E accade che qualcuno che mi
conosce, nel presentarmi a qualcun altro che –invece- non mi conosce, dica: lo
scrittore Vito Antonio…, oppure: il poeta…, e (più recentemente) anche: il
giornalista… Io, sempre, provo qualcosa di molto simile all’imbarazzo e, non
senza pudore, a volte, dico: scrivo per necessità, mi piace farlo… Quando
accade che la scrittura spinge forte da dentro, le do corpo, inchiostro fogli
da “dilettante”, ossia “per diletto”. Ma definirmi scrittore, poeta o
giornalista non lo sento appropriato... E dovrei dire perché. Perché provo
imbarazzo… o perché avverto quell’altro stato indefinito… Forse perché i mezzi
di sostentamento non mi vengono dal mettere insieme lemmi… su quel che torce le
mie budella o su quel che mi fa sorridere di bellezza. Forse perché scrivere è
stata, è e continua a essere una passione. I cui frutti nessuno ha mai pensato
di comprare. E, prima ancora, io mai mi sono sognato di vendere. Forse è questa
libertà. E ogni libertà contiene in sé sempre un po’ di pudore. E un po’ di
rabbia. Pudore e rabbia pensando a chi non ce l’ha e/o a chi ce l’ha e ne fa
alcun uso o (peggio, ne fa) abuso... Sarà quel che è, quel che ho scritto e/o
altro, ma non ho voglia di restare sui pensieri, ché - l’ho già reiteratamente
esplicitato - restare sul pensiero, quando il pensiero diventa troppo, come
ogni troppo (…), fotte… C’è che –soprattutto- non sono un giornalista. Anche se
con quel “mestiere” mi cimento e so che potrei essere adatto a farlo
(parafrasando il libro di cui sto per dirvi). Ma questa vita –fin’ora- è andata
come è andata e ho fatto mille altre cose. Non serbo risentimenti, né rancori,
né insoddisfazioni. È andata –fin qui- come doveva, ossia come ho voluto e come
ha voluto qualcun altro (qui e nel cielo). Ma questa è materia del romanzo che
(prima o poi) pubblicherò. Per intanto, tra le altre cose, leggo. Meglio:
continuo a leggere. Meno onnivoro di un tempo, ma non so stare senza letture. Il
mio studio (a casa mia) è sempre una città impossibile. Devo muovermi con
cautela nei vicoli tra pile di riviste, giornali e libri a torreggiare ovunque…
In cima a una di quelle costruzioni (tra le mie preferite) c’è “Il cinico non è
adatto a questo mestiere”, di Ryszard Kapuściński (Edizioni e/o a cura di Maria
Nadotti). Il sottotitolo del libro, “Conversazioni sul buon giornalismo”, ne
chiarisce il contenuto: elementi fondamentali perché quello del giornalista sia
un mestiere capace di rendere al prossimo qualcosa di buono. Il libro
compendia, fornendone ampia documentazione, due incontri che Kapuściński ha
avuto in Italia negli anni novanta sui seguenti temi: “Di razza e di classe. Il
giornalismo tra voglia d’élite, coinvolgimento, indifferenza”, “Vedere, capire,
raccontare: letteratura e giornalismo alla fine di un secolo”, e un’intervista
(rilasciata a Andrea Semplici). Ho amato la scrittura di Kapuściński, già ne ho
(a mia volta) scritto. Lo faccio ancora perché è stato e rimane una figura di
grande spessore nel panorama giornalistico e letterario del secolo passato. Intanto
che scrivo di questo libro, ne sto leggendo un altro suo: “Ebano”, di una b
ellezza sconvolgente! Mi piace di lui e della sua scrittura soprattutto quel
suo credo secondo cui, per avere il diritto di narrare, “si debba avere di ciò
di cui si parla un’esperienza diretta, fisica, emotiva, olfattiva, senza filtri
e schemi protettivi”. Mi piace “il suo disinteresse per i bianchi, i ricchi,
gli occidentali, per i potenti della terra”. Mi piace quella sua eterna
affermazione che “né la povertà né l’oppressione appartengono all’ordine
naturale delle cose” e quel suo continuo spendersi per la libera parola, ché
“la parola incontrollata, in libera circolazione, clandestina, ribelle, senza
uniforme, non certificata, terrore dei tiranni, è il catalizzatore
indispensabile” per ogni cambiamento reale, più di qualsiasi altro mezzo. Questo
libro mi ha insegnato (oltre tutto) perché non sono un giornalista e perché
questo mestiere sarebbe adatto a me. Perché suoi elementi specifici sono: a)
una certa attitudine ad accettare di sacrificare qualcosa di noi; b) un
costante approfondimento delle conoscenze; c) non è un semplice mezzo per
arricchirsi. Kapuściński ha vissuto empaticamente il suo mestiere,
confondendosi nei luoghi e con le persone dei paesi dov’era (di volta in volta)
inviato per il suo lavoro. Non c’è altro modo per vivere qualunque esistenza.
Pena: vivere un’esistenza qualunque. Segnalo questo libro a tutti quelli che,
prima ancora che scrivere per se stessi, scrivono per essere letti. Lo segnalo,
comunque, perché contiene verità molto spesso taciute dai media. E, in
particolare, segnalo l’ultima parte (“Il racconto in uno spicchio d’aglio”),
dove Kapuściński dialoga con John Berger. E, l’avrete compreso, il cinismo non
genera mai buon giornalismo. Meditate!