio neonato. Il Male che sgorga dalle profondità d'ombra dell’animo, che diviene manifestazione di follia, sconvolgimento e devastazione. Ma

perché preferiamo il Male? E’ una peculiarità che appartiene all’uomo sin dalla nascita dei primi contratti sociali e forse ancora prima. "La luce è venuta al mondo ma gli uomini hanno preferito le tenebre alla luce, perché le loro opere erano malvagie" è scritto nel passo del Vangelo di Giovanni. E questa frase segna il percorso nelle tenebre di questi dodici racconti di Antonio Monda che indaga le province dell’inferno in questo mondo. Il titolo è già tutto un programma: “Hanno preferito le tenebre!”. Ma quello che devo assolutamente dirvi è che ci troviamo dinanzi ad un libro che non è solo il racconto dei crimini che hanno destabilizzato l’immaginario sociale dell’America; non è solo un libro realizzato con i criteri e le metodologie del giornalismo d’inchiesta; non è solo un libro sugli omicidi seriali. Certo si va dall'omicidio di Elizabeth Short, la nota Dalia Nera , alle rinomate vicende della “Family”a Bel Air perpetrate dalla banda di Charles "Satana" Manson, dal mistero Von Bulow ai grandi casi di cronaca.

Monda con una grande dote letteraria, e alta qualità scritturale, rende palpabili le atmosfere inquietanti, le storie nere che portano alla luce qualcosa che vogliamo assolutamente relegare nel profondo dei nostri incubi peggiori. In questo libro il lettore troverà intrighi e segreti che non hanno mai avuto soluzione, e tanto di quel sangue in queste pagine, che farebbero impallidire anche le fiction come Criminal Mind.

venerdì 23 aprile 2010

Il libro del giorno: Realtà divina e fantasia. La vita, l'amore, la morte, la realtà intermedia. L'infinito di Rassam Al-Urdun (youcanprint)

In questo testo, al lettore viene illustrato il percorso dell'anima sulla via dell'ascesi, perseguendo come fine supremo, il ricongiungimento con l'Immenso. Tali concetti vengono espressi attraverso le principali basi della filosofia islamica. Assassins: La setta degli Assassini. La storia della setta degli assassini raccontata da un esoterista islamico.
In poche pagine, una lettura storica che fa luce con chiarezza su questa mitica realtà, dalla sua nascita al suo declino e alla sua trasformazione. Giovanna la Pulzella e il Piccolo Popolo. Una versione inedita e storicamente documentata, la vera storia e il sacrificio della Pulzella d'Orleans. Il testo tratta di eventi quasi completamente misconosciuti della vita di Giovanna d'Arco, che la pongono in stretta relazione con l'antica tradizione del piccolo popolo.

L'umiliazione di Philip Roth (Einaudi)



















E’ la fine per Simon Axler. Superati i sessant'anni ha perso il suo tocco magico in ogni cosa. Sul palcoscenico si sente mediocre, patetico, in una parola un idiota. Ha perso fiducia nelle sue doti, è in una totale paranoia perché pensa sempre che la gente rida di lui alle spalle. La moglie se n'è andata, il pubblico anche lo ha abbandonato, il suo agente cerca di convincerlo a ritornare sulle scene. In questo quadretto tutt’altro che idilliaco affiora dalle tenebre più fitte uno strano desiderio erotico, che lo porterà verso una destinalità finale cupa e rovinosa. Roth è un maestro nel cercare di farci capire come ogni giorno creiamo finzioni su finzioni per tollerare le tante brutture che ci assalgono nella vita di ogni giorno, e tutti quegli pseudo-strumenti e meccanismi di auto-aiuto che costruiamo per sopravvivere e difendere con le unghie e con i denti quel poco di solidità, speranza, reputazione che ci rimangono.

Ciò che affascina e cattura di questo libro, è che il gigantesco Roth vuole far capire come la gente sia sempre più terrorizzata dall’idea di perdere quel poco che ha ottenuto e che sta tutto nel palmo di una mano. E questo aggiungo io vale sia per la gente comune, che per gli artisti come ci suggerisce nel caso specifico l’autore. Il punto di non ritorno a cui è giunto Simon Axler, e che occupa tutta la parte del libro, altro non è che il tragico canto di chi ha ormai perso in maniera totale il controllo della sua vita.

E nulla può più nemmeno la seducente Pegeen Stapleford, quarantenne, lesbica, figlia di una coppia di attori con cui aveva collaborato in gioventù, che tenta di riportare (forse in fondo in fondo un po’ Roth ci crede in questo tenue barbaglio) l'allegria nella sua vita. Per leggere questo libro vi occorrerà tutto fuorché la fretta rognosa che vi fa inseguire scadenze e affini. Scordatevi la psicanalis e derivati da salotto; questo è un libro che si lascia amare solo perché è stato scritto da Philip Roth e basta. Un lavoro che definire splendido è poco.

giovedì 22 aprile 2010

Il libro del giorno: Nel mare ci sono i coccodrilli. Storia vera di Enaiatollah Akbari di Fabio Geda (Baldini e Castoldi Dalai)

Se nasci in Afghanistan, nel posto sbagliato e nel momento sbagliato, può capitare che, anche se sei un bambino alto come una capra, e uno dei migliori a giocare a Buzul-bazi, qualcuno reclami la tua vita. Tuo padre è morto lavorando per un ricco signore, il carico del camion che guidava è andato perduto e tu dovresti esserne il risarcimento. Ecco perché quando bussano alla porta corri a nasconderti. Ma ora stai diventando troppo grande per la buca che tua madre ha scavato vicino alle patate. Così, un giorno, lei ti dice che dovete fare un viaggio.
Ti accompagna in Pakistan, ti accarezza i capelli, ti fa promettere che diventerai un uomo per bene e ti lascia solo. Da questo tragico atto di amore hanno inizio la prematura vita adulta di Enaiatollah Akbari e l'incredibile viaggio che lo porterà in Italia passando per l'Iran, la Turchia e la Grecia. Un'odissea che lo ha messo in contatto con la miseria e la nobiltà degli uomini, e che, nonostante tutto, non è riuscita a fargli perdere l'ironia né a cancellargli dal volto il suo formidabile sorriso. Enaiatollah ha infine trovato un posto dove fermarsi e avere la sua età. Questa è la sua storia

"Ti spiego" di Romana Petri (Cavallo di Ferro)



















20. 25. 35. 45. Non sto dando i numeri, né sono incline alla numerologia di stampo cabalistico, ma faccio riferimento agli anni in cui si tende a costruire un proprio iter familiare, si mette la testa a posto, ci si sposa, si hanno figli, si divorzia. Una vita insomma a due che improvvisamente può prendere “direzioni diverse”, parafrasando un celebre e arcigno brano de “il Teatro degli Orrori”. Poi accade all’improvviso, che non si riesce a ricucire i propri destini, e non c’è toppa che tenga ad arginare i malanni del cuore. Questo e molto di più racconta la bravissima Romana Petri (classe 1955, vincitrice di diversi premi tra cui il Mondello, il Grinzane Cavour con i suoi precedenti lavori), che pubblica con Cavallo di Ferro, lo splendido libro dal titolo “ Ti spiego”. Cristiana e Mario sono separati da quindici anni. Lei è rimasta a Roma, con i figli già grandi e un secondo felice matrimonio. Lui a Rio de Jainero, con una giovane donna al suo fianco e un figlio di poco più di un anno. Poi un giorno un fulmine a ciel sereno, una lettera dagli strani contenuti di Mario dal Brasile, piena zeppa di tanti se e tanti ma, di rimpianti, rancori, tradimenti, infedeltà, menzogne, violenze di quel che poteva essere senza la pesantezza di tutto un tempo trascorso a non ascoltare, a non farsi sentire, a non incontrarsi mai in nessun luogo. Ed ecco che Cristiana risponde, e lo fa con un lungo discorso che coinvolgerà tutti, lettore compreso, a scendere nelle profondità di un amore naufragato, con tutte quelle zone grigie riempite da false utopie, rivoluzioni fallite, il terrorismo, la fede politica, i molti ideali sfumati nella bassa concretezza. Un lungo discorso che non sa minimamente di rancore, anzi il parlare di Cristiana è un tenere memoria per non perdere la coscienza di ciò che è stato, un voler rimanere fuori dagli angusti spazi dell’oblìo, un desiderare fortemente una lucidità in questo suo dire, per evitare di soccombere a Marco: il desiderio di lui è fondamentalmente quello di annientarla definitivamente. E Cristiana sa, lo sa sin nelle più profonde radici del suo essere, due cose: che la vita è la cosa di più sacro che c’è al mondo, e a nessuno deve essere permesso di calpestarla; secondo aspetto non meno importante che “felicità” è una parola, molto, molto grossa, che va coltivata e attesa, ma che poi arriva alla fine.

mercoledì 21 aprile 2010

Il libro del giorno: Mutandine di chiffon, memorie retribuite. Di Carlo Fruttero (Mondadori)

"Perché 'retribuite', queste memorie? Perché, salvo due o tre eccezioni, sono state scritte su richiesta di vari giornali, settimanali, riviste, libri bisognosi di prefazione, e naturalmente pagate. Non si tratta quindi di un'autobiografia o di una confessione alla maniera di Alfieri o Rousseau. Mi chiedevano qualcosa sulla mia prima sigaretta, sul turpiloquio dei bambini, sui castelli piemontesi, perché mai avessi lasciato l'alta cultura per andarmi a occupare di fantascienza e fumetti, quali fossero stati i miei rapporti con Italo Calvino, Franco Lucentini, Pietro Citati, e così via.
Tutto molto occasionale, casuale e, come accade nella vita di tutti, con milioni di cose non dette, lasciate fuori. Ma non ho certo dimenticato le tante amiche e i tanti amici che mi hanno aiutato e confortato nel corso degli anni e che considero la mia più grande fortuna. Quanto alle mutandine, figurano solo nel titolo, cui non ho saputo rinunciare. Nel libro non ce ne sono, non c'è gossip, non ci sono rivelazioni piccanti né ricordi maliziosi (anche se, volendo...)".

Elsie V. Aidinoff, Il giardino (Fanucci): nel nome di Dio, un duello letterario


















Il mistero del peccato originale, l’ansia di Dio e le perplessità sul sacro. Due scrittori ottantenni si interrogano sul mito più antico del mondo e rivisitano la Genesi. José Saramago, scrittore portoghese premio Nobel, e Elsie Aidinoff , scrittrice americana esordiente a quasi 80 anni, ci raccontano un’altra storia. Quella narrata da Elsie Aidinoff, autrice di Il giardino, è la cacciata dell’uomo dal Paradiso terrestre, vista dalla prospettiva di Eva, una donna che mette tutto in discussione, a partire dalla sua stessa ‘nascita’ per volere divino, fino al compagno che è stato scelto per lei, Adamo, dal temperamento più fisico che cerebrale, che si gode la vita nell’Eden prestando scarsa attenzione agli insegnamenti che Dio vuole impartirgli. Dio, infatti, è un essere burbero, capriccioso e autoritario, che considera le sue creature dei giocattoli; il Serpente, invece, è il gentile e comprensivo mentore di Eva, della quale coltiva la curiosità intellettuale, finché lei non vuole più rinunciare alla propria indipendenza e, nonostante sappia esattamente a quali rischi va incontro mangiando il frutto dell’albero della Conoscenza, decide di affrontare la sfida pur di diventare un essere umano pienamente realizzato. E sarà imitata da Adamo, che pur non avendo la sua stessa forza desidera ugualmente sentirsi un individuo.

“La donna, per cristiani ed ebrei, è colei che ha portato il peccato nel mondo: è un’ingiustizia e mi dà sui nervi. Ma per favore non chiamatemi femminista”. (Vanity Fair)


Nota di Elsie Aidinoff autrice di “Il giardino”, edito da Fanucci


L’idea di Il Giardino mi è venuta tanti anni fa, in chiesa, mentre veniva letto il terzo capitolo della Genesi, quando Dio accusa Adamo di aver mangiato la mela e Adamo risponde: «È stata la donna che mi ha dato del frutto dell’albero.» (A sua volta Eva dà la colpa al Serpente, che è ugualmente reprensibile.) Quel giorno, la risposta così familiare – scaricabarile! – mi ha aperto le porte del Giardino. Da quel momento in chiesa, non riuscivo a togliermi Eva dalla testa. Mi è sempre parso sbagliato che nella religione, come nella mitologia, la donna sia spesso accusata di aver introdotto il peccato nel mondo. Mentre pensavo a Eva nell’Eden, i personaggi hanno cominciato a muoversi e a crescere in modi inattesi e il racconto ha preso vita. Mi nascevano dentro delle domande stimolanti: il Giardino dell’Eden è il Paradiso? Il Paradiso è quella cosa lì: un posto bellissimo in cui tutti i nostri bisogni fisici vengono automaticamente soddisfatti? Possiamo eludere la responsabilità morale obbedendo ciecamente a un ‘essere superiore’? Perché ci è stata dato il raziocinio?

Il ritratto che faccio di Dio nel Giardino è stato influenzato da un soggiorno a Santa Fe, in cui mi sono occupata dello sviluppo della bomba atomica a Los Alamos. Gli scienziati che hanno creato la bomba avevano una grande passione per il loro lavoro: erano totalmente assorti, elettrizzati, ubriachi di entusiasmo intellettuale. Ma per quanto fossero geniali, non si fermarono mai a considerare le conseguenze morali della bomba o le sofferenze che avrebbe causato. Lì ho cominciato a pensare che Dio, Iddio, potesse in qualche modo somigliare agli scienziati di Los Alamos: un creatore totalmente assorto dalle sue creazioni, impaziente di verificare le sue teorie (o almeno di vederle funzionare secondo il progetto iniziale), inconsapevole del costo in termini umani. Mi sono presa alcune libertà con lui, ma non credo che il comportamento che gli ho attribuito sia in contrasto col suo personaggio: il Dio dell’Antico Testamento è un essere collerico e irruente. A mano a mano che approfondivo la mia conoscenza del Giardino dell’Eden, mi sono resa conto che l’eroe della storia era il Serpente, il Prometeo degli Edeniti, se così si può dire. Prometeo ha dato il fuoco agli esseri umani, il Serpente ha dato loro la capacità di ragionare; se non fosse stato per il Serpente, forse Adamo ed Eva sarebbero ancora lì nel Giardino, con la loro progenie, senza sapere cosa farsene del raziocinio. Forse il Serpente è la Sapienza, la quale, secondo alcuni testi antichi, era con Dio alla Creazione. Ho scritto Il Giardino senza alcuna intenzione di turbare la serenità altrui: ho un profondo rispetto per la religione e per la fede individuale, ma non condivido alcune posizioni cruciali della religione organizzata. Non posso credere in un dio esclusivo che, come le antiche divinità tribali, protegge solo un gruppo di persone; non riesco a conciliare l’idea di un dio onnipotente con le sofferenze del mondo, né posso credere che gli esseri umani siano intrinsecamente malvagi. Come i Manichei, vedo il mondo come il palcoscenico della lotta tra le forze del bene e le forze del male, e considero gli esseri umani capaci insieme di grandi nequizie e di grande bontà. E, come Eva, non capisco perché un grande dio dovrebbe aver bisogno di tanta adulazione. Per quanto nel mio Giardino Eva sia più arguta e intrepida di Adamo, non lo considero un libro femminista: Il Giardino è una prospettiva diversa dell’Eden; Eva ne è la protagonista e svolge un ruolo primario. Forse è questa l’Eva che avremmo conosciuto se la Bibbia fosse stata scritta da una società meno patriarcale. Indipendentemente da come consideriamo la Bibbia – come parola di Dio, come la storia di un popolo, o il tentativo di un popolo di dare un senso al mondo intorno a sé – per secoli è stato un testo vibrante, basilare; ha ispirato innumerevoli storie e riflessioni. Il mio Giardino è un romanzo, non un’opera teologica: un romanzo che parte da uno dei racconti più antichi e noti della terra e nel quale ho cercato di esplorare la responsabilità individuale, la giustizia e la libertà. Ci ho messo sette anni a scrivere Il Giardino. La storia, i personaggi, e io, siamo cambiati in quei sette anni: quando ho cominciato a scriverlo non avevo un’idea precisa di come si sarebbe concluso, sapevo soltanto che, alla fine, Adamo ed Eva si sarebbero trovati fuori dal Giardino.


Elsie V. Aidinoff, Il giardino, pp. 420, 17,00 euro, Isbn 978-88-347-1581-9


Elsie V. Aidinoff si è occupata di educazione per tutta la vita, che ha trascorso tra Parigi, Bruxelles, Hong Kong, Londra e New York. Dal 1980 lavora come insegnante, direttrice e amministratrice alla Children’s Storefront School di Harlem, una scuola indipendente. Ha avuto quattro figli e oggi vive a New York con suo marito. Ha esordito con questo libro all’età di 73 anni, dopo una stesura durata sette anni.

martedì 20 aprile 2010

Enrica Morgese, “Controversi Oltrelatoga”. (Perrone Lab)

“La raccolta di versi di Enrica Morgese si apre in modo insolito con una dichiarazione di attenzione nei riguardi del lettore, nella quale è implicita una promessa di comunicazione, di consegna delle emozioni attraverso l’intelligenza conoscitiva della scrittura poetica.
L’esperienza esemplare della poesia, così come dovrebbe essere, fuori dalle acrobazie retoriche o le lettere morte della vacua letterarietà, si traduce in un “sentire” e uno “stare” nelle cose, e di conseguenza, in un tipo di scrittura che garantisca che “la realtà del mondo non sarà sottovalutata”, per usare le parole di Neruda. Non a caso in queste poesie una lingua vibrante e concreta cattura la realtà, come in “Consegnarsi” dove l’esperienza del dolore viene filtrata nella descrizione del bagliore carnale di un pomodoro squarciato, nel lucente rosso che trasla, in metafora psichica, la vulnerabilità dell’anima o la ferita di un abbandono.
Partendo dal dato fenomenico di un ortaggio, attraverso la poesia, si attua la trascrizione simbolica di un “patire”, creaturale insieme con il mondo, che sarà poi contrappunto di tutta la raccolta. Percorso iniziatico, sulla via di uno scavo esistenziale, che diventa sguardo straniante e rielabora un modo nuovo di guardare anche sé stessi: (“Disconosco”) Quella donna, / la vedete anche voi? / quella dalla sagoma fuori contesto… Trasalgo./Quanto a me, io non la (ri)conosco”. L’autrice ci dice che la dimensione poetica, essendo altro dal linguaggio della prassi, è in grado di rivelare zone latenti dell’interiorità e stabilire un contatto profondo con ciò che giace nascosto. Partendo dall’osservazione e dall’auto-auscultazione, si sommano visioni e ricordi, attraverso l’uso ben calcolato del correlativo oggettivo, espediente novecentesco, che rende palpabile il sentimento di disagio, o per meglio dire tutto il peso di una coscienza che lucidamente si interroga, come “un’anima di lana” ingolfata nella gravità delle cose: “Piove,/piove da giorni,/mi pare che piova da epoche,/da ogni versante della Rosa dei Venti./…………………/Cosa vuoi che mi accada?/È un pezzo/che sono/infeltrita.” Poesia, dunque, come radice, substrato dell’esistenziale, guida allo scavo interiore, sebbene ad ogni passo l’immaginario tenda a staccarsi dai fatti, rivelando tutta la complessità emotiva soggiacente. L’avvenimento è un campo di forza che dirama in immagini, amplificando le potenzialità della percezione, così in alcune poesie, ad esempio, la potenza di un sentimento di paura prende le mosse dall’astrazione di un colore: devo fare i conti con/la paura del blu,… e, a braccio, mentirgli/di coralli colorati; mentre altre volte sarà l’acuta dissonanza di una nota musicale a spalancare scenari inaspettati. In versi come questi tutto sembra dirci che con la poesia non si soccombe di fronte alla menzogna, perché essa è carne che dà corpo, prima di tutto alle proprie verità, e poi alla costruzione di un’esperienza di senso….” (dalla prefazione di Letizia Leone)

Enrica Morgese - “controversi oltrelatoga” - Ed. Perrone Lab. Prefazione di Letizia Leone

Il libro del giorno: Educazione siberiana di Nicolai Lilin (Einaudi)

Cosa significa nascere, crescere, diventare adulti in una terra di nessuno, in un posto che pare fuori dal mondo? Pochi forse hanno sentito nominare la Transnistria, regione dell'ex Urss autoproclamatasi indipendente nel 1990 ma non riconosciuta da nessuno Stato. In Transnistria, ai tempi di questa storia, la criminalità era talmente diffusa che un anno di servizio in polizia ne valeva cinque, proprio come in guerra. Nel quartiere Fiume Basso si viveva seguendo la tradizione siberiana e i ragazzi si facevano le ossa scontrandosi con gli "sbirri" o i minorenni delle altre bande. Lanciando molotov contro il distretto di polizia, magari: "Quando le vedevo attraversare il muro e sentivo le piccole esplosioni seguite dalle grida degli sbirri e dai primi segni di fumo nero che come fantastici draghi si alzavano in aria, mi veniva da piangere tanto ero felice". La scuola della strada voleva che presto dal coltello si passasse alla pistola. "Eravamo abituati a parlare di galera come altri ragazzini parlano del servizio militare o di cosa faranno da grandi". Ma l'apprendistato del male e del bene, per la comunità siberiana, è complesso, perché si tratta d'imparare a essere un ossimoro, cioè un "criminale onesto". Con uno stile intenso ed espressivo, anche in virtù di una buona ma non perfetta padronanza dell'italiano, a tratti spiazzante, con una sua dimensione etica, oppure decisamente comico, Nicolai Lilin racconta un mondo incredibile, tragico, dove la ferocia e l'altruismo convivono con naturalezza.

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