Esordio noir teso e denso, forte di una bellissima contestualizzazione in cui l’acqua, il fiume, le correnti sono così presenti da
condividere con Sonia a Jez il ruolo di protagonista. La storia, narrata in
prima persona da Sonia, la protagonista, fa sì che il lettore viva dall’interno
i dissidi, le contraddizioni, i sogni, i ricordi di questa donna che, nella sua
follia, è così disperatamente “normale”, così simile alla moltitudine di mogli
e madri sospese tra la quotidianità di un’esistenza apparentemente senza
scossoni e gli urti di una frustrazione sempre latente che qui, d’un tratto,
diventa tanto urgente da cancellare ogni cosa, famiglia, affetti, equilibrio
mentale. Di più: il contesto più ampio che ruota intorno alla protagonista è
una camera d’echi di tutto quello che sostanzia, da sempre, il dolore
“clandestino” delle donne: un dolore fatto di tutto e niente, di vite spese in
riti sempre uguali, di incomunicabilità mai risolte affogate in piccole e
grandi sbornie solitarie, di figli e mariti e amici sempre presenti e mai
realmente conosciuti.
Greenwich, Londra. In un freddo pomeriggio di febbraio
Sonia, 43 anni, apre la porta di casa (una vecchia, splendida magione che si
affaccia sul Tamigi e che lei ama definire, da sempre, “the River House”) e
lasciando entrare Jez, 15 anni, amico del figlio e nipote di una sua cara amica. Il ragazzo
viene per un motivo qualsiasi (vorrebbe vedere un raro disco di vinile del
marito di Sonia, Greg, che al momento non è in casa), ha intenzione di restare
in casa una mezzora o poco più. Non ne
uscirà più. Con una progressione
geometrica, un passo dopo l’altro, senza che ci sia nulla di prestabilito,
Sonia inizia a far sì che il momento in cui il ragazzo lascerà the River House
venga via via rimandato: inizialmente è una piccola sbornia innocente che si
prendono insieme, poi diverrà una pratica quotidiana fatta di sonniferi sciolti
nelle bevande, di una lunga reclusione nel garage (evidentemente, semi
abbandonato) nel cortile antistante, di legacci che tengono Jez stretto alla
spalliera del letto. Il ragazzo non sa
cosa pensare: Sonia nutre per lui un’attrazione fisica che è ha una forte
componente materna; sostiene di volerlo proteggere, lo coccola, lo nutre con
delizie sempre nuove, continua ad affermare che presto lo lascerà andare, che
il tutto è una specie di gioco a termine. Il ragazzo non ha tuttavia alcuna
voglia di partecipare: ma non ha scelta, Sonia ha fatto sparire il suo
cellulare, lui non ha modo di contattare nessuno, quando il marito e il figlio
della donna sono in casa si ritrova recluso nel freddo e nel buio del garage.
Si ammala, rischia di morire; poi, grazie
alle amorevoli (ma ossessive, asfissianti) cure della protagonista, il suo
stato di salute migliorerà. Nel
frattempo, le indagini sulla scomparsa del ragazza si serrano in cerchio
intorno alla River House: ma sarà Helen, la zia di Jez, la sola a pagare per
una verità che la donna non ha ancora messo a fuoco. Un giorno va a trovare
Sonia e trova una t-shirt del ragazzo, realizza cosa sta accadendo, e paga con
la vita. Sonia uccide Helen, e ne fa scomparire il corpo tra le gelide correnti
del fiume (un fiume che conosce bene, che è stato il leitmotiv della sua
infanzia lì, in quella casa che si affaccia sull’argine); ma le indagini
continuano, il cerchio si fa ancora più serrato.
Il finale è sorprendente: tutto lascerebbe pensare che il
ragazzo morirà o verrà liberato in tempo, tertium non datur: e invece Sonia lo
lascerà andare (dopo averne preso un calco in gesso, così da serbarne,
tangibilmente, la memoria), e si
consegnerà poi al suo destino, le accuse, l’arresto, la detenzione in un
istituto psichiatrico. Penny Hancock, logopedista in una scuola elementare di
Londra, vive a Cambridge con il marito e i tre figli. La casa sul fiume, suo
romanzo d’esordio, verrà tradotto in dieci paesi; i diritti cinematografici e
televisivi sono stati acquisiti dalla Festival Films.
«La sola cosa che conta, la sola cosa che vale la pena
raccontare, è l’interiorità dei personaggi, cosa accade sotto la superficie.
Scrivere è un’immersione nel profondo: niente di più e niente di meno.» (Penny
Hancock)