Dal
febbraio 1992 al febbraio 1995, ho lavorato a Taranto. Facevo il cancelliere
nella sezione penale del locale tribunale. Ogni giorno alle prese con criminali
e presunti tali che s’erano macchiati dei delitti più disparati: dal
contrabbando di sigarette alla strage… Una faticaccia. In una città dove morire
per caso era fin troppo facile. Dopo la laurea in giurisprudenza e il
praticantato forense, m’ero ritrovato vincitore dell’unico concorso fatto in
vita mia. E avevo iniziato a fare su e giù in un pendolarismo privo d’ogni
erotismo. Quotidianamente partivo da Lecce per Taranto e dopo sei otto dieci (a
volte anche più) ore (in stretta dipendenza della durata dell’udienza penale)
tornavo a casa. E, poi , c’era lo straordinario… Le strade per andare e tornare
le ho fatte tutte: ho consumato un’Audi 100 CD (acquistata strausata ma col
motore nuovo) sulla Lecce – Brindisi – Taranto (la superstrada non era stata
ancora completata all’epoca), sulle strade interne dei paesi, su alcuni tratti
di interpoderali deserte (nei pressi di Maruggio) nel bel mezzo d’una foresta
d’ulivi e d’altre essenze autoctone, ma la via preferita era la litoranea che,
tranne nell’impraticabile periodo estivo, avevo imposto anche ai miei
occasionali compagni di viaggio, costretti –altresì- a subire (per un paio
d’ore al giorno) la musica sparata dallo stereo del vecchio salotto su quattro
ruote. Lo stereo taceva soltanto quando viaggiavo da solo. In quelle occasioni,
invero, non ero solo. Il mare alla mia sinistra, all’andata, mi raccontava di
risvegli e sonnolenza, d’incubi e sogni, di speranze e fallimenti. Per i l
resto, soltanto sabbia. E rabbia. Sabbia di dune. E di deserto. Violentata dal
cemento. Dal degrado. E dai rifiuti. D’ogni tipo. Eppure d’una bellezza
sconvolgente. Che ne celava una non più visibile. Come di donna d’una certa età
che da un particolare noti quanto doveva esser stata bella un altro tempo. Come
quella volta che nevicò e il bianco ricoprì ogni cosa... Passavo traverso le
marine pressoché deserte. Facevo tappa al bar dei fratelli Brunetti, a
Campomarino, per un caffè. Lì non ho mai incontrato l’afro-albanese che vendeva
birra Raffo. Torre Ovo è il luogo che, nonostante tutto, amavo di più. Lì, nel
giallo sfolgorante delle acacie, c’è stata la visione delle farfalle che ho
descritto altrove. Nunzio può testimoniare ch’eravamo sobri e che la nuvola di
farfalle non è stata un miraggio. Lì (proprio sotto la torre, sul fronte
strada, un certo giorno) un cartello c’avvertì: PERICOLO DI CROLLO. Nel mentre
crollava il mondo intero e nessuno c’avvertiva. Lì (proprio sulla spiaggia,
dopo il curvone) un grosso cane (non era un labrador) affogato marciva
lentamente. Lì le barche dei pescatori avevano tutte nomi di donne. Di ritorno,
il mare alla mia destra, il cielo aveva tutti i colori di tutte le stagioni e
di tutti i tramonti. Ne ho scritto già diffusamente. È un tempo andato. Che
m’ha insegnato molto. L’ho ritrovato, in salsa agrodolce, in questi giorni, in
un libro. Più che agro, proprio piccante, a tratti ustionante. Più che dolce,
proprio suadente e tristemente malinconico, come una milonga (vedi un po’: una
danza “argentina”, che ha per parenti i candombe il tango e l’habanera). Come
l’amore. Quell’amore che non è riuscito a sradicare dal petto l’infinita
solitudine nata quando sei nato e che t’ha inchiodato fino alla fine.
Nel
mio ultimo pezzo su questo quotidiano on line, ho viaggiato per lande e
scritture diverse traverso meta-incontri con molti scrittori e fermando la mia
immaginazione, un po’ logorata da tanto stare, cennando anche all’ultimo
romanzo di Cosimo Argentina, “Per sempre carnivori”, affibbiandogli –cosa che
non amo fare- la definizione volante di “strano pulp”. Quel che odio, invero,
son le definizioni… quindi, essere io a darne, è (usando un eufemismo) far
qualcosa che non amo. Ma tant’è. S’odia (fors’anche) quando s’è troppo amato. E
non è naturale, né giusto, ma funziona così. Ossia: non funziona! E ahivoglia a
dire (come pure sinceramente ho fa tto) che non son capace d’odiare. Devo
correggere il mio stesso dire: ho odiato, ma poi mi son fermato lì: ho
cancellato l’oggetto del mio odiare e ho trasformato il desiderio di (…)
vendetta (foss’anche, com’è esclusivamente stato, per una nobile pura e giusta
ragione) in indifferenza che tradotto in mantra è diventato (di volta in volta)
schiatteraidatesenzacheiomuovaundito con vaffanculo siberiano annesso (e c’ho
altro da fare connesso, ché d’idiozia e d’ignoranza è pieno il mondo e si vive
una volta sola, se va bene!). Dicevo di Argentina e del suo ultimo (in ordine
d’apparizione, s’intende) libro: riprendo da dove ho già scritto: troppi
puntini di sospensione e… va bene. Ho anche scritto che non ero sorpreso che
avesse citato Elias Canetti unendo i tre nobellemmi “auto da fè”. E aggiungevo:
sempre che non abbia voluto riferirsi a Battiato... ché all’accecamento del
siculo –motivavo- preferisco quello del bulgaro... Altro, adesso, dovrei
motivare. Tipo: perché ho definito “strano pulp” questo libro. Perché, per quel
che importa, cioè niente, questo non è un romanzo pulp. Né il titolo del libro
deve far pensare alle opere di quegli scrittori italiani noti (a iniziare dai
primi anni novanta) come “I Cannibali”, i cui romanzi sono caratterizzati
dall’efferata crudezza e dallo spietato realismo di certe narrazioni… Ciò
nonostante uno dei pazzi (che indossa ormai –guarda caso- soltanto una vecchia
maglia della nazionale di calcio “argentina”) vaganti del libro di Argentina
spenda le sue ultime energie perdendosi (dopo essersi smarrito e mai più
ritrovato già da tempo) nel fascino orrido dell’antropofagia e degli ultimi
suoi praticanti su questo sfasciato pianeta. Ciò nonostante il romanzo s’apra
con uno scenario balneare del nostro Jonio per niente turistico e molto
lugubre, posto che in primo piano vi è una testa umana mozzata che mira verso
il mare aperto fottendosene del tronco cui fino a poco prima apparteneva. Ciò
nonostante altre violenze, altre situazioni più o meno macabre, un’altra testa
mozzata (però in un incidente stradale), e altri umani e animali trucidati dei
quali le pagine del libro ancora sanguinano. Il pulp, notoriamente, è un genere
letterario le cui storie son dense di vicende dai contenuti forti, dove
efferatezze e situazioni macabre sono profuse almeno tanto quanto la gran
quantità di crimini violenti. Queste storie, la cui matrice si rinviene nella
letteratura americana degli anni venti, s’innestano solitamente su un altro
genere letterario, il giallo e, in particolare, su taluni suoi sottogeneri:
l'hard boiled e il poliziesco. Senza dimenticare la contaminazione del pulp con
l’horror. Senza dimenticare “Pulp. Una storia del XX secolo”, l’ultimo romanzo
di Charles Bukowski (pubblicato dopo la sua morte). Senza dimenticare “Pulp
Fiction”, di Quentin Tarantino. Senza dimenticare il pulp per guadagnarsi una
fetta di pubblico e quello con argomentazioni di ricerca espressiva e
stilistica. Senza dimenticare tutte le inutili discussioni. Senza dimenticare
che il pulp è dappertutto… e che oggi tutto è pulp! Polpa. Da spolpare. Finché
ce n’è. Fino alla fine. Che c’è. Perché, allora, quest’incursione (per cenni,
molto scennati) nel pulp da parte di chi scrive? Tutto per dire che “Per sempre
carnivori” non è pulp? O per dire ch’è uno “strano pulp”? No. Non solo. Credo
che Argentina non appartenga, in nessun modo, a alcuna corrente letteraria e
meno che mai po ssa essere definito uno scrittore pulp. Intanto perché nel
1996… scriveva altro (prima ancora di pubblicare). Poi, perché soltanto alcuni
dei gredienti del genere sono presenti nel romanzo in parola. Ecco perché ho
pensato ch’è uno “strano pulp”. E l’ho pensato, e l’ho scritto, al volo! Ecco
quel che ha visto la mia mente: sarà uno spazio anche per l’occhio? E quando ho
finito di leggerlo, il libro, ho continuato a pensarlo: le immagini evocate
dalla lettura fanno l’occhiolino al cinema. Che Argentina, per ottenere il
giusto (perché meritato), abbia inserito in questo romanzo connotazioni da
“strano pulp” per giocarsi in un modo altro la sua scrittura? Ovviamente non so
rispondere. So, invece, che ho amato –comunque- questo suo ultimo lavoro.
Perché, oltre tutto, mi piace la sua scrittura che non esito a definire onesta,
non manierista, fedele all’esistenza, a nche scurrile ma mai volgare, gergale
ma mai sovrabbondante e, comunque, mai protagonista oltre i contenuti. E i
contenuti son quelli che importano davvero in questo romanzo. A cominciare
dall’esergo nietzschiano: “Io amo coloro che non sanno vivere, anche se sono
coloro che cadono, perché essi sono coloro che attraversano”. E, senza
aggiungere altro, quindi senza neppure finire, potrei mettere un po’ di puntini
di sospensione e lasciarvi qui, a riflettere. Ma mi piace dirvi ancora
qualcosa, non della storia, non della narrazione, non della predilezione per
tutto l’umano andare senza voce per le strade più impervie della vita… Vi dirò,
invece, che c’è un altro modo per affrontare tutto questo e tutto questo è,
citando –una volta ancora- Hanks, “tutti i miei libri non aiutano. / nemmeno le
mie poesie aiutano. / niente o nessuno aiuta. / sono proprio io da solo, che
aspetto, respir o, / pondero. / non c’è più niente per cui essere coraggiosi. /
non c’è proprio più niente qui.”, tutto questo è dirla com’è davvero, dirla
tutta, non fottersi da sé, in questo mondo fottuto almeno non barare con se
stessi. Credo che Argentina il viaggio ce l’ha scritto nel cognome e da uomo
vero qual è continuerà a scrivere autenticamente, continuando a “credere che un
uomo deve guardarsi intorno, cercarsi dentro, essere solidale con l’inferno che
si trascina dietro”, vivendo il dono e il dolore che ci toccano, ché “il tempo
ci omaggia e ci devasta”, imparando a dire: no! Poi, chissà se quella ragazza
sulla torre era vera? Io credo di sì. Com’erano vere le farfalle di quel maggio
di tanti anni fa. E, in ogni caso, parafrasando un altro Conte, “si trattava
d’amore” (Gioco D’azzardo). Ché leggere questo libro è come essere “alle prese
con una verde milonga”, piangere e ridere di gusto, seguendo i passi inimitabili
di Atahualpa Yupanqui...