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martedì 4 maggio 2010

Angeli a pezzi di Dan Fante (Marcos y Marcos). Intervento di Vito Antonio Conte




















Torno a dire di libri, dopo un po' d'assenza. Ho avuto altro da fare che scrivere recensioni. Intanto, tra tutto quell'altro, solita refrattarietà compresa, ho letto qualche libro. Quello di cui voglio parlare ora è “Angeli a pezzi” di Dan Fante (Marcos y Marcos edizioni, Collana MiniMarcos, pagine 271, € 10,00), letto per curiosità, stante la circostanza che l'Autore è figlio dell'immenso John Fante, del quale ho divorato quasi tutto quel che ha pubblicato in Italia. Del quale già (poco...) ho scritto. Incontrare figli di padri (o di madri) “importanti” nel mondo dell'arte (in generale, e della letteratura in particolare), traverso l'attività nella quale si cimentano e che già era stata del loro genitore, è sempre un fatto che nasconde insidie. È di per sé rischioso voler scrivere se il proprio padre (o la propria madre) scriveva. Se poi il genitore è stato uno dei più grandi del Novecento, la faccenda diventa ancor più complicata. Voglio dire che -sempre, almeno all'inizio- il giudizio dei lettori -quale io sono- (per non parlare dei critici, alla cui categoria mi pregio di non appartenere) deve superare qualche pregiudizio... e altro. E allora non resta che leggere. Nell'aletta della prima di copertina del libro in parola è -tra l'altro- scritto: “Un romanzo più bukowskiano di Bukowschi”. Non scherziamo! Non so chi l'abbia scritto, ma -per quel che ho letto- mi sembra un'emerita stronzata. Poi, sull'altra aletta (della quarta di copertina) leggo: “I suoi romanzi sono ballate di amore e di morte, come lo erano quelli di Bukowschi e come lo sono stati quelli di suo padre”. Il giudizio è di Fernanda Pivano (tratto dal Corriere della Sera). Ora, con tutto il rispetto e la stima per Fernanda Pivano e per quanto di meritorio ha fatto per la divulgazione della letteratura (soprattutto per gli scrittori della Beat Generation...) in Italia e con la personale diffidenza di cui sopra, il paragone mi sembra davvero esagerato. E quel che dico vale evidentemente per quella minima conoscenza che ho di Dan Fante, limitata alla lettura -appunto- di “Angeli a pezzi”. Un romanzo pulp, all'apparenza molto autobiografico, scritto in prima persona, il cui incipit pretenzioso (“Mi chiamo Bruno Dante e vi racconto come andarono veramente le cose”) appare essere mera trovata letteraria in quanto il seguito della narrazione non mantiene la promessa iniziale. Quanto meno, non la rispetta sino in fondo. Le vicende del libro sono note per chi conosce la vita di John Fante e, in particolare, i suoi ultimi anni e sa cosa restava (fisicamente) di lui. Ridotto pressoché a un tronco umano, ormai cieco, alle prese con cure di nessun effetto e con la nolontà di morire, nonostante tutto. Anche i suoi rapporti con la moglie e con i figli (compreso Dan) sono noti. La “novità” che questo libro dà è la versione di Dan Fante del suo rapporto col padre. Non mi è piaciuto per niente il dare nomi diversi da quelli reali ai personaggi realmente esistiti, riconoscibilissimi nel libro e proprio per questo m'è sembrata veramente ultronea tale scelta. Ma trattasi di romanzo e tant'è. M'è piaciuta di più la narrazione e il linguaggio utilizzato dall'Autore: la prima semplice e efficace, che rende scorrevole il romanzo, intrigando il lettore; il secondo molto concreto, decisamente vicino all'oralità del racconto che consente di vivere le scene evocate dalle parole come fosse un film, senza per questo intendendo dire che la scrittura è vicina alla forma della sceneggiatura. Tali caratteristiche sono quelle che più avvicinano la scrittura di Dan Fante a quella dei su citati John Fante e Charles Bukowski, senza però contenerne la forza, la poesia, l'immediatezza, la potenza, l'aspetto eversivo che -nella letteratura- hanno avuto (soltanto per citare un paio di titoli) “Chiedi alla polvere” di John e “L'amore è un cane che viene dall'inferno” di Hanks. Lo stile è quello, ma proprio per questo la scrittura di Dan Fante sembra più quella di un epigono che quella di uno scrittore che smuove qualcosa nel dejà vu del genere. “Sapevo che se non bevevo, avrei potuto scrivere di nuovo.”, dice Dan Fante nellultima pagina del romanzo, dopo aver creato qualcosa di buono. Ma, come per quasi tutte le cose, la risposta la darà il Tempo. Per quel che potrò, mi terrò informato. Sperando che oltre a scrivere di nuovo, Dan Fante scriva anche qualcosa di nuovo.


domenica 2 maggio 2010

Il libro del giorno: Sopravvivere alla crisi di Jacques Attali (Fazi)



















"Un giorno o l'altro questa crisi si concluderà, come tutte le altre, lasciando dietro di sé innumerevoli vittime e qualche raro vincitore. Ma ciascuno di noi potrebbe anche uscirne in uno stato di gran lunga migliore di quello con cui ci siamo entrati. Questo a patto di comprenderne la logica e il percorso, di servirsi delle nuove conoscenze accumulate in vari settori, di contare soltanto su se stessi, di prendersi sul serio, di diventare attori del proprio destino e di adottare audaci strategie di sopravvivenza personale. Il mio scopo non è pertanto quello di esporre un programma politico per risolvere questa crisi e tutte quelle che seguiranno, e neppure quello di offrire vaghe generalizzazioni moraleggianti, bensì di suggerire strategie precise e concrete che permettano a ognuno di "cercare uno spiraglio nella sventura" e di sapersi destreggiare tra gli ostacoli che si presenteranno, senza affidarsi ad altri per sopravvivere, per vivere meglio". Dopo aver analizzato il crac del 2008 e le sue cause socioeconomiche nel precedente saggio "La crisi, e poi?", Jacques Attali estende ora la sua riflessione alle fasi cruciali della vita personale e collettiva. In una realtà complessa come quella di oggi, però, diventa sempre più arduo superare le difficoltà che incontriamo nel nostro cammino. Per questo l'autore individua sette principi da applicare, di volta in volta, di fronte alle avversità, siano esse di natura macroeconomica internazionale (la crisi finanziaria) o privata (la fine di un amore).

Il buon ladro di Hannah Tinti (Einaudi)



















New England. Metà del XIX secolo. Ren orfano in una comunità di protestanti alla “veneranda” età di undici anni, aspetta che qualcuno lo adotti, nella speranza di poter evitare l’arruolamento coatto nell'esercito. Il ragazzino scopre nel frattempo di avere un talento innato che lo rende diverso e per certi aspetti speciale rispetto agli altri coetanei: una spiccata abilità per il furto. Quando un uomo che sostiene di essere il fratello, tal Benjamin Nab, si presenta al convento di Saint Anthony dove Ren aveva trovato dimora e una certa stabilità, reclamandolo dunque in qualità di parente più stretto, ecco che per questo giovane “Lupin” cominceranno una serie di peripezie singolari, stravolgenti, avvincenti che lo metteranno sempre e comunque nelle condizioni di mettere a frutto il suo "dono".

A questo si aggiunga che le circostanze in cui Ren potrà dare il meglio di sé sono il frutto della scaltra architettura “scenica” messa in moto da Benjamin, e dallo sgangherato Tom. Una serie di piccole rappresentazioni teatrali come nella migliore tradizione western, piene zeppe di pozioni miracolose, esibizioni maldestre giusto adatte a prendersi gioco dei più gonzi, fino all'esumazione di cadaveri da rivendere agli ospedali per qualche “dollaro” in più. In una di queste squallide sortite Ren conoscerà il mastodontico Dolly, assassino letteralmente ritornato dall’aldilà. Insomma una piccola truppa di squinternati che aiuteranno il ragazzino ad andare incontro al suo destino nella città di North Umbrage, sotto l'ombra dell'enorme e tetra ciminiera della fabbrica di trappole per topi dello spietato contrabbandiere McGinty e dei suoi scagnozzi in cappello e guanti rossi. Libro splendido questo di Hannah Tinti, dal titolo “Il buon ladro” edito da Einaudi, che va oltre un Charles Dickens o un Mark Twain, vuoi per eleganza che per contenuti. Che sia stato in madrepatria (negli U.S.A.) considerato nel 2008 uno dei libri più stuzzicanti o che sia stato pluripremiato potrebbe essere un incentivo in più per comprarlo. Ma vi dico che in questo caso, basta leggerlo, gustarlo, e il sogno sarà a vostra portata.

Il libro del giorno: Glister di John Burnside (Fazi editore)




















L'Innertown è un desolato centro postindustriale, avvolto da una vegetazione fitta e malata. La città è cresciuta attorno allo stabilimento chimico e, ora che l'azienda ha chiuso i battenti, si è trasformata nell'ombra di se stessa. Laddove vivevano operai e persone comuni germogliano strane forme di vita. L'aria, le case, l'acqua: tutto è oscuro, intossicato. In questa terra vuota e spoglia l'ex complesso chimico torreggia, come un catalizzatore di luci e di ombre, tra i fusti contorti del bosco avvelenato; i ragazzi, la notte, vi si aggirano furtivi. Tra loro c'è Léonard, un quindicenne che alla solitudine e la desolazione del luogo e alle violenze della sua scatenata gang di amici oppone la fragile protezione della letteratura, da Proust a Conrad a Fitzgerald. E c'è Morrison, il solo poliziotto dell'Innertown, l'uomo che un giorno, in una caverna vegetale adorna come un altare, ha scoperto il corpo legato e straziato di un adolescente. Di fronte a quel corpo oltraggiato Morrison ha accettato d'insabbiare l'inchiesta, lasciando credere che il ragazzo fosse fuggito: e così gli altri fanciulli scomparsi dopo di lui, uno dopo l'altro, un anno dopo l'altro. Glister è molte cose insieme. È un'intelligente metafora sulla paralisi del mondo industrializzato, di un'umanità alienata dalla realtà delle cose, delle anime prosciugate e recise dall'indifferenza per il dolore altrui. Introduzione di Irvine Welsh.

Azzeccare i cavalli vincenti di Charles Bukowski (Feltrinelli). Intervento di Vito Antonio Conte















“Azzeccare i cavalli vincenti” è l'ultimo titolo degli sterminati scritti di Charles Bukowski, uscito nel novembre dello scorso anno per i tipi di Feltrinelli Edizioni nella Collana “Canguri”. Si tratta di trentasei “pezzi” pubblicati (Buk vivente) su riviste, fanzine e giornali underground (tra cui “Portfolio”, “Story”, “L.A. Free Press”, “Open City”, High Times”, “Small Press Review”, dal 1946 al 1994) e ora ottimamente raccolti da David Stephen Calonne, curatore del libro. Del Bukowski poeta e scrittore in prosa questi “pezzi” hanno lo stile e il linguaggio, riconoscibilissimi, ché la scrittura di Hank è inconfondibile tanto è unica. Il pregio di questo libro è che, traverso gli inediti che contiene, rivela qualcosa in più (semmai occorresse) sulla versatilità creativa della incalcolabile opera bukowskiana, così vasta che -allo stato- non esiste una bibliografia completa di tutti i lavori di Bukowski. In questa raccolta si possono leggere racconti brevi, recensioni a libri di altri autori, brevi saggi e veri e propri manifesti sulla sua poesia. Tutti e trentasei i “pezzi” sono altrettanti piccoli capolavori e dopo le duecentosessantanove potentissime pagine del libro la sensazione più evidente (OLTRE TUTTO... CH'È MOLTO ALTRO...) è quella di piena soddisfazione per i diciassette € spesi (CHE IN QUESTI TEMPI DI CARENZE NON È POCO!), in uno al fatto di sapere che di Hank c'è ancora tanta scrittura inedita... Per quanto dopo questa premessa possa sembrare inutile esercizio segnalare qualche “pezzo” in particolare, meritano una nota a parte quello che dà il titolo al libro, “AZZECCARE I CAVALLI VINCENTI (Come vincere all'ippodromo o almeno come riprendersi i propri soldi)”, nonché “IN DIFESA DI UN CERTO TIPO DI POESIA, DI UN CERTO TIPO DI ESISTENZA, DI UN CERTO TIPO DI CREATURA FATTA DI CARNE E OSSA E SANGUE CHE UN GIORNO MORIRA'” e “INCONTRO IL MAESTRO” . Nel primo c'è il Bukowski delle corse di cavalli, a suo perfetto agio nell'ambiente dell'ippodromo con tutti i personaggi che lo frequentano (e che lui ignora osservandoli), che tanta sua scrittura ha ispirato.

Qui c'è il tentativo di dare delle regole all'azzardo, ché non sia -puntare su un cavallo-l'ennesimo modo per farsi fottere (dal gioco come dalla morte). "In difesa di un certo tipo di poesia...” è uno scritto che sembra un manifesto del comecazzovannolecoseporcodiooggigiorno, tanto è attuale nella sua causticità.

Il tema è quello più caro a Buk: vivere fuori da qualsiasi omologazione, seguendo il proprio istinto, le proprie passioni, il proprio pensiero. Cito stralci: “Abbiamo avuto alcuni buoni insegnanti nelle Arti. E alcuni scadenti. Ma nella storia delle nazioni tutti i leader dei secoli passati, i nostri leader politici, sono stati cattivi insegnanti e ci hanno condotto all'odierno vicolo quasi cieco. I nostri capi di stato evidentemente sono stati malvagi, ottusi e stupidi... perché per governare il popolo morto i nostri cosiddetti leader hanno dovuto pronunciare parole morte e predicare azioni morte (e la guerra è una di queste) per essere capiti da menti morte. La storia... non ci ha lasciato nulla se non sangue e tortura e rovina -perfino ora dopo quasi duemila anni di cultura semicristiana le strade sono piene di ubriachi e di poveri e di morti di fame e di assassini e di polizia e di invalidi solitari, e quelli che nascono oggi vengono schiaffati in mezzo a tutta questa merda- la Società. Non so se sarà possibile salvare il mondo; bisognerebbe che ci fosse una tremenda inversione di marcia, il che è quasi impossibile. Ma se non possiamo salvare il modo, allora per lo meno diteci in cosa consiste, dove siamo. Ci sono tanti, tanti salvatori del mondo. Quasi quanti se ne possono trovare morti. E, sfortunatamente, quasi tutti i salvatori del mondo sono già morti. Essendosi dimenticati, strada facendo, di salvare se stessi. Il che ci porta dritti a quella parola sporca, POESIA”. Buk considera sporca la poesia scritta dai professori universitari che identifica nei centri di potere delle lettere e, in generale, quella che è un mondo sicuro e un mezzo sicuro, quella che tratta di tutte le cose che non contano, quella che nel loro mondo è come un conto in banca. Quella di quel professore d'inglese che -in una delle sue lezioni- avrebbe detto “qualcosa del tipo: . Questa (prosegue Henry) è stata interpretata come una frase molto profonda e arguta, colma di saggezza, ma naturalmente si trattava semplicemente di una frase rubata, una frase che anni fa si diceva a ogni angolo di strada, e quindi, in questo caso, il tizio è un fottuto plagiario da due soldi. I suoi problemi non sono i miei problemi. Ha scelto di contrastare i problemi e di morire. Io ho scelto i problemi e di vivere la vita”. (…) Henry sputa tutto il veleno servito in calici d'oro da quei cosiddetti poeti (accademici e non) che hanno perso di vista la finalità della scrittura, ossia LA VITA e “derubano spudoratamente dei poveri figli di puttana nel nome altisonante del Progresso e del Profitto... Noi, che scriviamo la poesia della Vita, molti di noi sono piuttosto stufi e tristi e nauseati e quasi sconfitti (ma non del tutto). Eppure sappiamo bene che non abbiamo bisogno che Dio sia divino, che non abbiamo bisogno di versi fioriti per essere Salvati, che non abbiamo bisogno della Guerra per essere Liberi, che non abbiamo bisogno di ammirare i Creeley, che non abbiamo bisogno dei Ginsberg che cadono in farneticanti stranezze, ma forse abbiamo bisogno di piccole lacrime... capite che non sto sostenendo che tutto ciò che scrivo è ... pochi uomini come me hanno fatto una scelta, con o senza talento, siamo stufi del continuo gioco della morte... VIVERE? Già, vivere, la cosa che ci accomuna tutti, voi morti viventi e noi vivi viventi. Il mondo della poesia attira certi coglioni tremendi. La maggior parte dei coglioni tremendi... Siamo le farfalle di una brutta estate. E allora, 'fanculo, questo articolo è tuttora in difesa della poesia e contro certe forme considerate poesia e vita. Molti di noi non ce la fanno, ma grazie alla buona sorte e, oh mio dio, all'amore, molti in un modo o nell'altro ce la fanno...”. Cos'altro aggiungere? Una volta ho scritto (oltre a averlo detto ripetutamente) che posso leggere di tutto e di più, sino alla nausea, sino al vomito, e posso starmene -per refrattarietà- senza ascoltare e sentire e leggere nulla per settimane, ma quando i miei occhi incontrano Charles, ogni volta, la sua scrittura mi riconcilia con la letteratura e col mondo. Poi, qualcuno (non ricordo più chi) mi ha chiesto: perché? La mia risposta è stata: trovalo da te: leggilo! E, se oltre a quanto sopra, servisse ancora spiegare perché, provate a intuire chi -il vecchio Hank- considerava suo Maestro. “Incontro il Maestro” è uno dei più bei racconti di Henry: è noto che Bukowski ha letto moltissimo e che -in particolare- di tutti i poeti e gli scrittori del suo Tempo aveva (tranne rare eccezioni) ben poca considerazione. Per dirla con Hank “Centinaia di scrittori conosciuti e centinaia di sconosciuti... E mi facevano male perché a volte era roba buona, ma a singhiozzo, a scatti qua e là, per poi ricadere nella pesante monotonia letteraria. Questo era molto più che avvilente, perché significava che secoli, SECOLI di letteratura e di scrittori avevano fatto fiasco con me. O almeno avevano fallito nel darmi quello di cui avevo bisogno nelle loro opere. Ma, come stavo dicendo, proprio quel pomeriggio stavo perdendo come al solito la giornata prendendo i libri, aprendoli a casaccio e leggendo un paio di pagine per poi riporli sullo scaffale. A quel punto ne presi un altro a caso... Aprii una pagina aspetandomi il solito, e invece le parole, sì, le parole, mi saltarono addosso, proprio così. Balzarono dalla pagina e mi trapanarono. Le parole erano semplici, concise, e si riferivano a qualcosa che stava succedendo proprio allora! Anche il tipo di carattere sulla pagina sembrava diverso. Le parole si leggevano bene. C'erano spazi vuoti e poi parole. Le parole sembravano una voce nella stanza. Portai il libro a un tavolo e mi sedetti. Ogni pagina aveva forza. Non riuscivo a crederci. Mi pareva come se le parole potessero saltare fuori dal libro e iniziare a camminare in giro, o spiccare il volo. Avevano una forza straordinaria, erano completamente reali. Come mai quest'uomo non era mai stato citato da nessuna parte?”. Quell'uomo era John Fante! Il “pezzo” (tutto da leggere) si chiude così: “Avevo incontrato il mio idolo. Capita a pochissimi”. A me non è capitato, né può capitare più, ormai. Anche perché (nonostante questo pezzo) non ho più idoli!


sabato 1 maggio 2010

Il libro del giorno: Caino di Josè Saramago (Feltrinelli)



















A vent'anni dal "Vangelo secondo Gesù Cristo", José Saramago torna a occuparsi di religione. Se in passato il premio Nobel portoghese ci aveva dato la sua versione del Nuovo Testamento, ora si cimenta con l'Antico. E sceglie il personaggio più negativo, la personificazione biblica del male, colui che uccide suo fratello: Caino. Capovolgendo la prospettiva tradizionale, Saramago ne fa un essere umano né migliore né peggiore degli altri. Il dio che viene fuori dalla narrazione è un dio malvagio, ingiusto e invidioso, che non sa veramente quello che vuole e soprattutto non ama gli uomini. È un dio che rifiuta, apparentemente solo per capriccio e indifferenza l'offerta di Caino, provocando così l'assassinio di Abele. Il destino di Caino è quello di un picaro che viaggia a cavallo di una mula attraverso lo spazio e il tempo, in una landa desolata agli albori dell'umanità. Ora da protagonista, ora da semplice spettatore, questo avventuriero un po' mascalzone attraversa tutti gli episodi più significativi della narrazione biblica: la cacciata dall'Eden, le avventure con l'insaziabile Lilith, il sacrificio di Isacco, la costruzione della Torre di Babele, la distruzione di Sodoma, l'episodio del vitello d'oro, le prove inflitte a Giobbe, e infine la vicenda dell'arca di Noè. Riscrittura ironica e personale della Bibbia, invenzione letteraria di uno scrittore nel pieno della maturità, compone un'allegoria che mette in scena l'assurdo di un dio che appare più crudele del peggiore degli uomini.

Le perfezioni provvisorie di Gianrico Carofiglio (Sellerio). Intervento di Elisabetta Liguori

















E’ tornato in libreria: GiGi. È così che la monella di turno dell’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio appella confidenzialmente il protagonista della vicenda, evocandone le sole iniziali: Guido Guerrieri,
avvocato un po’ eroe, un po’ genio, un po’ cialtrone, al quale lo scrittore sta progressivamente abituandoci.

L’abitudine non è un dettaglio in questo romanzo.

Per quanto la Bari che Carofiglio racconta sia una città nuova, post moderna, persa tra storiche desolazioni e risorse rinnovate, è l’abitudine agrodolce a certi antichi vizi a farla da padrone. L’avidità, l’indolenza, la debolezza, l’insuccesso, la crudeltà. Siamo di fronte ad una vicenda fatta essenzialmente dai personaggi e dalle loro abitudini. Una passerella di prototipi antropologici, sintetizzati abilmente, con rapidi quanto efficaci tocchi, da una penna oramai consapevole. Il plot è semplice. Una ragazza sparisce nel nulla dopo un fine settimana trascorso con gli amici. Il caso tristemente irrisolto - inutile anche il passaggio a Chi l'ha visto? - sta per essere archiviato, ragion per cui i genitori della ragazza si recano da Guerrieri e lo pregano di tentare di individuare nuovi filoni d’indagine. Con qualche tentennamento Guerrieri accetta e comincia la caccia, mentre lungo il suo cammino investigativo si dipana un piccolo mondo. Il fallito, il truffatore, il poliziotto nobile, il padre distrutto, il collega invidioso, la perversa, il cinico, la bestia fedele. Ma il vertice della galleria è rappresentato senza dubbio da Nadia, bellezza provvisoria e vera.

Una escort d’invenzione letteraria che ha riscattato la propria libertà col mercimonio.

Animata rappresentazione del desiderio e specchio sociale di scottante attualità: è in questo profilo che l’ultimo Carofiglio dà il meglio di sé. Nell’economia di una trama che non brilla per originalità, Nadia rappresenta un guizzo dotato di autentica forza narrativa. È proprio lei ad offrire l’occasione giusta per l’intuizione che porterà alla soluzione del caso. L’intuizione dell’assenza, l’improvviso avvertimento del contrario e della mancanza, con i quali molti di noi fanno i conti di continuo, in un dichiarato richiamo a Conan Doyle. Nadia e il suo omopub, il Chelsea Hotel n.2, circoscrivono la No man’s land in cui Guerrieri si muove, meglio delle altre citazioni musicali e letterarie, delle quali il romanzo gronda. S’accendono e si spengono nella notte della narrazione come insegne a neon, facendo da contrappunto ai ricordi del passato e ai tic nei quali l’avvocato si smarrisce. Ma lo scrittore seriale è spesso animale abitudinario, rischia col tempo di finire ad imitare solo se stesso. Come un serial killer si piace a volte più del necessario. Per quanto la maestria narrativa di Gianrico Carofiglio sia oggi indiscutibile (il ritmo della storia sempre e comunque riesce ad avvincere il lettore in una sorta di estatica allegria) è proprio il titolo di questo romanzo a doverci mettere in allarme. La perfezione non dura. La perfezione come la bellezza sorprende. È il frammento rubato di una mutazione costante, ragion per cui alla perfezione non ci si può abituare. L’avvocato Guerrieri ritrova di rado quella perfezione, poiché, forse troppo preso dalla piacioneria, dalla vanità, dalle abitudini, sembra aver smesso di cercarla veramente.

venerdì 30 aprile 2010

Il libro del giorno: Un colpo di vento di Ferdinand Von Schirach (Longanesi)



















Cosa spinge uno stimato e irreprensibile medico di paese ad ammazzare la moglie a colpi d’ascia dopo quarant’anni di matrimonio? E come si può consumare un delitto tanto efferato in un’atmosfera di calma apparente? Muove da qui il racconto di Ferdinand von Schirach, da situazioni di normalità in cui un colpo di vento può scatenare una follia criminale.
Dalla sua posizione privilegiata di avvocato penalista, l’autore osserva quotidianamente gli orrori e le violenze della vita di tutti i giorni. Spacciatori, prostitute, skinhead, ma anche famiglie aristocratiche, ricchi uomini d’affari e insospettabili guardiani di museo diventano così i protagonisti di vicende semplicemente inspiegabili dalla ragione.
L’avvocato von Schirach rivela un eccezionale talento narrativo: entrando in punta di piedi nelle vicende che racconta, riesce a mostrarcele sotto una nuova luce, invitandoci a rivedere i pregiudizi sui criminali e sulle cause delle loro azioni, e a riflettere sul labile confine fra il bene e il male.

giovedì 29 aprile 2010

La versione di Barney di Mordecai Richler (Adelphi). Intervento di Vito Antonio Conte



















Finalmente, dopo averne sentito parlare da pochi buoni (di là delle recensioni e del clamore mediatico che c'è stato), ho conosciuto da vicino Mordecai Richler, traverso il suo libro (ormai cult) “La versione di Barney” (Adelphi Edizioni, Collana “Gli Adelphi”, pagine 484, € 12,00), che mi ha regalato momenti di solitarie incontenibili risate e tristezze sino al pianto. Mordecai Riclher nasce nel 1931 a Montreal (nel ghetto ebraico di Rue Saint Urbain -che ispirò molti dei suoi libri, tra cui quello noto come “St. Urbain Street”) e, dopo una vita fatta di lavoretti part-time, i primi studi, l'abbandono dell'ortodossia e della fede religiosa in generale, un primo viaggio in Europa (visse -prima- in Francia e -poi- in Spagna), il ritorno in Canada, un altro viaggio in Europa (Londra), il matrimonio e tre figli, il ritorno definitivo (nel 1972) in Canada, dove visse fino a settantanni. Autore di numerosi romanzi, scrisse anche libri per bambini, sceneggiature (lavorando per il cinema e la televisione) e fu prolifico giornalista, lavorando anche in radio. “La versione di Barney” è stato un successo mondiale. In Italia (nel 2001) è divenuto un caso letterario (con più di 100.000 copie vendute). Nell'estate dello scorso anno, a Roma, c'è stato il via alle riprese della trasposizione cinematografica del romanzo (regia di Richard J. Lewis, protagonista Paul Giamatti, con Dustin Hoffman nei panni del padre di Barney). Il romanzo è esilarante e struggente insieme, strutturato in tre parti: una per ciascuna delle tre mogli di Barney Panofsky. La prima, la pittrice Clara Charnofsky, suicidatasi a Parigi, dopo una vita costantemente borderline. La seconda signora Panofsky è una donna di agiatissima condizione sociale che Barney sposa senza un esatto perché e che, il giorno stesso delle nozze, comprende essere stato un errore, tant'è che alla cerimonia di nozze s'innamora di quella che sarà il suo vero grande amore, Miriam, dalla quale avrà tre figli (Michael, Saul e Kate). Queste brevi note sulla vita di Mordecai Richler e sul personaggio Barney Panofsky (tra le tante rinvenibili) sembrano immagini speculari, tant'è che molti hanno visto in Panofsky l'alter ego dell'Autore. Vi è che il romanzo è autobiografico, pur con i limiti precisati dallo stesso Autore in un'intervista rilasciata nel 2000 a Federica Velonà di Radio Tre. Ma se è vero che Mordecai non è stato sposato tre volte, suo padre non era un poliziotto e non è stato accusato di omicidio, come accade a Panofsky, è altrettanto vero (per stessa ammissione dell'Autore) che l'identificazione tra Barney e Richler è quasi violenta tant'è forte. Barney è, come lo definisce la sua terza moglie, un “collezionista di rancori”, che fuma troppi sigari Montecristo e vuota troppe bottiglie di Macallan, prendendosi gioco di tutto e di tutti con il cinismo tipico del ricco arrivato (senza essere snob...), che non risparmia giudizi su nessuno, condendo le parole di quell'umorismo nero che rendono quei giudizi politicamente scorretti, sì da rendersi antipatico ai più. Nella narrazione, infatti, emergono progressivamente tutti i difetti di Barney (ruvido, sadico, cinico, vile, opportunista...), ma -in maniera altrettanto potente- vien fuori tutta l'umanità del protagonista del libro (severo con se stesso non meno che con gli altri, con lo sguardo scevro da condizionamenti verso la vita e la morte, capace di grande amore e umile nel riconoscere e ammettere i propri fallimenti...), che ne fanno un personaggio costantemente in bilico tra un terribile burlone che non esita a schernire i sentimenti altrui e una gran bella persona capace di giocare e mettere in gioco i suoi stessi sentimenti. Il tutto con un linguaggio che definire -come ho detto- esilarante è riduttivo. Un linguaggio fatto di pause, di reiterazioni, di citazioni, di richiami e di rimandi continui, a caratterizzare l'importanza della memoria e la sua perdita. Panofsky, infatti, è malato di Alzheimer e questa invenzione dell'Autore in un personaggio molto colto (com'è Barney) s'addice pienamente a quella ch'è la nota predominante dello stile di Richler, ossia il progressivo abbandono dell'organizzazione cronologica della trama del romanzo con infinite digressioni, che mai appesantiscono la storia. Ciò che dà modo all'Autore di spaziare temporalmente attraverso la storia principale con grande libertà inserendo nella narrazione (con dei flashback apparentemente disordinati) una miriade di personaggi e le loro storie. “La versione di Barney”, così, è narrazione delle vicende di Panofsky (fisicamente provato dagli acciacchi della vecchiaia, senza l'unica donna che ha amato -e continua a amare- follemente, consumatore incallito di sigari e whisky) e di quelle dei personaggi che -comunque- con lui hanno interagito e interagiscono (in una giostra di ricordi d'un vissuto straordinariamente ricco d'eventi), ma anche racconto di altre storie parallele. Come dev'essere una vita vera, degna di tal nome. Razionale, folle e romantica.

Il libro del giorno: FRANCESCO BACCINI. TI PRESTO UN PO' DI QUESTA VITA a cura di Marzio Angiolani e Andrea Podestà (Zona editrice)




















E' la prima volta che Francesco Baccini si racconta così a lungo. Tanto a lungo che c'è voluto un libro intero per raccogliere tutto ciò che ha detto a Marzio Angiolani e Andrea Podestà. Tutti e tre genovesi, hanno familiarizzato subito: gran parte delle conversazioni contenute in questo libro s'è svolta nel soggiorno di casa Baccini. L'incontro galeotto - fra i tre - fu a Trezzano sul Naviglio, in occasione di un concerto. Angiolani e Podestà - due che di musica ne masticano bene, e parecchio - chiesero a Francesco un'intervista. In realtà quell'intervista è finita alcuni mesi e molte chiacchiere dopo. "Quel che abbiamo fatto è stato farci prestare un po' delle sue parole, inseguire i versi delle sue canzoni e le pieghe della sua voce, accompagnarlo in un viaggio nei suoi ricordi e negli sguardi verso il futuro, in quel groviglio di amore, musica, cinema e testi che è la sua carriera".
Una carriera lunga vent'anni, e in questo 2010 si festeggia. Insieme a questo libro, il nuovo disco "Ci devi fare un goal" (Sugar Music), antologia dei suoi maggiori successi più due inediti, e tanti nuovi progetti per il cantautore genovese.
Dentro a ogni uomo, si sa, si combatte continuamente una guerra. Dentro a ogni uomo si scatenano tempeste, si scontrano desideri e volontà, cuore e ragione, bene e male.
Ci crediamo Uno e invece siamo una moltitudine. Un guazzabuglio di “persone” dentro di noi che cercano a turno di prevalere le une sulle altre. Subpersonalità le chiamerebbe Jung, Omini – più prosaicamente – li chiama Francesco Baccini. Come degli spiritelli (... E io che sono uno spirito maligno/ mi muovo di notte con l’istinto di un vampiro...) si divertono a dire la loro, a prendere il controllo, a tirare brutti scherzi.
E se tutto questo accade dentro a ogni uomo, immaginate cosa possa essere l’animo di chi passa la vita a inventare storie, a darsi nuovi nomi, a interpretare altri ruoli, e a raccontare, sempre, a raccontare in prima persona, nascosto dietro al pianoforte, nascosto dietro quell’Io che è di qualcun altro...

mercoledì 28 aprile 2010

Assalto a un tempo devastato e vile. Versione 3.0, di Giuseppe Genna (Minimum Fax ). Intervento di Nunzio Festa

















Non sono sicuramente tra quelli che corrono appena sentono d’una nuova uscita di Wu Ming, ma ho molto apprezzato “Assalto a un tempo devastato e vile”. Dicevamo prima di Wu Ming, in quanto, e solamente per ciò che so, alla fine per un pizzico d’affinità vera e cruda esiste davvero tra Wu Ming e Giuseppe Genna. Ma lasciamo stare. Per ripartire, più utilmente, dalla nuova edizione (o versione, se piace maggiormente all’autore) del corposo – nonostante la mole non eccessiva per un volume di ‘genere’ – impianto – struttura – motivo di fondo del “genere” che abbiamo davanti agli occhi ugualmente rovinati dal tempo che rovina. Lo scrittore milanese avvisa in una nota, tanto per cominciare, e approfittiamo dell’angolo da noi creato per dire che ha scelto decisamente bene scegliendo d’entrare come autore in Minimum Fax, che “la presente costituisce la terza edizione presso un terzo editore, in un arco di otto anni (ma a un decennio dal momento in cui fu sottoposto al giudizio di varie case editrici), di ‘Assalto a un tempo devastato e vile’: al tempo stesso, il mio libro d’esordio e il mio libro finale. Il primo nucleo, pubblicato presso peQuod nel 2001, è stato terminato nel 1999, e si conclude con l’explicit dopo il testo ‘Ciò che resta’. La seconda edizione, presso Mondadori nel 2002, ha portato all’aggiunta del testo ‘Questo è il martirio del Santo Me’. Ora, a distanza di dieci anni dalla prima stesura, in forza delle mutazioni personali e di scrittura, è stata aggiunta una ulteriore costellazione di testi, la quale non comparirebbe tale senza il decisivo consiglio di Christian Raimo (editor aggiornatissimo sempre e sempre attentissimo, ndr), a cui sono inimmaginabilmente grato. Ritengo importante precisare che il libro, nella forma attuale, si autocostituisce come non definitivo”. Da una premessa e da tratti di spiegazione del tipo ascoltato, non ci si sarebbe potuto che aspettare almeno buona parte della successiva lettura. Innanzitutto, occorre specificare, il libro distorce i canoni del romanzo solamente perché si serve per diverse pozioni di testo di forme diverse: dal racconto al reportage finanche al saggio. Non a caso, già anni or sono il libro fu definito “l’opera cult di Giuseppe Genna” e che “fece gridare alla nascita di una voce potente e originale delle letteratura italiana”. Attualmente, precisiamo noi, e per me fortunatamente, in un certo senso, invece il lavoro non incontra (almeno per adesso) le sirene della critica. Buon segnale, forse. Incoraggiante: potrebbe essere. In contemporanea, addirittura alcune e alcuni provano a dare stroncature di diversa costituzione. Ad avviso di chi scrive, tanto per cominciare, la pesantezza d’alcuni momenti – però molto significativi – è il giusto e sacrosanto pegno, da lettore, che si deve pagare se veramente si vuole leggere d’infiltrazioni nella società che a loro volta sono capaci d’infiltrarsi nella nostra fasulla tranquillità. Non è, cosa che ci pare ovvia, per rispondere d’altronde al lancio di copertina se ci permettiamo di ribadire come, vedi per Milano, Genna riesca a spulciare pagine amare della metropoli consumata dalla morte lenta per veleni. A emblema, ma sempre aiutati da altri segni, di tanti altri e a volte simili spazi urbani e inumani. L’opera presenta tanti punti sui quali per correttezza ci si dovrebbe soffermare. Prima per riflettere. E poi per invitare a riflettere su noi italioti che siamo in transito a favore di Libero e del Giornale, di Repubblica e della Lega e di Caltagirone e di Fini e di Casini. Nella constatazione, a forza di presenza concreta, dei beni e dei desideri dei potenti. Però ricordiamo, almeno, gli originali titoli dei paragrafi: Assalto a un tempo devastato e vile, Radiazioni dall’epoca del trauma, Zona padre, Noi supereremo le soglie di qualunque universo sia senziente. Per analizzare, per dovere di data, magari, un brano: “Gadal scarica e carica con Francesco. Francesco ha tre figli, una moglie, il mutuo da un milione al mese per la casa, le rate di trecentomila lire per la macchina. La macchina gli serve: ci dorme dentro. Smonta alle tre di mattina, dorme quattro ore in macchina, poi va in un’officina. Alle otto è di nuovo nel padiglione. Il venerdì notte prende la macchina e va a Gallarate, dove sta la famiglia. Lunedì ricomincia”. Anzi, un altro: “Ricordo il primo premier ex comunista della storia d’Italia, che fece il ’68 essendo allievo alla Normale di Pisa nella foto bianconera con il dolcevita sotto la giacca e chi sa quale gelido sogno, e dice il sì alla guerra di là dell’Adriatico e giustifica il sì con sillogismi che innalzano onde anomale di vergogna umana e di sangue altrettanto umano”. Un libro pazzesco di tempi pazzeschi. Per certi argomenti persino anticipatore d’analisi, o portatore di ‘profezie’ si diceva una volta. Lo stile di Genna viaggia tra la descrizione assoluta e perfettamente fedele incastonata in situazioni paratattiche o strappi, di contro e addirittura, che spingono sulla scia del teatro evocativo. Un linguaggio, quindi, parola su parola destinato all’evocazione. Con mezzo di stilettate tondeggianti. Dove, infine, l’impegno di scrittura è tutto frutto della causa civile dell’opera. Titolo più giusto, dunque, non si sarebbe potuto trovare. Il retroterra di Giuseppe Genna si sposa con un mutamento dei tempi che sconquassano la gestione delle vite di tutte e tutti.

Il libro del giorno: Io innalzo fiammiferi di Irene Leo (LietoColle)




















Io innalzo fiammiferi non è una raccolta di testi, ma un libro che obbedisce a una struttura ve­getale, a delle nervature come quelle delle foglie. Intorno a cose inanimate come ossa, vetro, cucchiaino, ruotano aria, luci marine. Si sente che chi scrive ha fatto i conti con lo spazio, con la memoria. Irene Ester Leo usa metafore audaci ma non arbitrarie. Se il suo linguaggio sfiora i mistici è perché quel lessico è il mezzo che ha a disposizione per dire l'assenza. In realtà i suoi versi più belli splendono di un calore orizzontale, frontale, consapevoli del fatto che "è tutto una questione di luce". Se c'è rivelazione è del corpo e del paesaggio. Se c'è un presagio non è oscuro. Ci sono "lacci" è vero ma sono "vivi": come quelli dell'uva.

dalla prefazione di Antonella Anedda


L'ho vista piangere in un'alba rossa di fuoco, mentre declinava il capo avvilita. Pochi prescelti ascoltano la sua verità e la portano in braccio, altri ne fanno triste bandiera. Ora che anche io sono un po' morta con lei, chiedo di rinascere bruco, per andare a cercarla nei luoghi più bassi, nel carbone più nero dei semplici, tra le carte gialle di una dimenticanza, o negli scaffali di una mensola buia, nella coerenza di chi non ha mezzi termini, e nelle parole più spigolose e graffiate. Nel dettaglio del sale unto di olio e di vita, tra le calze distrutte di un uomo, che ha messo le sue scarpe al sole nei pressi della strada più ricca. Nella pioggia, sì nella pioggia acida della vendetta di madre, nel buio che avvolge tra le lenzuola il sonno la notte, respirandosi addosso. Sarò così in basso, che sotto di me sentirò solo l'inferno incalzare, sarò così strisciante che le mie costole saranno orizzonti a metà. Sì. La cercherò in tutti gli angoli disprezzati, nelle mie mancanze, nelle assenze. Lascerò ad altri il gusto del volo e la sua leggiadra bellezza vacante. La seguirò ovunque mi chiamerà... seguirò solo la Sua voce. E ne farò Luce. Ma non fermatemi. Sto cercandomi. Sto cercandola. Non fermatela. È 'solo' Poesia, ma ben presto tornerà ancora, e si farà carne. La vedo, la vedo quasi che (come scrisse S. Toma) si torce al riflesso di un miraggio / insegna la favola più antica.

Irene Ester Leo


Dogma
Quanto più leggermi è diventare straniera alle perline di pietra,
collana pesante da legare all'andatura,
quanto più rivolto la pelle, che è sotto il sangue coi suoi lacci vivi,
fino a sentire tirare le gambe e le nocche, arricciarsi le pupille,
sfilacciarsi i polmoni,
secernere anima collosa,
quanto più mi decompongo queste ossa in azzardi
e li ricerco in tessere affinate alla Rubik,
quando mi apro la gola per vomitare fuori
un fiamma erosiva,
quando mi avvicina alla morte
ed infierisce con un cucchiaino freddo
infilato tra le costole pregustandosi me,
solo allora io segno
la sua verità.


Presagio

La polvere è l'ansia della spina
che cade piano dentro le cose morte,
prima dell'affondamento nella voce.
Ho ingoiato tutta la tua polvere
lungo il passo incerto spogliato,
ma negli occhi solo ora nacquero
appena tu le scartasti con parole a punta,
rose dal bouquet lungo,
omologate ai sensi altrui.

Assenzio

Se l'acqua lava ciò che penso,
forse un iris nasce tra quel fango, dopo.
Chiara la notte senza sangue e corpo, a volte
è la mia mano,
pesante lama che ti offende mio amato sempre.
Ma non c'è occhio cieco tra le ciglia del grano morto,
l'onda ferrosa della vita attanaglia la lingua
ed io lo so che tutto è.
Da quassù le orme dell'invisibile
sono mie.
Stelle laconiche di tempo
abbottonate tutte sulle maniche.
Spilli che reggono il gioco della prossima estate.


IRENE LEO - Classe 1980. Ha esordito "ufficialmente" nel 2006 con "Canto Blues alla deriva", Besa editrice. È presente su "Tabula rasa 05", rivista di letteratura invisibile nella sezione Poesia e su alcune antologie, tra cui "Verba Agrestia" 2008 e 2009 e "Il segreto delle fragole" 2009 , entrambe LietoColle edizioni.
Nel 2007 ha ricevuto dal Teatro di Musica e Poesia "L'Arciliuto"di Roma il riconoscimento in "Kagolokatia".
Sue liriche sono state recentemente inserite nella rivista letteraria "Incroci" diretta da Lino Angiuli e Raffaele Nigro, giugno 2009, Mario Adda Editore.
Collabora con il quotidiano" Il Paese Nuovo" per la pagina culturale.
Ha pubblicato "Sudapest" (Besa editrice, 2009).

Cacciatrice di rumori tratto da Forse tu sì. Storie minimali di Francesca Bertoldi (Lab - Giulio Perrone editore)





















È il primo settembre che passo qui, camminando con due buste della spesa tra le vie di questo quartiere popolare ricco di profumi, ricco di volti spessi carichi di storia. È quasi sera, e dopo il caldo sfibrante di questa strana estate sento il “venticello di Roma” che mi scosta una ciocca di capelli e dispettosamente mi copre gli occhi… provo a soffiare come facevo da bambina, spingendo l’aria su e sporgo il labbro inferiore, so di essere buffa e poi non mi riesce; devo fermarmi, posare un istante le buste a terra… scostare il ciuffo con la mano e in quell’istante l’odore della strada mi investe, intriso di antiche tradizioni. C’è un profumo di pane appena sfornato che si mescola a quello di un ragù che si consuma su un fornello che io immagino esiguo, modesto. Uno sciame di ragazzi mi travolge quasi, le loro risa si ammucchiano, si amalgamano impastandosi in un unico vocio danzante. È la sera che si avvicina accostandosi al giorno che muore e le cede il passo, e il quartiere si anima di giovani vite mentre le vecchie alle finestre sostano a lungo spiando la vita nuova e brontolano per il gran baccano che, ormai lo sanno, durerà fino a notte. È il primo settembre qui e settembre quest’anno mi mette la smania addosso, un’impazienza che non ha ragione, della cui origine vengo a conoscenza poco a poco e che colora tutt’intorno come con mano abile, affrescando la vita. Non era così là, nel grande appartamento immerso nel verde con l’eterno sottofondo delle cicale che fino a settembre, sbattendo le piccole ali, continuavano a “cantare” dall’alba al tramonto confortate dal caldo, fino a quando non arrivava la sera ed “attaccavano i grilli”. Non la sento più quella “musica”. Ma lo immagino a volte quel suono, e ragiono su quella casa buia, vuota, abitata da ombre e da ricordi, con i muri intrisi di parole di anni in una metafisica collisione di senso, e penso al sole che al suo rientro le renderà ancora giustizia e con la luce torneranno a stornellare le cicale anestetizzate dalla notte. Invece qua niente frinire; ma io amo i rumori della città, quelli assonnati che accompagnano l’inizio delle attività, borbottii, mormorii, sospiri e sbuffi, quelli vivaci con l’andar del giorno e quelli che accompagnano l’ingresso della sera che si accende di lampioni e quelli della notte, pungenti, acuti come lamenti. Li amo. Di più, sono ormai cacciatrice di rumori, impegnata al massimo nella cattura di ogni “esemplare”, di ogni frequenza, tendo l’orecchio agli scambi sonori, immagino il paesaggio urbano anche dietro le mie finestre chiuse e identifico i fatti che li hanno procurati. Rumori che per me sono come suoni, un’esaltante concerto di fragori. È la musica dei frastuoni questa che oggi fa da sottofondo alla mia vita, mi accordo con essi scoprendone le consonanze, l’accostamento, li combino insieme in una perfetta armonia con estrema naturalezza, modulando poi a modo mio le tonalità, ed essi rifrangono in un avvicendarsi fluido ed emergono dal silenzio più o meno chiari secondo la distanza: brusii di passi veloci, 18.19 affrettati, o schiamazzi festosi di giovani immersi nell’affollamento notturno.

Una nuova musica continuamente variabile; il suono puro, sottratto per il mio piacere e restituito al suo contesto. Il vociare si ammassa quando spengo la luce e mi sdraio. L’atmosfera è sospesa per un attimo. Poi il sonno, piano, dirada i rumori e li ingoia. E solo allora mi assale il ricordo del silenzio, e lo affido al racconto.

martedì 27 aprile 2010

Il libro del giorno: Tre donne forti di Marie NDiaye (Giunti)




















Tre destini femminili giocati fra l'Africa e l'Europa, con un esile legame tra di loro: al centro di ogni storia, la forza d'animo di una donna che riesce a sconfiggere la paura e il dubbio, l'ignoranza altrui e la propria delusione. Nella prima Norah, avvocato quarantenne che vive a Parigi, giunge a casa di suo padre a Dakar; l'uomo, un tempo tirannico ed egocentrico, si è imbozzolato in una follia silenziosa e trascorre le notti appollaiato su un albero in cortile. Tentando di penetrare nel mistero, Norah sarà assalita dai delitti e dai dolori della sua famiglia d'origine. Fanta, insegnante di francese a Dakar, deve seguire in Francia il marito Rudy. Succube di sua madre, frustrato e pieno di rabbia, l'uomo non riesce a offrire a Fanta e al figlioletto una vita soddisfacente, ma lei non si da per vinta. Khadi Demba, una giovane vedova scacciata dalla famiglia del marito, è protagonista della terza vicenda: poverissima e senza alcun sostegno, cerca di raggiungere in Francia la lontana parente Fanta; nella sua eroica esperienza di migrante, la donna sopporta ogni sorta di angheria senza perdere la propria dignità. Titolo originale: "Trois femmes puissantes" (2009). Il volume è vincitore del Premio Goncourt 200

Le conseguenze del caso di Alessandra Fiori (Piemme)



















La struttura della famiglia degli ultimi trenta anni si è andata modificando quasi completamente rispetto al modello tradizionale della famiglia italiana. Essa ha subito notevoli cambiamenti, negli ultimi 150 anni, una trasformazione radicale e profonda, innanzitutto sotto il profilo democratico. Ma quello che sta accadendo ha qualcosa di cancerogeno nel senso letterale del termine. E’ nata una nuova tipologia tumorale non fisica, che sta divorando tutto ciò che è stato sano almeno sino a un ventenio/trentennio fa: il termine precarietà sembra oggi da doversi associare a qualsiasi aspetto della vita dell’uomo e della donna, vuoi dal punto di vista della professionalità, dei sentimenti, della percezione dei ruoli, del senso del rispetto verso istituzioni laiche e religiose, dell’amore e del rispetto della vita e per la vita. E la famiglia non è esente da questa malevola e totale erosione. L'odierna realtà socioculturale presenta non poche situazioni matrimoniali difficili o irregolari. Ci si trova dunque dinanzi ad una famiglia che ha assunto su di sé il peso di convivere quotidianamente con una quantità di difficoltà tali da non riuscire più a gestirle senza incappare nel rischio della disgregazione della stessa. E all’interno di questa disgregazione, si accumulano,proprio come la polvere sotto il tappeto, segreti, e non detti che si trasformano in zone d’ombra inscalfibili da qualsiasi forza ed energia positiva. Una premessa necessaria per entrare a fondo nel bel libro di Alessandra Fiori, "Le conseguenze del caso" edito da Piemme, un libro che si fa amare per le realistiche pennellate d’ambiente e per la sua struttura ben congegnata. Ecco la storia: Chiara non desidera che starsene tranquilla nella sua casa a Fregene, giusto per rilassarsi un po’ e passare un’estate serena. Non le basta altro che avere attorno a sé i suoi cari. Fuori il caldo in agosto è terribile, e la fila di macchine sull'Aurelia fa presagire tensione e stress. Il peggio però deve ancora venire: la “fauna” estiva di Fregene, è più che retriva e ipocrita, pronta a scavare furtivamente nella vita degli altri. E nella vita di Chiara, l’ingresso della “radical-chic” Valeria, non è proprio la ciliegina sulla torta. Scoprirà per esempio, che suo marito Marcello, stregato dallo charme proibito di Valeria, non è poi un uomo così integro come faceva vedere. E lentamente, Chiara, attraverso tutte le bugie e menzogne che scoprirà presenti e ingombranti nelle sua vita, si vedrà cambiata, forse diversa.

lunedì 26 aprile 2010

Il libro del giorno: La casa senza sole di Michele Saponaro collana Novecentodaleggere curata Antonio Lucio Giannone (Lupo editore)












Per la sua rigorosa precisione espressiva e per il mirabile controllo dei mezzi capaci di suscitare la commozione, il romanzo, in numerosi passaggi, è straziante e vale, più di molti proclami e di molte facili denunce, a far comprendere in pieno la tragedia della guerra, di tutte le guerre, dell’idea della guerra in sé, anche se questo principio non può equivalere al pacifismo incondizionato né al rifiuto di prendere le armi per la patria e per la difesa della libertà e della giustizia. La vicenda, che mette il lettore in medias res fin dalla prima pagina, narrata nella forma di un diario, che va dal 2 aprile del 1915 al 1° aprile del 1916, passa attraverso gli snodi centrali dell’attesa delle lettere dal fronte e poi della loro interruzione. In un crescendo di pensieri angosciosi giungono poi, a una distanza tra di loro che mette la madre in un continuo stato di agitazione tra la speranza e il timore, i telegrammi che danno il giovane soldato prima disperso e poi caduto in combattimento.

«I giornali son pieni di esasperate descrizioni dei campi di battaglia. Perché scrivono così? Pare che trascorrano uragani di parole frenetiche sui fogli di carta. Perché parlano così della guerra?
Dicono di carne umana a brandelli, di volti umani mozzi e schiacciati, di velivoli che disseminan l’orrore sul campo avversario. Terribile semenza. Perché l’orrore? È una cosa orrenda dunque la guerra? Non basta il terrore? Non basta il dolore?»
La casa senza sole, Michele Saponaro

Storia di “Adoperabili”: il back stage visto da Giulio G. Pedaci













Il 18 settembre 2009 a Bologna, presso la galleria Oltredimore, si è tenuta la mostra del fotografo Gabriele Corni intitolata “Adoperabili” per la quale ho ricevuto l'incarico di fare la post-produzione.

Alle date bolognesi ne seguiranno altre che porteranno le opere in giro per l’Europa, fino ad approdare a New York. L’incontro con il fotografo Gabriele Corni avvenne presso il mio studio di Ritoccando il 10 Aprile 2009. C’è una bella idea di partenza che deve maturare e c’è una scadenza che deve essere rispettata: il 18 Settembre dello stesso anno. Un tempo molto breve per una mole di lavoro così ampia (16 immagini di donne quasi tutte a grandezza naturale). E’ per questo che il fotografo non si accontenta di un supporto puramente tecnico di post-produzione, ma si affida ad uno studio in grado di unire all’eccellenza tecnica, la conoscenza e sensibilita’ artistica necessaria per questa sfida. Rese le immagini, dal punto di vista compositivo, come appaiono finite, ho proceduto alla seconda fase lavorativa altrettanto complessa. In tale fase si sono presentate infatti alcune criticità: la luce della modella presentava una eccessiva esposizione in relazione al risultato che si voleva ottenere (rendendo difficile il recupero di alcuni dettagli), mentre le teste delle bambole, coi forti neri dei capelli, presentavano nei volti scarsa illuminazione e le mollette mostravano scarso volume. Una volta resa omogenea in ogni sua parte ogni immagine, sfondo compreso, ho proceduto all’ultimo passaggio: l’allineamento delle cromie di tutte le bambole affinché fossero figlie di un’unica madre.

http://www.ritoccando.com/Welcome_Page.html

I corpi neri di Shannon Burke (Isbn edizioni)



















Siamo nella Grande Mela, New York, agli inizi dei mitici e controversi anni Novanta. Ad Harlem si trova di tutto, tranne legalità e ordine. Ollie Cross non ce la fa a passare l'esame di ammissione per entrare a Medicina. Ha poco più di vent’anni. Si rimbocca le maniche e sceglie la via più difficile ovvero fare il paramedico sulle ambulanze. Le immagini di violenza e dolore sembrano susseguirsi senza esclusione di colpi nel lavoro di Ollie, in una città che mostra i suoi orrori senza ipocrisia e senza mezze parole. Ollie sembra essere, in questo libro di Shannon Burke dal titolo “I corpi neri” edito da Isbn edizioni, un medico di Emergency, che mentre fuori scoppiano bombe o i proiettili in caduta libera forano le tende degli accampamenti o sbriciolano i vetri delle finestre, salva tante vite umane. Già perché Ollie inizia, con il “partner” Rutkovski ex combattente in Vietnam, una catabasi in una zona morta della vita dove nessun uomo vorrebbe metterci piede, una zona morta dove l'altruismo, la speranza, lo spirito di solidarietà si trasformano in insensibilità e cinismo. Fino al Point Break finale. Ora devo dire che è un libro per chi ha molto “pelo” sullo stomaco, un romanzo che definire disturbante è poco, che indaga il volto più delirante di un’esistenza in grado di mandare in decomposizione anche i valori più alti. Un’opera che parla di New York, come di una città che non riesce a generare redenzione, armonia, integrità, quasi che nel suo dna abbia qualcosa di osceno e oscuro che può alimentare solo nano-universi fatti da tossicomani, malati di Aids, poliziotti deviati e devianti. Personaggi con cui il lettore non vorrebbe nulla da spartire, ma che, grazie alle gigantesche doti letterarie di Burke, si fanno apprezzare in quanto anelanti anch’essi a un pizzico di luce

domenica 25 aprile 2010

Il libro del giorno: Il giorno delle donne di Gyula Krúdy (Cavallo di Ferro)

In una giornata che dovrebbe essere come tante altre, l'impresario di pompe funebri Jànos Czifra si ritrova prima al banchetto di un matrimonio e poi in un bordello, dove assiste a una serie di scene bizzarre. La realtà, però, è che non è affatto una giornata come le altre. Infatti, poco prima di uscire, nella casa del mite impresario funebre è entrato un alito demoniaco che sarà destinato a rincontrare nel suo percorso. Gli si presenterà con il nome di Sogno, o meglio, tutti i suoi sogni sognati nel corso della vita. Accompagnato dunque da questo suo oscuro e seducente alter ego, Jànos assisterà a quanto di più esaltante e sordido può offrire il mondo. Attraverso lo sguardo di una giovane donna, che va in travaglio sola e abbandonata nella cuccia di un cane, il grigio impresario di pompe funebri, aiutato dal suo demone personale, potrà leggere il tragico racconto di quella povera vita, ma anche le storie di molti amori e altrettante terribili morti sullo sfondo di una Budapest dei primi del Novecento.

I prodotti qui in vendita sono reali, le nostre descrizioni sono un sogno

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