Non ho mai dovuto aspettare così a lungo, dopo averlo
prenotato, un libro! Oltre un mese! E il buon Marco voleva portarmelo lui, di
persona. Ché di quel libro avrei avuto il piacere di parlarne, poi. Ho
declinato l’offerta di Marco: i libri si comprano, gli ho detto! Ma, intanto,
la data della presentazione si avvicinava e del libro ancora niente. Ci siamo
sentiti. Con Marco. Ripetutamente. È sempre un piacere. Quando accade. Sempre
nulla di già detto... E quella voce, la sua, un po’ tremula, in divenire, a
tradurre in lemmi il pensiero che scorre… Mi ha mandato il PDF e così ho
iniziato a leggerlo il suo ultimo libro. Poi, finalmente, è arrivato in
libreria. L’ho ritirato. Ho ricominciato a leggere. Dall’inizio. Sino
all’ultima parola: “anch’io”. Ho metabolizzato. E ho cominciato a pensare, come
sempre mi succede in simili occasioni, a quel che avrei detto… Il ventuno a
sera, alla libreria Ergot, cosa dirò? Sì, perché, in fine, stasera farò parole
de “Il corpo estraneo (Una tragedia on the road)”, (Caratteri Mobili Edizioni,
Collana Molecole, pagine 111, € 12,00), insieme all’Autore, Marco Montanaro, e
Ennio Ciotta. Cosa dirò? Andrò a braccio. Improvviserò. Tanto per cambiare. Ché
non riesco mai a preparare nulla, in circostanze del “genere”. Ma la “specie”,
stavolta, è diversa. E quando dico “specie” intendo la scrittura e, ovviamente,
lo scrittore (che l’ha resa, ché dire generata aprirebbe un altro capitolo). La
scrittura è nuova, siccome può essere nuova una scrittura che contiene la “cifra”
del suo Autore. Voglio dire che in questo libro Marco Montanaro ha lasciato un
segno del suo intendere “scrivere”: niente di preconfezionato, nulla di
preordinato, nessuno spazio al rapimento del lettore e/o alle aspettative del
lettore stesso, e –paradossalmente- sangue e sudore che sgorgano a fiumi da
ogni pagina, da ogni frase, da ogni parola, ché Marco Montanaro ha dato corpo
(diventato tangibile) a un racconto lungo (ch’era sconosciuto dentro di lui)
sudando e sanguinando ogni singola parola de “Il corpo estraneo”. Si può
scrivere soltanto quel che si è attraversato nell’esistenza. E allora scrittura
e scrittore, in questo caso, coincidono, ché questo libro e il suo Autore sono
(a me sembra) così: rifiuto di ogni regola nota, rigetto di qualsiasi ruffianeria
letteraria, reiezione di qualunque canone acquisito, in nome di una legge
superiore: quella dell’onestà intellettuale e del rispetto del prossimo. Che
possono realizzarsi davvero esclusivamente rendendo di sé quel che si è! Marco
Montanaro mette in atto se stesso e quel che lo circonda traverso parole che
formano periodi che starebbero in piedi anche se isolati e letti di per sé
soli. Il monco e il rimando sono contenuti diffusamente in questo libro. Sembra
un mare aperto dove la narrazione sdonda s’un surf toccando acqua e cielo e
dove nessuna terra è in vista. Ho pensato a cosa dire di questo libro e come
cominciare a parlarne stasera. Mi sono passati per gli occhi almeno sei diversi
incipit. 1) Corpo estraneo è il ventinovesimo album de “I Nomadi” ed è uno dei
tre singoli estratto da quel lavoro musicale del 2004. Musica. Assente quasi
del tutto nel libro, quanto a riferimenti. Più che presente per ogni scena. Per
ogni movimento. Per ogni stare e andare. 2) Alla fine della lettura m’è venuta
voglia di masturbarmi… la pornografia non c’entra niente; certo erotismo sì. Un
certo eros disperato, che fa venire in mente l’atmosfera di quella canzone di
Lucio Dalla tanto nota ch’è inutile ricordarne il titolo. E non mi riferisco
all’erotomane Danilo, ovvio… penso a tutto quel che volete e a niente in
particolare. 3) La sensazione che ho avuto, giunto all’ultima pagina del libro,
è stata di bagnato, d’umidore diffuso sulla pelle e dentro, fradicio nei
capelli… No, qui l’erotismo non c’entra. Mi sentivo proprio come un panno
appena tirato fuori da una vaschetta colma d’acqua. Mi si sarebbe potuto
strizzare ogni braccio, ogni mano, le gambe e i piedi, il petto e no, l’uccello
no (Danilo docet), ma persino l’anima. Tutto avrebbe grondato acqua. Ché questo
libro mi ha fatto avvertire tutta l’umidità del mondo e m’è venuto desiderio di
sole, di deserto, di terra spaccata dalla siccità… 4) Il titolo del libro evoca
immediatamente una brutta sensazione di blocco, di asfissia, di alterazione… Il
corpo paralizzato da un elemento esterno, sconosciuto, ignoto, tinto di nero,
la gola serrata da mani invisibili, l’impossibilità di respirare, l’aria già
incamerata sta finendo, l’affanno sta vincendo, ogni parte del corpo è in
estrema tensione, gli occhi strabuzzano fino a esplodere, voglia disperata di
gridare ma la voce non esce, un urlo, ci vorrebbe un urlo, ma le mani
invisibili stringono sempre più, perché nessuno presta aiuto? Nessuno può!
L’unica è cercare l’ultimo sforzo sovrumano, riprendere senso e sputare via l’estraneo
ch’è di traverso in groppo. Ché tenerlo dentro uccide! 5) Il sottotitolo
suggerisce una certa pietà e un sentimento di paura… Che, poi, rinvengo nei
personaggi che animano questa storia “sulla strada” e nella storia stessa… 6)
“Corpo Estraneo” è il titolo di un romanzo di Robin Cook. L’avrà letto Marco
Montanaro? 7) “Il corpo estraneo” è anche un poemetto (di trentasei pagine) di
Vilma Costantini. Non ho letto neppure questo! E Marco? 8) E, poi, c’è anche
“Un corpo estraneo”, testo teatrale di Renzo Rosso… 9) Questo libro è il terzo
di Marco Montanaro e (avendo io letto il primo e non ancora il secondo) mi
verrebbe da dire ch’è il più Dannoso, ma potrò affermarlo soltanto quando avrò
colmato la lacuna della lettura del suo secondo libro. Ecco, avevo pensato ben più di sei modi per
cominciare a dire de “Il corpo estraneo” e me li sono giocati tutti qui. Mi
toccherà inventarmene un altro. Stasera. Sarà facile. Perché questo libro
fornisce spunti infiniti su qualcosa che non finisce mai d’accadere e quella
cosa la viviamo ogni maledetto-benedetto giorno. Vorreste sapere cosa, vero?
Beh, vi toccherà venire alla libreria Ergot, questa sera! E non fatemi pensare,
ché “è in questi momenti che avverto una certa solitudine. La solitudine è una
grande balla, come la religione, la musica, l’incontro; ma val bene crederci
per non sentirsi soli davvero”. E questo è soltanto un piccolo assaggio della
scrittura di Marco Montanaro, che ha il colore dell’avorio perché ridotta
all’osso; la consistenza di quella terra spaccata di cui sopra è parola; il
ritmo di una ballata per sola voce, tipo: “As Yet Untitled” di Terence Trent
D’Arby; la melodia della pioggia nel mentre ci cammini sotto senza proteggerti,
ché lavarti così è purificarti; l’incedere del ramingo, ché per ricominciare
tutto deve finire; il mistero di una valigia chiusa che tale deve restare prima
di disfarsene. Poi, chissà!?!