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mercoledì 3 febbraio 2010

Il libro del giorno: American collage Il cinema di Emile de Antonio di Federico Rossin (a c. di) per Agenzia X

Credo nel cinema come arte e lotta. Credo che il cinema possa rivelare attivamente come nessuna altra forma è in grado di fare. Credo che il cinema possa essere la cosa in sé piuttosto che qualcosa a proposito della cosa. Credo nel lavoro indipendente con il controllo totale del proprio materiale. Credo nel pubblico. Credo nella scelta.
Emile de Antonio, Movies and Me, 1974

Emile de Antonio ha raccontato come nessun altro l’America della guerra fredda in una serie di affreschi cinematografici sui sogni, le delusioni, le violenze e i desideri di un paese ferito. La sua opera, influenzata dalla tecnica artistica del collage di Robert Rauschenberg e dalla sperimentazione musicale di John Cage, ha tracciato un vigoroso e ancora attuale quadro di una nazione oppressa da una dilagante paranoia ma nel contempo innervata da grandi energie creative e politiche. De Antonio ha insegnato a tutti i registi venuti dopo di lui a servirsi delle immagini d’archivio per combattere l’oblio imposto da un mondo ipertecnologico e ci ha lasciato in eredità una fede incrollabile nel cinema come strumento di lotta e di pensiero.

Emile de Antonio (1919-1989), è stato uno dei più importanti documentaristi degli Stati Uniti e un maestro del cinema di montaggio. Tra i suoi lavori ricordiamo: Point of Order (1963), Rush to Judgment (1966), In the Year of the Pig (1968), Millhouse: A White Comedy (1971), Painters Painting (1972), Underground (1976) e Mr. Hoover and I (1989).

Ed io parlo, scrivo e fumo. Giovanni Bernardini racconta tutto di sè per un libro di prossima uscita con Lupo editore



Estratto dell’intervista a Giovanni Bernardini per l’uscita del suo nuovo libro “ED IO PARLO, SCRIVO E FUMO” edito da Lupo Editore prossimamente in libreria. Intervista a cura mia e realizzata da ACMElab. www.acmelab.it

martedì 2 febbraio 2010

La libreria Gutenberg di Lecce e Lupo editore presentano: Il vizio di leggere con Elisabetta Liguori e Pierluigi Mele

La Libreria Gutenberg e Lupo editore presentano, Giovedì 4 febbraio, ore 18.30 presso la Biblioteca Bernardini, Sala del Teatrino Piazzetta Carducci (Lecce), Il vizio di leggere: Quando nasce il bisogno di leggere? Da dove viene? Quali conseguenze porta con sè? Confessioni dialoganti per carta e ricordi tra Pierluigi Mele autore di “Da qui tutto è lontano” (Lupo editore) ed Elisabetta Liguori autrice con Rossano Astremo di “Tutto questo silenzio” (Besa editrice). L'incontro sarà coordinato da Anna Cordella.
"Leggere è un vizio, una conquista, una passione sfrontata, un tic, un bisogno, a volte un alibi. C'è chi lo fa la sera prima di addormentarsi, chi al mattino davanti ad un caffè bollente, chi in autobus, chi in attesa dal dentista, chi di nascosto in uno scantinato, taluni per protesta, molti per dovere, altri per indolenza. C'è pure chi non riesce a farlo e si sente in colpa o chi non ci tiene affatto e quando vede un romanzo brillare sul bancone di una libreria fa spalluce e non sa perchè. C'è chi legge solo quotidiani, chi solo romanzi gialli, chi preferisce i saggi e prende appunti, chi divora di tutto e poi sente la testa girare. C'è chi ha bisogno di solitaria concentrazione e chi legge solo a voce alta per un pubblico scelto. Chi legge per sè, chi legge per un amico o per un amore. Chi legge male, chi legge troppo, chi legge due volte. Ma esattamente quando e perchè nasce il bisogno di leggere? Come cresce nel tempo e in quali condizioni? Quali conseguenze porta con sè? Leggere è un gesto di ribellione che molto cela e molto svela di un uomo o di una donna. In tempi di crisi il libro, e tutto quello che ruota attorno allo stesso, continua ad essere oggetto di accesi dibattici e grossi quesiti. Non si può non chiedersi perchè. Poichè la lettura è un cammino attraverso la storia degli uomini è giusto che ciascuno compia il suo a suo modo. A volte può essere interessante condividere quel cammino con qualcuno."

Il libro del giorno: Metallo urlante di Valerio Evangelisti (Einaudi)

In Metallo urlante ogni capitolo è un passo verso un orrore sempre piú gelido. Accanto a perverse mutazioni della carne in metallo, sotto il tallone di oppressioni spaventose, negli scenari esotici dove eserciti non piú umani si scontrano, una mente sottile e malata tiene le fila del racconto, oltre ogni dimensione di spazio e di tempo: è Nicolas Eymerich, il crudele inquisitore medievale le cui vicende sono raccontate nel ciclo pubblicato da Mondadori. Introduzione perfetta a Eymerich e complemento indispensabile del ciclo, ma anche libro di avventure autonome (tra le quali la prima apparizione del pistolero stregone messicano Pantera, protagonista di Black Flag), Metallo urlante - che rende omaggio nel nome a una celebre rivista francese di fumetti, madre ideale di Alien - è oggi apprezzato da intenditori di ogni genere come uno dei capisaldi della nuova narrativa fantastica. Anche per la innegabile capacità dimostrata da Evangelisti di cogliere nelle patologie del presente l'incubazione possibile di un futuro di devastante ferocia, di desolante inumanità.

Da Prentice Mulford e il suo Il dono, a Genevieve Behrend con il suo Il potere invisibile della visualizzazione (Bis edizioni)

Parliamo di due libri assolutamente singolari che sono alla base del Nuovo Pensiero. Il primo è Il Dono di Prentice Mulford dove si parla di fede e soprattutto di conoscenza dell’Uno, principio assoluto e supremo che non solo permea tutte le creature dell’Universo, ma si trasforma in assoluta energia di Amore che come elemento reale, fisico, crea una comunione e comunicazione con la Mente Infinita. Di un’opera come questa non si può assolutamente dire che non possa suscitare un qualche interesse per il lettore moderno. Prentice Mulford, è uno scrittore profondamente spirituale che ha saputo distinguersi per freschezza e originalità tra gli autori che come lui ed Emerson fanno parte della corrente del Trascendentalismo americano. Il filo conduttore di tutta questa opera sembra essere una volontà ferrea dell’autore di dimostrare come la presenza del divino in noi e in ogni creatura vivente, deriva dalla coscienza di essere indissolubilmente legati all’Uno e alla Mente Cosmica che hanno generato una sorta di rete sinaptica universale che si auto/regolamenta al fine di tutelare noi stessi e il mondo. L'autore affronta in modo non banale anche temi come la reincarnazione, l'immortalità della carne e la preghiera, che rendono “Il dono” un'opera estremamente ricercata. “Nella vita spirituale, ogni persona è il suo proprio scopritore. Non dovete addolorarvi se le vostre scoperte non sono credute dagli altri. Il vostro compito non è quello di discutere e di convincere le altre persone, ma di andare avanti nella vostra strada, fare altre scoperte ed aumentare la vostra felicità personale”. Diverso invece è il lavoro di Genevieve Behrend, unica studentessa del maestro della filosofia di Scienza della Mente Thomas Troward, la quale ha ben sottolineato l’importanza della visualizzazione quotidiana, non solo al fine di ottenere ciò che si desidera quanto per strutturare una grammatica viva per il nostro cervello in grado di sviluppare una mente ordinata in grado di sfruttare appieno il proprio potenziale. La visualizzazione è paragonabile alla lampada di Aladino:certo ma ancora prima - raccomanda la scrittrice - di ogni azione visualizzante occorre sapere esattamente cosa si desidera. per attivare il suo potere devi prima di tutto sapere cosa vuoi . A mio avviso non si tratta di un’opera che si limita semplicemente e semplicisticamente ad aiutare il lettore a raggiungere il suo successo personale, quanto uno strumento utilissimo anche a scoprire tutte quelle zone d’ombra che sono latenti ma radicate negli strati più profondi del nostro essere. Quasi che i limiti umani possano essere strascesi attraverso la parola che diviene uno strumento di potere che trasforma in realtà i “desiderata”. Tutto ciò è possibile attraverso l’autoconsapevolezza estatica o estasiante che si produce con l’intrioettare una verità forte e incontrovertibile: ciascuno di noi è un centro particolare per il quale e nel quale lo spirito creatore sta cercando una nuova espressione attraverso le potenzialità che già esistono dentro ciascuno. “Tutti noi possediamo più potere e maggiori possibilità di quanto immaginiamo, e visualizzare è, di questi poteri, uno dei più grandi. Apre la porta all’osservazione di altre possibilità da parte nostra. Quando ci fermiamo per riflettere, ci rendiamo conto che, affinché esista veramente, un cosmo deve essere il risultato di una mente cosmica”. Il potere invisibile della Visualizzazione è un’efficace quanto semplice guida, un best-seller di fama mondiale fin dalla sua prima edizione che continua ad essere considerato una lettura indispensabile per tutti coloro che desiderano ottenere il meglio dalla propria vita. È il libro più famoso della scrittrice francese, successivamente trapiantata negli Stati Uniti, che è riuscito a infervorare gli animi di migliaia di studenti che, in tutto il mondo, sono rimasti affascinati dalla Scienza della Mente.

L'infinito potere che è in te
ISBN: 9788862280693

Prezzo € 7,65
invece di € 9,00 (-15%)


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lunedì 1 febbraio 2010

L'era di New Page fondata da Francesco Saverio Dodaro

Se si parla di nuove frontiere del prodotto editoriale non si può non parlare di Francesco Saverio Dodaro che ha fondato ora, e lo fa partendo da Lecce, New Page un’originale iniziativa letteraria per questo nuovo millennio. Cento parole per ogni componimento su un’unica pagina da diffondere attraverso eleganti espositori da ri/contestualizzare in casa, luoghi pubblici, appesi al muro. La “mission” di questa nuova operazione editoriale è quella di pensare ad una nuova fisiologia dei segni d’interpunzione (virgole, punti a capo, etc), tanto da poter definire la re/invenzione della disposizione testuale, della comunicazione narrativa. Impossibile non sentirla vicina a quella dei giornali, per l’uso delle maiuscole e dei capoversi. Parte, dunque dal capoluogo salentino, con il manifesto di Dodaro, la New Page, l’opportunità di cogliere il ritmo e respiro dell’autore. Il futuro è già qui.

“NEW PAGE - narrativa in store. New Page ovvero: contestualizzazione della pagina letteraria gutenberghiana. Un tracciato capace di intercettare il know-how della comunicazione, i grovigli della fruizione e le dinamiche areali: narrativa del terzo millennio. Le centopagine – le jamesiane short story –, la new wave degli anni settanta non possono più interpretare l’ora. Bisogna tradurre adeguatamente il contesto: cento parole. Centoparole, non di più, per ben ossigenare il testo, per farlo respirare nelle turbolenze della quotidianità. Centoparole e un diverso apparato pausativo. Centoparole, non sul libro, ormai sott’attacco, ma sulla pagina reinventata. New page. New page per la nuova comunicazione narrativa. Comunicazione in store. Narrativa in store. Nelle vetrine. Nelle vetrine del nostro miroir indifférent, nelle vetrine delle nostre misere esistenze e delle nostre desolazioni e delle nostre solitudini e delle nostre mancanze e delle nostre perdite e dei nostri smembramenti e dei nostri disastri matricali, e dei nostri teneri boschi, profumati d’altrove”

Francesco Saverio Dòdaro
2009/2010

Il libro del giorno: Andrea Ferreri, Ultras, I ribelli del calcio. Quarant'anni di antagonismo e passione. (Bepress)

A quarant'anni dalla storica comparsa dei primi gruppi italiani (1968), il fenomeno ultras è sottoposto ad una delle più dure repressioni della sua storia. Trasfigurato dal nuovo mondo calcio e dall'estrema rigorosità delle attuali norme antiviolenza, è oggi in crisi di identità, di valori praticamente ovunque. Questo libro racconta la
storia e le dinamiche dell'agire ultras, le influenze, le mode, le frustrazioni e tenta di tracciare lo sviluppo di un fenomeno in continua evoluzione. Infine passando in rassegna le esperienze di molti gruppi italiani e le oscure vicende che stanno attanagliando il mondo del calcio, questo libro si pone come una riflessione inside, un lavoro partecipato che analizza dall'interno le dinamiche e le espressioni di uno dei più contraddittori fenomeni riottosi contemporanei.

Andrea Ferreri, laureato in filosofia, esperto di "cultural studies", lavora da insider negli ambienti controculturali. Ha pubblicato alcuni saggi sul consumo degli stupefacenti all'interno degli ambienti giovanili e collabora con diverse riviste internazionali specializzate.

Le perfezioni provvisorie di Gianrico Carofiglio (Sellerio editore). Intervento di Vito Antonio Conte

Aspettavo questo ritorno. Ché mi è sempre piaciuto il ritorno. E l'attesa del ritorno. Come quando, specialmente dall'Università immersa nelle nebbie delle lande padane, dopo un esame o uin periodo del cazzo, tornavo a casa. A volte con decisione immediata. Altre programmando il giorno del rientro. E vivendo -appunto- l'attesa. Man mano che svaniva l'Emilia e, poi, la Romagna, e si attraversavano le Marche e giù, giù, giù sino a Termoli, l'anticamera delle Puglie, il respiro diventava sempre più profondo, più largo, più lento, e l'aria trattenuta, ch'era quella della mia Terra. Poi, cominciavano gli uliveti e i vigneti e quelle distese severe e familiari, coi paesaggi finiti dai cieli sulle Murge e degli azzurri infiniti oltre il mare. Mi è sempre piaciuto il ritorno. Specialmente dopo lunghe assenze. Quel senso di appartenza evocato dai luoghi. Quella speciale intimità dettata dalle bianche costruzioni di una volta sperdute nello spazio dimenticato dal tempo. E quell'andare lento del treno senza elettricità. Che si svuotava via via che la strada ferrata s'accorciava. Mi è sempre piaciuto il ritorno. Mi è piaciuto questo ritorno. Quello di Guido Guerrieri, avvocato sui generis, anche in quest'ultima storia, nonostante l'imborghesimento apparente, se così si può dire. Mi è piaciuto moltissimo il titolo, più di quelli precedenti che, invero, già avevo amato molto. Mi è piaciuto ritrovarlo a quarantacinque anni con il corpo appena appena scalfito dal tempo e l'anima allargata da un altro tempo: quello della memoria che diventa -in qualche misura- evanescente ma -paradossalmente- più forte, affievolita e accresciuta dall'esperienza. affievolita da qualche bicchiere in più. Accresciuta dallo scherzo di qualche bicchiere in più. Affievolita dal presente intenso che oscura la percezione del futuro. Accresciuta dal passato -un passato dimenticato- che riemerge come non mai, a quell'età. Meravigliosamente incantato dalla consapevolezza che la felicità dura sempre troppo poco, ma se sai aspettarla è, nella sua provvisorietà, perfetta. Basta lasciarsi andare un po'. E vivere. Compiutamente vivere. In culo tutto il resto. Quello che ti appartiene, come tatuaggio impresso sulla pelle e oltre. E quello d'intorno, che c'è, soprattutto fuori di te c'è, per quanto possa neppure sfiorarti. “Le perfezioni provvisorie” è il ritorno dell'avvocato Guerrieri, l'ultimo libro di Gianrico Carofiglio (Sellerio Editore, pagine 336, € 14,00). Il titolo, dicevo, è significativo (oltre ch'essere un bel titolo) e riflette la vicenda (oggettiva e personale) dell'ultimo caso dell'avvocato Guido Guerrieri. Ché gli avvocati (e il mondo giudiziario in generale) non li sopporto più da un pezzo, ma Guido è l'eccezione che alimenta la speranza senza la quale nemmeno io farei più il mio lavoro... Sì, è di carta, direte, ma vi assicuro che esiste... Siccome esiste il suo Autore e non solo lui... Risulterà chiaro, a questo punto, che (pur avendo amato tutta la scrittura di Carofiglio) la saga di Guerrieri e dei suoi casi mi provoca stati d'immersione e d'emersione unici. Da questo mondo. Da quel mondo. Da questo reale, come da quello giudiziario. E credo, fermamente credo, che la scrittura (e non la poesia e/o altro) davvero può salvare il mondo. Ché, se ognuno trovasse il tempo per fermare il suo di tempo e si concedesse una buona lettura (qualunque sia) con la mente pronta a accogliere parole e storie, il vivere sarebbe un altro vivere, anch'esso più predisposto all'accogliere. In questa nuova avventura dell'avvocato Guerrieri, troviamo un nuovo studio legale, una nuova equipe, un nuovo Guido, un caso ancora più difficile da risolvere, un modo ancora più sofisticato per risolverlo, un'inezia ancora più banale che diventa risolutiva, un guardare alle cose ancora più speculare del guardarsi dentro e un arrapamento cresciuto con l'età e con l'assenza di un amore (definitivamente perduto?), sfogato in una notte di cui resterà quella sensazione di perfezione provvisoria che si può pienamente cogliere soltanto quando quella notte c'è stata e sai -per un motivo qualunque- che un'altra -come quella- non la seguirà mai. Perché, dinanzi all'unica scelta possibile (perché quella giusta), troppo spesso qualcuno -in una maniera qualsiasi- finisce per sputare sopra a tutto quel ch'è stato... Questo caso è tanto inventato quanto reale. Questo caso contiene tanto desiderio quanto trascendenza. Questo caso è talmente fantastico quanto denso di innumerevoli concretezze. Questa scrittura di Carofiglio rievoca quella dei precedenti episodi di Guerrieri, ma ha riverberi chiarissimi di “Nè qui né altrove”, la sua migliore scrittura. Chè la scrittura (con le dovute eccezioni...) migliora con le letture, con gli ascolti, con la vita, con la morte, con l'amore, con l'esperienza. In una parola, col tempo. Come il buon vino. Basta che il luogo dov'è riposto sia quello giusto. Basta conservare e custodire la purezza della scoperta. E la passione. Anzi la Passione... e altro ancora. Tutto quello che, dopo mille comparsate, dopo un incontro imprevisto, dopo la rabbia e la solitudine sferrate coi pugni sul sacco da boxeur, dopo Nadia e il suo locale all'angolo tra finitudine e infinito, dopo una scopata che non è stata come dice lei o forse sì ma per te è stata altro comunque, dopo il vecchio fallito che ti rammenta ogni fallimento, dopo altra routine, dopo ogni passeggiata nella notte, dopo il cane che non ha abbaiato quando l'hai carezzato, dopo quelli che hanno abbaiato anche se proprio non li hai cagati (o, forse, proprio per quello!?), dopo il vino del Nord (per me un ottimo Traminer... quasi come Guerrieri...) e dopo quello del Sud (Negroamaro...), dopo il mare in gommone, dopo un vecchio amico, dopo ogni verità, dopo le bugie ch'è meglio non dire anche impossibile ma almeno a se stessi mai, dopo tutto, tutto quel che -dicevo- rimane è -oltre al fatto che “il rimedio all'imprevedibilità della sorte, alla caotica incertezza del futuro è la facoltà di dare e mantenere promesse”- che, alla fine, “la notte sembrava di nuovo un luogo tranquillo e accogliente”. E bella da attraversare. Come questo libro. Come questa vita.

domenica 31 gennaio 2010

Il libro del giorno: Piergiorgio Odifreddi, Hai vinto Galileo (Mondadori)

Nell'autunno del 1609, esattamente quattrocento anni fa, Galileo Galilei puntò in aria il cannocchiale e... apriti cielo! L'attonito scienziato scoprì che la Luna ha monti e valli, Venere fasi simili a quelle lunari, Giove quattro grandi satelliti che gli girano attorno, Saturno strane anomalie (i famosi anelli), che il Sole ruota su se stesso, e le costellazioni e la Via Lattea sono composte di innumerevoli stelle. Queste rivelazioni cambiarono radicalmente la sua vita e la nostra storia, inaugurando la nuova e acuta astronomia degli scienziati e scatenando le vecchie e ottuse reazioni dei teologi. Per due volte, nel 1616 e nel 1633, il Sant'Uffizio alzò la voce e Galileo abbassò la testa, dannandosi la memoria per aver salva la pelle. Ma poiché, come notava Oscar Wilde, chi dice la verità prima o poi viene scoperto, di fronte ai progressi e alle conquiste della scienza oggi possiamo felicemente affermare: "Hai vinto, Galileo!". Per evitare di cadere nello stesso errore dei denigratori, di condannare senza conoscere o conoscere senza capire, questo libro ripercorre la strada che ha portato alla vittoria dell'eliocentrismo: l'antica formulazione proposta da Aristarco e quella moderna riproposta da Copernico, la coraggiosa e tragica protodifesa intrapresa da Giordano Bruno, il sistematico sviluppo compiuto da Keplero e Galileo, le feroci persecuzioni intentate dal cardinal Bellarmino e da papa Urbano VIII, la definitiva sistemazione raggiunta da Isaac Newton, la verifica sperimentale ottenuta con il pendolo di Foucault, e la subdola riscrittura della storia attentata da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. E, soprattutto, ci sollecita a leggere (o rileggere) le grandi opere di Galileo (il Sidereus Nuncius, le Lettere copernicane, il Saggiatore, il Dialogo sopra i due massimi sistemi e i Discorsi sopra due nuove scienze), per scoprire che non si tratta solo di scienza. Perché, come disse Italo Calvino, che se ne intendeva, Galileo è stato "il più grande scrittore della letteratura italiana di ogni secolo".

Millôr Fernandes, 100 Fábulas Fabulosas (Editora Record). Di Adriana Maria Leaci

Para sair da rotina e do comum, eis aqui um volume muito simpático, muito inteligente, sagaz e diferente para ler sem compromisso mas, com a certeza de que, apesar da ironia que o contém, existe uma moral muito importante atrás de cada história. Isso não quer dizer que Millôr Fernandes virou um moralista, muito pelo contrário. O autor, tendo já utilizado essa mesma fórmula no passado, fluida e direta, que chega ao leitor sem segredos, sabe muito bem como a própria criatividade e o humor escavam sucessos. Cada fábula é centrada num período clássico da história geral de todos os mundos, e bem se adapta à crítica que o autor magistralmente insinua ou declara, em base ao seu propósito final. Tendo o autor ilustrado as páginas do livro de próprio punho, isso não fez outra coisa que acentuar a intenção de demonstrar, com muita clareza e espírito, que o homem, desde os tempos mais remotos, se comporta sempre da mesma forma, sem nada mudar, passando por inúmeros eventos que poderiam levá-lo à uma mudança radical do próprio ser mas, ao contrário, se reduz a repetir os mesmo erros. Neste livro Millôr dá demonstração de ser realmente um artista completo, de grande cultura, com uma filosofia de vida bem estruturada entre os alicerces da própria sabedoria. Essa filosofia lhe permite de se colocar ao serviço de quem o lê, sem supérbia e sem exibicionismo.
A sua trajetória de trabalhos passa do jornalismo à literatura com muita naturalidade. O conteúdo dos seus escritos, sempre acompanhados por alguma charge, evidencia uma característica lúdica instintiva, que não se perdeu com os anos. E’ o seu espírito excencial e o que ainda lhe dá inspiração. Não importa qual o formato, qual envólucro Millôr invente para codificar a sua criatividade. O resultado será sempre muito intrigante, como ele mesmo se define. Como o mundo inteiro o conhece.

100 Fábulas Fabulosas, Millôr Fernandes – Editora Record
Literatura Brasileira – Contos e crônicas

sabato 30 gennaio 2010

Il libro del giorno: Olga Campofreda, La confraternita di Elvis (ARPANet)

La storia di un’amicizia raccontata tra i fumi dell’alcol e il freddo della Scozia. Un tentativo di Jules e Jim che non si prende troppo sul serio e si colora di pop art, rock and roll, ingenuità ed incoscienza. Un’amicizia resa sacra nel nome di Elvis, che nasce e si fortifica in una terra lontana da casa: Marco, Paolo e Nicolle tessono i loro rapporti in un equilibrio precario sostenuto dal sogno di fare musica. È un racconto che chiama in causa la passione prima di tutto e poi l’amore, mai scontato, mai definitivo, ma sempre segretamente cercato, nell’attesa di un satori improvviso, la rivelazione di un senso che dia significato alle cose.

Tutto questo silenzio di Elisabetta Liguori e Rossano Astremo (Besa) visto da Luisa Ruggio

C’è un passaggio cruciale nel nuovo romanzo di Elisabetta Liguori scritto a quattro mani con Rossano Astremo ed edito da Besa, se fosse un film sarebbe una sequenza chiave: Federica e Mirko, i protagonisti, sono a letto, nel sonno coniugale - praticamente non si parlano da un pezzo, teoricamente la loro gestualità è un monologo ventriloquo - durante il quale lei accusa un crampo alla gamba e come d’abitudine compie l’attraversamento della distanza mostruosa che separa la coppia, la coppia venuta dalle rapide di un amore poi naufragato in un’involuzione progressiva, passiva, per affidare alle mani di lui la soluzione, l’interruzione del dolore, dal momento che nonostante “Tutto questo silenzio” - come denuncia il titolo dell’opera - sa come quel polpaccio va toccato. “La tocca come a dirle: sono qui. Lei allunga la gamba verso il marito, senza girarsi. Nel solito punto. Ecco, lì. Mirko le prende il polpaccio con entrambe le mani, mentre si sistema a sedere meglio, a gambe divaricate. Il silenzio si riempie di fruscii (…) Lui tira il piede di lei verso il basso, compie alcune torsioni con la sottilissima caviglia che gli s’abbandona nelle mani (…) Alla fine sorride di stanchezza. (…) Il tempo sembra avere senso solo se si ha sonno.” Ed eccola qui la verità (vi prego, n.d.r.) sull’amore. La sterzata, la scrittura, prima ancora del mestiere e il suo raziocinio necessario. Liguori-Astremo non descrivono, cercano di dire come stanno le cose. Raccontano una storia liberandola da ciò che si potrebbe dire di essa: la decadenza di una famiglia del Sud, i sit-in di protesta, le badanti che sognano di diventare mogli, le mogli che sognano di scappare, l’adolescenza che rifiuta il cibo mentre si sovralimenta, subliminalmente, di televisione, le marchette a buon mercato per coprire il tanfo di un’intimità andata a male, il marcio di un delitto banale, la complessità del melting pot suburbano e carcerario, la perdita della bellezza, l’amore quando le parole finiscono. Raccontando tutto questo, gli autori di questa storia commovente per la sua durezza e il suo minimalismo mai prudente, non suggeriscono al lettore come si dovrebbe sentire leggendo, né quando dovrebbe emozionarsi, lo costringono ad attraversare lo specchio. Per entrare in un mondo le cui meraviglie hanno perduto smalto e sono diventate indizi del sommerso.
Ci sono riusciti miscelando le imbastiture necessarie all’organizzazione interna di un romanzo scritto da due penne profondamente diverse. Una diversità che si può rintracciare smistando le voci di tutte le letterature e la musica precedenti a questa stesura del turbamento e della sua crudele dissimulazione. La non omogeneità è il punto di forza di questa scrittura doppia, androgina e che rivela moltissimo del maschile di Elisabetta e del femminile di Rossano.
Così, partendo da ciò che i protagonisti di questa storia d’amore sono diventati durante l’attraversamento cieco della corruzione del tempo, la strana coppia Liguori-Astremo, racconta l’assurdità esistenziale - penosa, delirante - e l’unica solidarietà possibile: riconoscerci in quanto esseri umani, all’improvviso - tarda epifania del rovescio - in tutto ciò che uccidiamo.
“Ognuno uccide la cosa che ama” scrisse Wilde nel confino del carcere, dov’era finito con l’accusa di pederastia - l’amore per Bosie, Alfred Douglas, l’uomo che lo portò alla rovina - ovvero l’aver violato le regole della sua classe sociale. La dissertazione è d’obbligo se si pensa che la password di questo romanzo etico è tutta nella citazione dell’inizio, firmata Albert Camus, sfilata via, spina di pesce, da “Lo straniero“: “In quel momento ho pensato che si poteva sparare oppure non sparare e che una cosa valeva l’altra“.
Il vero crimine, così come l’unico peccato possibile, è il difetto di sentimento.
Il backstage del romanzo è interessante almeno quanto il suo esito. E’ stato Astremo a proporre il soggetto a Liguori, da qui in poi il lavoro è sbocciato avvalendosi di un certo parallelismo condito da lunghe telefonate serali tra i due autori pugliesi che sono anche un frutto dell’utopia della scrittura ai tempi di Internet avendo dimostrato come dialogano, talvolta, le solitudini. Quelle degli scrittori specialmente. Torna il tema caro alla Liguori (che si è fatta amare con la maturità dei due romanzi “Il credito dell’imbianchino“, Argo, finalista al Carver 2005 e “Il correttore“, PeQuod), la violenza invisibile, che nuota nelle case, in quell’acquario chiamato famiglia, dove, come si legge a pagina 150: “La televisione riempie di sabbia le ore“. Oppure, ancora più forte, a pagina 138: “Tutto è acquatico, pure il rumore della tele sempre accesa nel languore domestico“. Viene in mente una versione terrestre, miserabile, di “Blade Runner“. Dopo “Corpo poetico irrisolto” (Besa) e “L’incanto delle macerie” (Icaro) Astremo, che macina da anni scrittura in rete e sui giornali, presta la sua poetica a un romanzo scritto per fotogrammi, per immagini, fratturando un po’ di generi e facendoci captare, di tanto in tanto, la musica che arriva dall’altra stanza.
Ciò che ne deriva non è solo un’analisi socio-psicologica precisa come un bisturi, netta. E’ letteratura di livello, entra negli spazi scomodi, vede quello che è complicato anche solo guardare. Questo libro riconcilia il talento con la militanza, è un sonar nel mare di carta dell’Italietta grafomane che piega l’ispirazione alle ricette del mercato editoriale. Liguori e Astremo dicono più di qualcosa, con la massima sincerità possibile, mettono il lettore in contatto con l’evidenza a tal punto ignorata da sembrare iperreale e surreale. E quella sincerità trasforma il lettore, lo scuote, lo mette in crisi. E’ molto, ed è ciò che si crede di meritare dopo l’acquisto di un libro. La ricerca dei protagonisti di questo romanzo, è nello sforzo immane di continuare a vivere nonostante “Tutto questo silenzio“, affidando quello che lo stesso Camus riteneva essere l’unico vero problema filosofico a un linguaggio credibile e sontuoso al contempo, pieno della forza comunicativa della più fragile adolescenza accanto all’autismo involontariamente lirico degli adulti.

Una famiglia apparentemente normale, di plastica (come annunciano i quattro pupazzi inquietanti della copertina) le due giovani figlie di una coppia che ha smesso di impegnarsi per far esistere il futuro. Il circuito minimo che ruota intorno a questo buco nero. E la violenza rapsodica che squarcia la routine cianotica dei Bordini, eroi del disgusto, anestetizzati da un dolore troppo grave che li vota al fallimento.
E qui, proprio nei destini dei perdenti, si tocca la mano solidale dei due scrittori che mettono la parola al servizio della vergogna della verità, consentendo il beneficio di una confessione a personaggi che altrimenti non riuscirebbero a trovare il canale di scolo della parola per essere ancora umani, continuerebbero a guardare da un’altra parte credendo di collezionare una pazienza che calcifica in chi si condanna a sopportarla. Perché non è vero che non è mai troppo tardi. Alcuni libri stanno alla letteratura come l’esclamazione disarmante del bambino di Andersen alla folla della fiaba danese che occultava l’ovvietà: “Il re è nudo!“.

venerdì 29 gennaio 2010

Annalisa Fantini, L'innocenza indecente (Il Filo) vista da Maddalena Mongiò

Generosità, spirito di gruppo, condivisione, coordinamento, velocità, sono gli ingredienti necessari a concatenare un gruppo di atleti che in staffetta devono raggiungere il traguardo: la meta. I corridori si scambiano il testimone, i nuotatori toccano la parete della vasca. L’ultimo atleta è il più veloce tra tutti. Il primo un po’ meno veloce dell’ultimo, il secondo meno veloce del primo, il terzo il più lento tra tutti. Il passaggio del testimone avviene in una zona delimitata della pista. Il primo corridore si prepara ai blocchi di partenza: le punta della dita per terra, i muscoli nervosi, il cervello che gira a trottola. Il secondo corridore aspetta che arrivi il suo momento, quel momento discusso e ridiscusso con i compagni e con l’allenatore, quel momento in cui deve cominciare a correre allungando il braccio indietro per incontrare il testimone che gli porge il compagno di squadra. A volte grida, il compagno che è dietro, grida per far stringere il palmo della mano attorno al testimone al compagno che è lì, davanti a lui, pronto a scattare per raggiungere la sua meta. E poi il traguardo, il fiato corto che ti spezza ti piega e gli occhi, colmi di lacrime: di gioia o di tristezza. Sempre lacrime, sia che abbiano vinto o perso. Così lo scrittore, quello che decide di correre, tra pagine altrimenti bianche, una staffetta di racconti che si concatenano, si tengono insieme, si passano il testimone, giungono alla meta.
Lo scrittore è un atleta solitario e singolare, un atleta che sottopone i suoi pensieri, la sua mente, a un duro allenamento. Lo scrittore è un atleta solitario e singolare, un atleta che forma la sua squadra con una scia di parole, con i tratteggi dei suoi personaggi, con i retaggi delle sue letture. Annalisa Fantini, giornalista romagnola trapiantata a Lecce, ha deciso di percorrere l’esaltante esperienza della staffetta letteraria in uno scambio virtuale che passa di racconto in racconto. “L’innocenza indecente” edizioni Il Filo, si dipana in sedici racconti: mete in cui si celebra la crudezza dell’innocenza, il femminile, l’abisso del dolore.”Ci sono donne che non conoscerò mai. Tante, invece, mi sono passate accanto, altre hanno fatto in modo, nascendo, che anche io potessi sperimentare l’avventura della vita. Ho taccuini pieni di nomi, di appunti, di date, di piccoli e grandi fatti che hanno cambiato il corso della loro esistenza e hanno plasmato il mio modo di pensare. Di loro conservo ricordi che a volte sono appena sbiaditi dal tempo, spesso vividi e ancora emozionanti per la grande forza che mi hanno trasmesso. Nel mio lavoro di giornalista ho dovuto raccontare episodi per lo più tristi, perché le protagoniste della cronaca sono in gran parte vittime di violenza anche estrema. Ho scritto di donne che hanno percorso migliaia di chilometri in cerca di salvezza, attraverso viaggi insostenibili. Ho conosciuto ragazze terribili che hanno saputo uccidere, depredare, mentire, vittime della loro stessa spavalderia e altre che hanno salvato il loro piccolo mondo. Sono donne nate più di cento anni fa, sono bambine che non hanno raggiunto l’età scolare. Vengono dall’Italia, dalla Bosnia, dal Kossovo, dall’Iraq, dalla Germania, dall’Albania, dalla Polonia.” Così, appassionatamente, Annalisi Fantini introduce la sua avventura narrativa, il testimone che corre tra storia e storia e qui si compie il miracolo o il mistero del linguaggio del cuore.

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giovedì 28 gennaio 2010

Giorgio Perlasca. Un italiano scomodo, di Dalbert Hallenstein e Carlotta Zavattiero (Chiarelettere)

"Quello che facevo era completamente illegale. E lo sapevo"
Giorgio Perlasca, 1992

Giorgio Perlasca, lo Schindler italiano per troppo tempo dimenticato da tutti: dai fascisti (era contrario alle leggi razziali e non aveva aderito a Salò), dai democristiani (senza risposta una sua lettera a De Gasperi), dai comunisti (era di destra). E dalla Chiesa. Un uomo libero che mai rinnegò la sua storia, come racconta lui stesso in questa testimonianza inedita. Fingendosi diplomatico spagnolo, riuscì a salvare migliaia di ebrei del ghetto di Budapest. Un’avventura memorabile tutta da raccontare.

Giorgio Perlasca (31 gennaio 1910 - 15 agosto 1992) combatte prima in Etiopia e poi come volontario in Spagna con i falangisti di Franco. Per lavoro viaggia nell’Europa in guerra. A Zagabria e a Belgrado assiste ai primi massacri fatti dai nazisti. A Budapest si adopera con ogni mezzo in favore degli ebrei. Tornato in Italia, fa i mestieri più diversi (“Tutto tranne il ladro”). Ungheria, Israele, Spagna lo premiano per la sua attività, Washington lo festeggia. Finalmente, nel 1990, la tv pubblica italiana racconta la sua storia. Arrivano i primi riconoscimenti ufficiali. Ma è tardi. Muore con il rammarico di non aver ricevuto dallo Stato ciò che gli spettava. Nel 2002 la Rai manda in onda il film di Alberto Negrin: "Perlasca. Un eroe italiano", con Luca Zingaretti.
Dalbert Hallenstein, giornalista investigativo australiano, ha lavorato nel Sud-Est asiatico e in Europa, soprattutto in Italia. Ha scritto per The Melbourne Age, The Sunday Times di Londra, The European e The International Herald Tribune. È autore di diversi saggi, fra i quali "The Super Poison" con Tom Margerison e Marjorie Wallace (Macmillan, 1979) e "Doing Business in Italy" (BBC Books, 1990). Ha collaborato con Ferruccio Pinotti e Udo Gümpel al libro "Berlusconi Zampano. Die Karriere eines genialen Trickspielers" (Riemann Verlag, 2006). Attualmente abita in una sperduta contrada delle colline veronesi dove coltiva olivi e suona il flauto.
Carlotta Zavattiero, giornalista e scrittrice padovana, ha lavorato per diverse testate locali come Il Corriere di Verona, L’Arena, Il Verona e come corrispondente per Radio24. Ha pubblicato "Alessandro il Macedone. Il pensiero e il cuore di Alessandro Magno" (Bonaccorso, 2005) e ha collaborato con Ferruccio Pinotti al libro "Olocausto bianco" (Bur, 2008). Vive a Verona, dove insegna italiano, greco e latino. Appassionata di lingue straniere, collabora con l’agenzia Piccolo Moresco di Madrid. Al momento sta pianificando un trasferimento
definitivo a Parigi.

Giorgio Perlasca. Un italiano scomodo, di Dalbert Hallenstein e Carlotta Zavattiero
Collana Reverse, Pagine 220, Euro 14


...a pagina 199“Il mio è stato un atto umanitario che
non c’entrava niente con la politica.”

...a pagina 166-167
“Non ci sono parole per lodare la tenerezza
con cui ci avete sfamato e vi siete preso cura dei vecchi e degli ammalati. Che Dio onnipotente possa ricompensarvi.”
Biglietto consegnato a Giorgio Perlasca dagli inquilini di una casa protetta di Budapest, maggio 1945.

Krill 01 - consumo e verità (Lupo editore)

L'immaginario e il suo indotto rappresentano il nucleo dello sforzo che Krill tenta di compiere nel suo percorso di scavo e di ricerca nelle scritture e nell'immaginale. Un monografico dedicato al rapporto tra consumo e verità, sebbene pudicamente suggerito dalle narrazioni morbide e pop della produzione non-scientifica e non-sistematica, non può prescindere comunque dal suo bagno naturale, che è e rimane l'immaginario. L'immaginario lavora, anche in questo caso, in background, come un software nascosto nel sistema operativo di ognuno di noi; anche se in maniera poco consapevole, evoca, allude, spinge alla ricerca della – propria – verità attraverso la scelta di simboli e di prodotti culturali, e, alla lunga, al loro consumo.
Brutta bestia il consumo, verrebbe da dire in tempi come questi. È chiaro che siamo sotto assedio, che è un sistema di controllo molto efficace ed estremamente pervasivo. Ed è un sistema che funziona, soprattutto. Funziona perché aggrega, perché ogni minuto conquista nuove terre e avanza con una potenza mirabile. È sotto gli occhi di tutti la spinta, e soprattutto la sentiamo tutti, la spinta. È anche vero che ogni minuto si liberano terre dal giogo del consumo, si organizzano comunità, si creano codici nuovi, si producono forme di resistenza. È vero, ma il conto è impari. Ci sono interi continenti che sono lì sulla soglia, milioni di persone pronte a lanciarsi verso i pochi varchi a disposizione e disposte e schiacciare e a farsi schiacciare pur di strappare il biglietto d’ingresso al nuovo miracolo globale. Il capitalismo sembra avere un appeal irresistibile, così come lo stile di vita e di consumi elaborato dalla cosiddetta società occidentale.
Un sintomo di questo, un simbolo tra tanti, le parabole sui balconi e sulle terrazze del centro, ma anche della periferia del pianeta. Anzi soprattutto delle periferie, a ben guardare. In fin dei conti, le parabole, protese in uguale direzione come ad ammirare un idolo invisibile, ci ricordano il flusso di rappresentazioni, visioni e messaggi che costituiscono un continuum etico ed immaginifico onnipresente. Esso ci “possiede”, non già quali semplici fruitori, ma ancor più quali membri attivi. Siamo calati in una forma di vita, quella del consumo, a cui contribuiamo ogni volta che sintonizziamo i monitor con le frequenze TV, oppure quando entriamo come gatti affamati nei nostri supermercati, o ci aggiriamo sornioni tra gli scaffali del media-store alla ricerca dell’ultimo modello di... Il consumo è una forma di vita anche e soprattutto perché siamo disposti (coscientemente o no) ad accettare l’inganno ideologico che si cela nelle merci che compriamo, l’idea di mondo che è sottesa alla réclame pubblicitaria. Quindi il consumo è innanzitutto una brutta bestia imperante e in salute. Ed è una bestia che si attacca a qualcosa che è radicato dentro di noi, che in qualche modo, ospita la bestia, le offre un riparo e la coccola anche. Perché consumare soddisfa desideri primordiali, aggrappati all’uomo fin dalla sua nascita. Colma vuoti, illumina anfratti bui, riscalda certe solitudini, soprattutto metropolitane, ma non solo. In questo numero abbiamo deciso di cercare una relazione tra il consumo e la verità, di provare a leggerne le implicazioni. In questo senso il consumo è un sistema di produzione della verità. È un modo potente di legare il soggetto a se stesso, di realizzare una vita. È per questo che funziona bene, perché promette orizzonti di gloria. Il rapporto tra consumo e verità si gioca dunque su un doppio binario: se il consumo della verità rimane il consumo di un oggetto che viene venduto e prodotto in quanto merce, allora la verità sarà sempre qualcosa di esterno rispetto al soggetto che se ne appropria e la “consuma”. Se invece la verità da oggetto-merce da consumare diventa prassi che muove la volontà di coloro che ne fanno esercizio, allora la verità può rompere il dispositivo legato al consumo che ci governa e a cui siamo consegnati nelle nostre attività quotidiane. L'esercizio etico della verità diviene il rovescio della medaglia, quel meccanismo che introduce un elemento di novità, scardinando lo stato di cose attuale in cui il consumo fa muovere il tutto, secondo le sue logiche, i suoi meccanismi e le sue merci. Per attuare una prassi che sia diversa è necessario dare voce a narrazioni che siano fuori da un dispositivo ormai consolidato: questo è l'obiettivo che ci proponiamo di portare avanti, con tutte le difficoltà che lo abitano. Krill vorrebbe essere un magma, un blob in cui i discorsi si intrecciano e dove un pugile della periferia di Napoli è parresiasta quanto un dissidente israeliano.
I contributi presenti in questo numero sono accomunati nella differenza dei linguaggi, dei registri narrativi, dei codici comunicativi da un unico filo rosso: interrogare l’attuale. Attuale come “l’adesso del nostro divenire” (Deleuze-Guattari). Le pagine che seguono rappresentano, dunque, il frutto di questi quattro mesi passati a masticare (a giocare con) i concetti di consumo e verità. I testi offrono una eco, a volte corposa e a volte molto flebile, di queste due parole. Come al solito non si trattava di saturare un tema, ma di lasciare il quesito irrisolto, provando semmai a suggerire dei percorsi possibili di svolgimento. Alcuni pezzi riflettono il tentativo, da cui eravamo partiti, di mettere in luce gli aspetti più curiosi o più grotteschi dello stile di vita che si suole definire “occidentale”, come il microcosmo della moda, o la retorica di certo etno-turismo, oppure i meccanismi perversi del marketing etc. In altri contributi viene fuori la questione della verità e del pronunciarla, quando questo può voler dire misurarsi con le menzogne di coloro che hanno in pugno un popolo, una città (poco importa se la città si chiama Gerusalemme o Taranto). Le narrazioni giocano con i paradossi legati al consumo, con le nostre ossessioni quotidiane, con le verità che ci aspettano sullo scaffale, che mettiamo in un carrello e che paghiamo alla cassa. Un discorso semi-serio percorre in modo invisibile una buona parte di questo Krill 01. È quello della sessualità, fattore vitale che ci portiamo sottopelle, e che riaffiora in modi scomposti nelle parole ipocrite sul pudore o nei gossip politici. In fin dei conti l’eros è questione capace, come poche, di mostrarci i tanti idola che si celano nei nostri discorsi e che fanno di noi “consumatori di verità”.

Hanno scritto per questo numero di Krill, tra gli altri: Louise Wallenberg, Federico Mello, Francesca Massai, Benedetta Barzini, Giso Amendola, Diego Cugia, Giuliano Foschini, Paola Aloisio, Elisabeth Bernstein.
Tra le prime date di presentazione della rivista, segnaliamo il 29 Gennaio a Matera presso la Libreria dell'Arco, il 5 Febbraio a Bologna presso la libreria Modo Infoshop e il 6 Febbraio a Ferrara presso la casa editrice la Carmelina.
La rivista (costo 10 euro) può essere acquistata presso le Manifatture Knos di Lecce, in libreria, su www.ibs.it e www.lupoeditore.it.
Info: 347.4021832, krillproject@libero.it

mercoledì 27 gennaio 2010

A single man di Tom Ford visto da Massimiliano Manieri

Ti succede di entrare in un cinema… E pagare un biglietto che t’aspetti equilibri un appetito che hai apparecchiato al tuo interno… Come ti accomodi ad un tavolo aspettandoti un certo genere di cucina, e gli ingredienti, gli odori tutt’attorno. Ed allora concedi a te stesso, al tuo palato, di liberare secchiate d’acquoline programmate sulle spezie, gli effluvi, che ti appropinqui a deglutire. Ti succede di entrare in un cinema… E non sapere a cosa vai incontro, come quelle sere in cui non hai la minima voglia di sapere cosa berrai, chi incontrerai, ne perché, ne se tornerai con i tuoi piedi in casa, o se sarà il tuo letto ad accoglierti.
Io stasera sono entrato in un cinema… E non credo d’aver visto esattamente ciò che con comodità usiamo definire film… perché aveva un’energia al suo interno differente, in toto… Dallo schermo mi arrivavano un flusso di immagini, colori, suoni, sguardi, parole, silenzi che io, in tanti anni di fedele e felice capitolazione alla 7° arte, ora non saprei trovare facilmente similitudini e termini di paragoni per dirvi qui, ora, a cosa somigli questo caleidoscopio qui descritto. Il film racconta l’elaborazione di un lutto, all’interno di una coppia, e la storia potremmo anche chiuderla qui, ma il punto è nella delicatezza con cui questa viene tracciata, nell’equilibrio chirurgico di colore usato dal regista per trascrivere anche “cromaticamente” lo stato d’animo del protagonista. Ed io mi son bloccato dietro decine di inquadrature filmicamente perfette… Nel rallenty usato come cesello nei momenti di maggiore pathos… Nei silenzi che il regista direziona come pugnalate rumorosissime dritte al petto di chiunque abbia avuto un fremito per una persona amata, cercata, e poi svanita appena ci voltavamo….Vi sono momenti di assurda ilarità scavati all’interno di ritagli tragici che qui non racconto per non anticiparvi una singola briciola di questa sinfonia per occhi e cuore. E questo piccolo trafiletto nel quale mi pregio di indicarvi un qualcosa che mi ha emozionato non intende essere un consiglio nell’indirizzarvi verso questa pellicola. Perché occorre un cuore pronto e colmo, per vedere questo film…
Un’anima sporcata dalla vita fino nel profondo….Un respiro possente, ma silenzioso, capace di auto-ascoltare ogni singolo scricchiolio circostante…
A costoro, e solo a costoro, io dico: FORSE DOVRESTE VEDERLO

Il Film - E' il 1962 e la guerra nucleare sembra imminente. La paura pervade il mondo. I valori sociali sono rappresentati in termini eccessivamente semplicistici, in bianco e nero, ma le complessità delle relazioni umane sono aggrovigliate allora come oggi. Ambientato a Los Angeles all'apice della crisi missilistica di Cuba, A SINGLE MAN narra la storia di George Falconer, un professore universitario inglese di 52 anni [Colin Firth], che fatica a trovare un senso alla propria vita dopo la morte del compagno Jim [Matthew Goode]. George vive nel passato e non riesce a vedere il suo futuro. Nell'arco di una giornata, in cui una serie di eventi e incontri lo porta a decidere se la vita dopo Jim abbia un senso oppure no, George trova conforto nella sua più cara amica, Charley [Julianne Moore], una splendida 48enne, anche lei alle prese col suo futuro. Un giovane studente di George, Kenny [Nicholas Hoult], che sta iniziando ad accettare la propria omosessualità, perseguita George e lo considera l'anima gemella...

fonte scheda http://www.comingsoon.it/

martedì 26 gennaio 2010

Quattro chiacchiere al bar: rassegna letteraria analcolica!!!

La Pro Loco Ruffano, in collaborazione con Lupo Editore, presenta la rassegna Quattro amici al bar (Chiacchiere letterarie) che si svolgerà in due serate, il 28 gennaio e il 12 febbraio 2010, presso il Bar La Grotta, in Largo D’Annunzio, a Ruffano. Giovedi 28 gennaio, alle ore 19.00, si terrà la presentazione del libro “Maravà” di Gianni De Santis (Lupo Editore), alla presenza dello stesso autore, di Rocco De Santis, fratello dell’autore e come lui noto e apprezzato cantore in lingua grika,di Raffaele Polo, giornalista e scrittore, e di Maurizio Nocera, docente universitario, scrittore e poeta. Letture a cura di Anna Maria Mangia.
Venerdi 12 febbraio, alle 19.00, saranno presentate tre opere poetiche, sempre edite da Lupo: “Divento” di Anna Maria De Luca, “Come fanno le serpi a primavera” di Patrizia Ricciardi, “Altri versi” di Elio Ria. Ne parleranno Stefano Donno, scrittore e poeta, direttore della collana “Ciribibi” nella quale sono pubblicati questi libri, e Pierluigi Mele, scrittore e attore. Letture a cura di Anna Maria Mangia. Sarà offerto un rinfresco dal Bar La Grotta. Alla fine delle serate, “Cena letteraria” presso il Ristorante Maturo di Ruffano, per quanti vorranno continuare ed approfondire la conoscenza degli autori e dei relatori dei due incontri letterari.

I libri:

1) Maravà di Gianni De Santis (Lupo editore)

“… ma noi cosa potevamo sapere, se guardavamo in alto immaginando di raggiungere il cielo per liberare il volo sulle ali della nostra fantasia? Correvamo nei campi spiccando salti incredibili, felici sui nostri piedi di gomma e ad ogni salto lasciavamo indietro un pezzo del nostro tempo, catapultati verso la strada del nostro destino…”. Devono essere sicuramente di gomma i piedi dei primi astronauti sbarcati sulla Luna, per consentire loro la lievità degli angeli. È quello che credono due ragazzini legati fin dalla prima infanzia da un ferreo vincolo di amicizia e dal sogno condiviso di volare: verso il futuro, verso la vita. Ma la vita a volte separa e dal sud semplice e agreste in cui è nato Antonio si trova quasi sperduto nelle solitudini e nelle fatiche di una precoce emigrazione. Decine di lettere mantengono vivo il rapporto con Raffaele, l’amico lontano. Al paese c’è anche Maria ad attenderlo, col suo amore sfuggente e possessivo, con i suoi sogni incapaci di venire a patti con la realtà. Antonio, Raffaele, Maria segnano tutti di “volare”, ciascuno a modo suo, andando incontro ad un destino che tradisce la loro giovane esistenza. Il romanzo parla di questa preziosa scoperta, dimostrando come dalla prigionia del corpo possano spuntare ali per lo spirito e grata consapevolezza degli affetti da cui si sono ricevuti gioia e nutrimento. Una intensa storia umana, un inno alla vita e all’amicizia.

2) Elio Ria, Altri versi Lupo editore

Pubblicato dall’editore di Copertino “Lupo”, “Altri versi” di Elio Ria è un’interessante raccolta poetica. Il libro si apre con questi versi: “le mani sudano speranza oltre la ragione, e / gli occhi pietrificano nella clausura del dubbio / nella stanza ovattata della memoria” (p. 5). Partendo dalla “clausura del dubbio”, la poesia di Elio Ria percorre fino in fondo la strada dell'irrequietezza spirituale dell'uomo contemporaneo. Se possiamo definire questa una “poesia metafisica” e filosofeggiante, altrettanto semplice sarà comprenderne la motivazione più intima: attraverso l’invocazione e la preghiera, così come l’immaginario biblico propone con la figura del profeta Isaia (nel sogno di Isaia la preghiera è rappresentata da una scala tra terra e cielo) la realtà del vivere quotidiano diventa una continua ricerca di sé in senso morale, prerogativa tanto cara alla letteratura del secolo scorso e in aperta polemica con il nichilismo etico del mondo contemporaneo. Scrive Ria: “senz’anima in un cielo sciupato / incompleto e disadorno / arranco in controverse verità / Edulcoro la realtà / invento dogmi immateriali / disperdo nella follia il limite” (p. 12). Oppure: “ho messo piede nel bosco / il cuore strozzato dall’angoscia / rendeva il cammino incerto / ho provato con le mie mani lunghe / ad accarezzare i rami muscolosi / degli alberi fieri ma sonnambuli / in quel mondo di quiete / io sulla barella dell’urgenza / rinsavito dal profumo pungente / ho ceduto il sonno per la vita” (p. 26). Ora, sul piano tecnico, i versi proposti da Elio Ria non possono definirsi di certo originali, ma dimostrano di possedere la sufficiente solidità stilistica per essere letti e apprezzanti. Elio Ria è nato a Tuglie (Le) nel 1958. Ha in precedenza pubblicato altri lavori, tra cui ricordiamo la raccolta poetica “La mia solitudine” (Kimerik, 2007).

3) Patrizia Ricciardi, Come fanno le serpi a primavera (Lupo editore)

Ognuno di noi è un'isola. Anzi no. Ce lo dimostra Patrizia Ricciardi, con questa sua prima pubblicazione, una raccolta di poesia, che giunge ora, dopo un'intera vita a scrivere. Si intitola “Come fanno le serpi a primavera” la silloge edita da Lupo, che raccoglie le liriche di questa poetessa salentina, di argomento assai vario, anche se sono rintracciabili moltissimi topoi presenti nella poesia locale, dalla più classica di Vittorio Bodini a quella più postmoderna di Salvatore Toma, cui è dedicato un componimento, tra qualche rima e assonanza assolutamente non casuale e versi in vernacolo che fanno entrare nell'atmosfera. Si rintraccia un Salento fatto di colori e odori, case bianche di tufo e lune della notte di san Martino, fiori dai nomi apparentemente esotici, ma che “fanno casa”, tra animali, proprio come accade nella vita reale dell'autrice. Accanto all'intimismo dei sentimenti personali esiste un filone di lotta e di ideali, che esprime dissenso contro la guerra denunciandone gli orrori e si augura fiducioso un futuro migliore per l'intera umanità. Si legge nella prefazione di Donatella Neri: “La poetica di Patrizia Ricciardi è così, di totale adesione al dolore del vivere e alla continua rinascita che il dolore comporta, capace di sdegno e amarezza come accoglienza dolce al nuovo”. (Angela Leucci)

4) Anna Maria De Luca, Divento (Lupo editore)

Desiderio e assenza, libertà e perdita , eros e solitudine, confinano con il silenzio. Anna Maria De Luca fa della poesia la cifra che del silenzio scioglie i nodi e ne fa scaturire la voce. Parola che sembra plasmarsi dentro un gioco linguistico d’invenzione, nel linguaggio cifrato della fantasia, dove il tempo, non quello reale ma quello della scrittura e del racconto, è un lemma di alta frequenza nel tessuto verbale, in quell’attesa dell’epifania dei segni slegata dalla realtà.
Non si conosce la grammatica, tutto resta fuori e hanno forza solo le parole senza notizia che delineano una traccia nell’arrendersi all’altro mediante Verba, pensiero del tu. Parole coscienza-conoscenza-appartenenza a quel “In principio era il Verbo”, parole ripulite di tutto l’artefatto, maglie di una catena del sentire. Parole, gioco di parole, parole soffocate, graffiate, smaterializzate, scarne, essenziali. “Pa-ro-le, pa-ro-le, solo parole impastate di terra rossa e acqua di mare. Parole sempre acerbe, come l’Amore errabonde nel reticolo cangiante delle vene o imbrigliate nel cuore incastonato nei denti”. Parole, in cui affogare mille pensieri, sui mari d’inchiostro nell’attesa, scandita dal silenzio, del sole splendente di vita. Parole-rete per entrare in sintonia con la verità del mondo in un’atmosfera aurorale. Limpide, trasparenti, energiche. Parole-eros, palpitanti, pulsanti, in cui fluttuano i pensieri nei ritmi della materia. Materia e cuore sembrano coagularsi nei versi di Anna Maria De Luca: “ E la malinconia è una serpe lunga e sottile che si raggruma nello stomaco. E che porta lontano, come il treno dell’addio”. Parole che s’incarnano nell’eros, volto dell’anima, nella seduzione di certi gesti, nella magia sconcertante di certe esperienze, in cui l’io/altro diventa “rasoio tagliente… tra le socchiuse gelosie ardente”, nella musicalità seducente di quell’“ente-ente” dove l’io/tu è rappresentato da interminabili file di stanze incatenate in un noi. E’ la sacralità dell’amore che si consuma in quella della parola attraverso icone e immagini nelle quali sopravvivono fisicità e metafisicità. Catene, catene, cuore incatenato e parole che lasciano correre un battito prepotente, intermittente, a volte, spesso, bloccato in un pensiero fisso, in un tormento, “in una raffinata melodia sigillata in una conchiglia avvitata sul cuore”. Amore-prigione, chiuso nella bontà, bloccato nell’abitudine, nella fissità, nella tirannia, nella gelosia. Amore che non concede il lusso della fuga e “tuttavia qualcosa risplende nel silenzio”. Parole luce sulla carta, quelle dell’autrice, non parole-moneta né macchine remuneratrici. Parole apoftègma, frutto di germinazione nel silenzio, nel dolore, in cui il lettore gusta l’evento della donazione in un andare nella parola-scrittura, nella parola-dono. Ed è vero Poeta colui il quale ci fa gustare la forza delle parole.

Info: 348.1306103 338. 9821988
www.prolocoruffano.com

David Foster Wallace visto da Vito Antonio Conte

“Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: - Salve ragazzi. Com'è l'acqua? - I due pesci giovani nuotano un altro po', poi uno guarda l'altro e fa: - Che cavolo è l'acqua?”. (...)
Perché David Foster Wallace sì è suicidato?
“Ci sono due tizi seduti a un bar nel cuore selvaggio dell'Alaska. Uno è credente, l'altro è ateo, e stanno discutendo l'esistenza di Dio con quella foga tutta speciale che viene fuori dopo la quarta birra. L'ateo dice: - Guarda che ho le mie buone regioni per non credere in Dio. Ne so qualcosa anch'io di Dio e della preghiera. Appena un mese fa mi sono lasciato sorprendere da quella spaventosa tormenta di neve lontano dall'accampamento, non vedevo niente, non sapevo più dov'ero, c'erano quarantacinque gradi sottozero e così ho fatto un tentativo: mi sono inginocchiato nella neve e ho urlato: - A quel punto il credente guarda l'ateo confuso: - Allora non hai più scuse per non credere, - dice. - Sei qui vivo e vegeto -. L'ateo sbuffa come se il credente fosse uno scemo integrale: - Non è successo un bel niente, a parte il fatto che due eschimesi di passaggio mi hanno indicato la strada per l'accampamento”. (...)
Perché David Foster Wallace si è suicidato?
Forse, anzi senza forse, la domanda giusta, pensando a Wallace, per quel poco che di lui so, è: perché, nel genere umano (ma, almeno sembra, anche in quello animale: penso agli elefanti che si lasciano morire... o a certi spiaggiamenti sospetti di cetacei... o -pure- a certi voli insensati delle rondini...), alcuni compiono gesti d'irrimediabile autolesionismo? Perché? Tradotta in tutte le lingue, questa parola (why, pourquoi, warum...), riferita alla fine autoinflitta, significa sempre e soltanto un interrogativo senza alcuna risposta univoca. Quand'ero universitario (Facoltà di Giurisprudenza, come tutti quelli che non sapevano cosa cazzo fare nella vita -nel mio caso, però, avendo chiaro cosa volevo farne della vita-), rammento che per sostenere l'esame di “Sociologia” (mutuato dalla Facoltà di Magistero) bisognava studiare tre testi: il primo: non so di chi fosse né come si titolasse (e, invero, mi sfugge anche il contenuto), il secondo: “La devianza” di Tamar Pitch, il terzo: “Le tappe del pensiero sociologico” di Aron Raymond. Un mio conoscente -poco più che ventenne...- si era buttato sotto un treno... e nessuno -al mio paese- aveva compreso le ragioni di quel gesto. Pochi, forse, se l'erano chiesto davvero. Io ne parlai con qualche mio amico. E non trovammo risposte. Esaurienti, intendo. Fu anche per questo se decisi di fare quell'esame. Per approfondire. Leggendo chi l'argomento aveva trattato approfondendolo. Così incontrai Aron Raymond e... il suicidio... sulla carta. Quello che cercava di spiegare i motivi del suicidio reale. In particolare, mi colpì quanto era stato elaborato, in proposito, da Emile Durkheim. Dopo aver chiarito che la sociologia non è (e non dev'essere) una filosofia della storia con la presunzione di scoprire le regole generali che improntano la marcia del progresso dell'intera umanità, nè una metafisica in grado di determinare la natura della società, né psicologia o filosofia, Durkheim affermò che la sociologia è una scienza -autonoma e diversa dalle altre scienze- il cui oggetto di indagine specifica dovevano essere i “fatti sociali” (intesi “come delle cose” del tutto irriconducibili ai “fatti della coscienza individuale”, anzi determinanti questi ultimi). “Quasi tutto ciò che si trova nelle coscienze individuali viene dalla società”: è un pensiero di Durkheim che spiega bene il concetto sopra espresso. E, all'un tempo, una qualche affinità e la distanza di tale pensiero da quello di Wallace... Dopo aver discusso della predisposizione psicologica e della determinazione sociale del suicidio, Durkheim distinse, basandosi su delle comparazioni statistiche, tre tipi di suicidio inerenti tre tipi di solidarietà sociale. Il suicidio altruistico: provocato da motivi sociali, come quando un uomo si uccide per evitare il disonore, o come quando una persona anziana di una tribù nomade si toglie la vita per evitare di essere di peso al gruppo (probabilmente quello più vicio al mondo animale). Il suicidio egoistico: tipico di una situazione sociale in cui prevalgono la responsabilità, l'iniziativa individuale e la libera scelta personale. Il suicidio anomico: anomia è una situazione sociale in cui non esistono più leggi e regole, ovvero le stesse sono confuse e contraddittorie. In tale situazione, anche se il gruppo permane, non c'è più solidarietà e l'individuo non ha più punti di riferimento. L'anomia è uno stato di disordine e Durkheim si rese conto che la percentuale dei suicidi aumentava nelle epoche di forte depressione economica e di dissesto sociale, siccome cresceva pure nei periodi di prosperità inattesa e improvvisa: la depressione e la prosperità porterebbero, secondo Durkheim, al crollo delle aspettative e con ciò all'aumento dei suicidi. Non aggiungerò altro su Durkheim e sulle sue teorie. Rifletto soltanto che -forse- il suicidio anomico è quello più calzante alla condizione umana attuale. Senza con ciò risolvere alcunché, ovvio! C'è che mi riesce di estrema difficoltà comprendere i motivi del suicidio. In generale. E di Wallace, in particolare. Per quanti ce ne possano essere. Non è che non comprendo le ragioni di un suicidio... Ripeto, ce ne sono infinite. È che -pur avendoci pensato- c'è qualcosa che mi sfugge. E non mi interessa il coraggio ovvero la vigliaccheria che inducono a farla finita. Non è questo. Non sono i suicidi in carcere, né quelli per disperazione, impotenza, sofferenza, delusione o male di vivere... Qualcosa mi sfugge e non vi tedierò più con le domande, però chiedetevelo. Forse, nel caso di Wallace, la chiave è il concetto di “disadattato” a poter aprire uno spiraglio. Forse, è nella natura delle cose. So che, se non avessi saputo che Wallace si è impiccato (e non tirato un colpo d'arma da fuoco alla testa...), non avrei mai immaginato, dopo aver letto “Questa è l'acqua” (Einaudi Stile Libero), che David Foster potesse compiere un simile gesto... per quanto Durkheim... l'avesse già detto. “Questa è l'acqua” è stato pubblicato nel primo anniversario della morte di Wallace e raccoglie sei testi, di cui quello che dà il titolo al libro è l'ultimo ed è la trascrizione del discorso che DFW tenne nel 2005 ai laureandi del Kenyon College. “Questa è l'acqua” è il mio primo vero contatto con DFW. E ringrazio Cristina, che mi ha fatto dono di questo libro. Un libro che dovrebbe essere inserito nell'elenco dei libri di testo di ogni scuola, di ogni ordine e grado. Un libro che suggerisce un modo altro di imparare a pensare. Un libro che sposta il sentire dalla “modalità predefinita”, dall'attenzione naturale e codificata puntata sul proprio ego, all'ascolto delle voci e dei silenzi esterni che, invero, coincide -se impariamo a come e a cosa pensare- con quel che succede dentro depurato dalle modalità predefinite. “Il cosiddetto non vi dissuaderà dall'operare in modalità predefinite, perché il cosiddetto degli uomini, del denaro e del potere vi accompagna con quel suo piacevole ronzio alimentato dalla paura, dal disprezzo, dalla frustrazione, dalla brama e dalla venerazione dell'io. La cultura odierna ha imbrigliato queste forze in modi che hanno pèrodotto ricchezza, comodità e libertà personale a iosa. La libertà di essere tutti sovrani dei nostri minuscoli regni formato cranio, soli al centro di tutto il creato. Una libertà non priva di aspetti positivi. Ciò non toglie che esistano svariati generi di libertà, e il genere più prezioso è spesso taciuto nel grande mondo esterno fatto di vittorie, conquiste e ostentazione. Il genere di libertà davvero importante richiede attenzione, consapevolezza, disciplina, impegno e la capacità di tenere davvero agli altri e di sacrificarsi costantemente per loro, in una miriade di piccoli modi che non hanno niente a che vedere col sesso, ogni santo giorno. Questa è la vera libertà. Questo è imparare a pensare. L'alternativa è l'inconsapevolezza, la modalità predefinita, la corsa sfrenata al successo: essere continuamente divorati dalla sensazione di aver avuto e perso qualcosa di infinito... Per come la vedo io è la vertà sfrondata da un mucchio di cazzate retoriche... Qui la morale, la religione, il dogma o le grandi domande stravaganti sulla vita dopo la morte on c'entrano. La Verità con la V maiuscola riguarda la vita prima della morte. Riguarda il fatto di toccare i trenta, magari i cinquanta, senza il desiderio di spararsi un colpo in testa. Riguarda il valore vero della vera cultura, dove voti e titoli di studio non c'entrano, c'entra solo la consapevolezza pura e semplice: la consapevolezza di ciò che è così reale e essenziale, così nascosto in bella vista sotto gli occhi di tutti da costringerci a ricordare di continuo a noi stessi: . Farlo, vivere in modo consapevole, adulto, giorno dopo giorno, è di una difficoltà inimmaginabile...”. Sono appena andato a votare alle primarie. Ho pensato alla mia esperienza, a quella che ho acquisito con la modalità predefinita. A quelle di altri, per quanto posso. Poi, a quella di dentro. Ho segnato Nichi Vendola con la matitona nera/black/noir made in China... Spero che vinca lui. Ché ho ancora -nonostante tutto- voglia di vedere come andrà a finire.
Chissà?
Quando leggerete questo pezzo lo sapremo tutti.
Chissà?
Nichi, secondo me, lo sa.
Pur continuando, anche lui, a chiedersi: - Perché si è ucciso DFW?

fonte iconografica: http://theexperiencegalleryblog.files.wordpress.com/2009/08/david-wallace.jpg

lunedì 25 gennaio 2010

Da "Il tempo di Woodstock" di Ernesto Assante e Gino Castaldo (Laterza) a "1969" di Riccardo Bertoncelli (Giunti). Intervento di Nunzio Festa

Ci sono alcuni libri che chi ama la musica non può non avere. In questo breve articolo, che con fare rispettosissimo ci permettiamo di redigere, propongo soltanto alcuni aspetti d’almeno due di questi: “Il tempo di Woodstock” e “1969". Storia di un favoloso anno rock da Abbey Road a Woodstock”; il primo è firmato da Ernesto Assante e Gino Castaldo, il secondo da Riccardo Bertoncelli. Il lavoro di Assante e Castaldo è dato alle stampe presso l’editore Laterza, quello di Bertoncelli presso Giunti. A Bethel, ricordano innanzitutto Castaldo e Assante, a circa un’ora d’automobile da New York, esiste addirittura un Woodstock Museum. Dove per tredici soli dollari ti fanno fare un giro nell’atmosfere di quaranta anni or sono. Ma al di là e al di qua delle idee yankee, la coppia di giornalisti e critici musicali dice per esempio che Woodstock fu “l’effetto generato da anni di controcultura, come la materializzazione di visioni coltivate da una generazione che, come mai prima nella storia, aveva varcato il confine tra la realtà e l’immaginazione”. Inutile ricordare, per dar prova d’esempi, chi e quanti musicisti e non solamente musicisti salirono su quel palco (Santana, Joplin ecc.). Invece citiamo un altro angolo del volume, dove parte addirittura una tesi almeno da valutare: “secondo molti la scintilla potrebbe essere stata l’assassinio di Kennedy, è indubbio che l’elezione rappresentò un potente segno di cambiamento (…), allo stesso tempo è verosimile che il uso assassinio abbia provocato una forte reazione anche in quel mondo giovanile che all’alba di quel decennio stava cercando nuovi padri simbolici”. Un po’ come per un pezzo della nuova e giovane storia di Obama. Ma siamo in altri mondi. Bertoncelli, in un certo senso, è persino capace d’ampliare lo sguardo. In “1969” il critico Riccardo Bertoncelli forma quasi un’enciclopedia. Guardando al rock quale “sintesi potente di novità e modernità”, l’autore spiega - pubblicazioni di quell’anno in mano - di concerti e di festival. Di dischi e storie. Passando, con maestria, attraverso, appunto “l’estate di Woodstock e l'autunno cupo di Altamont, l'ultimo anno dei Beatles e la rinascita di Dylan”… Il volume si serve d’una dettagliata e puntuale cronologia dell’anno, e tante immagini. I testi, in sostanza, possono essere persino sfogliati in parallelo.

domenica 24 gennaio 2010

Sl: Second life ovvero finalmente si può vivere due volte. Intervento di Maria Beatrice Protino



















China Tracy è il nome dietro cui si nasconde la cinese Cao Fei (www.caofei.com): China è il suo Avatar, la sua rappresentazione digitale in ambiente tridimensionale o virtuale. Cao Fei vive a Pechino, è ai vertici dell’arte cinese contemporanea, addirittura tra i candidati al prossimo Hugo Boss prize, il premio per l’arte contemporanea che si svolge ogni due anni, coordinato Guggenheim Museum di New York e che annovera tra i vincitori artisti del calibro di Matthew Barney e Tacita Dean. Nei primi mesi del 2009 inaugura la sua città virtuale Sl, Rmb city (www.rmbcity.com) e ad Art Basel Miami la sua galleria Lombard-Fried Project si trasforma in una sorta di agenzia immobiliare che con video e brochure vende spazi virtuali a prezzi molto reali, dagli 80mila ai 200mila dollari. Basta connettersi a www.secondlife.com per ritrovarsi in una comunità virtuale tridimensionale creata nel 2003 dalla società americana Linden lab.
Gli utenti iscritti e partecipanti sono quasi 10 milioni, i frequentatori attivi 1 milione e mezzo, ognuno dei quali ha un personaggio che lo rappresenta in un vero e proprio gioco di ruoli. Per entrare in Sl occorre essere maggiorenni, crearsi un account, scegliere un nome e costruirsi l’avatar, tutto gratuitamente. In un’intervista rilasciata da Cao Fei alla giornalista Cristiana Campanini per Arte, l’artista dichiara che, anche se non ha mai cercato di fuggire dalla sua realtà, «l’attenzione è sempre stata alta verso qualsiasi stato d’animo che permettesse un’evasione», come avesse una nostalgia del fantastico. «C’è un punto d’incontro tra la vita reale e quella virtuale ed è dura, a volte, separare i sentimenti. Sl è un luogo in cui riflettere sulla nostra vita e le nostre aspirazioni». Così, dice l’artista, quando China Tracy ha una storia d’amore in i.Mirror -il celebre documentario su Second Life da lei proposto alla Biennale di Venezia nel 2007 e in cui l’artista affronta il tema dello spazio virtuale come inquietante specchio della realtà - la storia d’amore che vivrà China probabilmente apparterrà anche a Cao, perché «è un sentimento indefinibile, che unisce reale e virtuale, distanza e immaginazione, perfezione astratta digitale e spazio-tempo del nostro quotidiano». È un progetto di cultura contemporanea a cui lavorano una decina di persone. La città creata è utopica e l’ispirazione si rifà alle metropoli cinesi contemporanee. «Si vendono edifici virtuali a musei e collezioni private. Poi lavoriamo insieme agli acquirenti per sviluppare idee per quegli edifici. Dopo due anni, le collezioni ricevono un lavoro tangibile da China». Il progetto appare molto originale, perché non risponde a esigenze d’intrattenimento tipiche della società virtuale: la città è aperta, sfuggente e tende a tenere profondamente separate le due realtà, reale e virtuale. Provare per credere.

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sabato 23 gennaio 2010

"Olive Kitterdge”, di Elizabeth Strout (Fazi Editore). Intervento di Vito Antonio Conte

Nella seconda pagina del primo racconto di questa raccolta, che tale esattamente non è (vi dirò poi perché), c'è un tratto dell'indole di uno dei personaggi (che ho amato molto: sia il tratto che il personaggio: Henry Kitteridge) racchiuso in una sola frase: “Ascoltare faceva parte della natura di Henry...”. Si tratta di una nota caratteriale che, indubbiamente, appartiene anche a chi questo splendido libro ha partorito e che permea ogni parola della sua bellissima scrittura. Non è una raccolta di racconti perché -anche se il libro è scandito da tredici spaccati d'esistenza in altrettanti capitoli- ogni singola parte è collegata alle altre, sì che le vite dei personaggi risultano, pur nella loro autonomia, fitte d'intrecci e, comunque, legate tra loro da un filo, neppure tanto sottile, ch'è nei loro rapporti più o meno prossimi con la famiglia Kitteridge e, in particolare, con Olive Kitteridge (moglie di Henry). Il libro è, appunto, “Olive Kitterdge”, di Elizabeth Strout (Fazi Editore, Collana “Le strade”, pagine 383, € 18,50). Questo (cioè quel che avete letto fin qui) ho scritto il 17.1.2010, di mattina, dopo aver finito di leggere “Olive Kitteridge”. Da quella domenica mattina, ne sono accadute di cose. Altri libri. Altra vita. Vita. E libri. Della vita sto ancora scrivendo. Dei libri (“Questa è l'acqua”, di David Foster Wallace, e “Le perfezioni provvisorie”, di Gianrico Carofiglio), intanto letti, sciverò un'altra volta. Forse. Così, per dirvi della vita. Adesso ho acceso un incenso (Satya, Sweet Amber), per confondere la puzza di fumo dell'ennesima marlboro. E... respiro entrambi. Bevo il secondo bicchiere dell'ottima fantasia di rhum e lascio che il CD di Glenn Miller (In The Mood) avvolga con le sue note questa scrittura. Per dire che “Olive Kitteridge” è un gran bel libro, un romanzo per il quale la definizione di capolavoro non è specata. Ché di capolavoro si può parlare, riferendosi a un libro, quando la storia in questione riguarda qualcosa di assolutamente anonimo e sconosciuto ai più e -traverso la narrazione- diventa universale e -traverso quella narrazione- diviene unica e -traverso proprio le parole di quella (e di nessun'altra) narrazione- è resa immortale. Diventa universale perché strappata all'angolo recondito della geografia e della storia cui apparteneva e, resa nota, giunge a chi vuol conoscerla e chi la conosce ne rinviene respiri che appartengono a ognuno, senza distinzione di tempo e latitudini. Diviene unica perché l'unicità assume rilevanza soltanto se e in quanto inserita in contesti altri e in altri contesti. Immortale perché irripetibile. Tutto questo ha fatto Elizabeth Strout dando alla luce questo libro di meraviglia. Crosby, nella scrittura della Strout, non è più soltanto un paese perduto nel Maine, nel Nord America, che guarda sull'Oceano Atlantico, dove pescatori e altra varia umanità consumano giorni d'esistenza senza apparenti momenti degni d'essere fermati e/o ricordati. Elizabeth Strout, affidando la narrazione alla terza persona, mettendo “Olive Kitteridge” ai margini di ogni storia, fa diventare tutte le microstorie centro del romanzo, sì che Olive e il suo essere nel tempo, il suo divenire nel tempo, il suo macerarsi nel tempo, assumono i contorni dell'eterno ripetersi di ogni umana avventura e disavventura. Ripeto: in maniera non clonabile. Ché questo, in fine, è ciò che importa di ogni vita, di là d'ogni elemento di reiterazione naturale e non. Naturalmente necessario e non. Imposto e non. Ovunque. Sempre. Comunque. Quel che davvero conta, oltre tutto (oltre tutto, oltre tutto), è proprio quella indicibile singolarità che ogni vita contiene. Che ogni individuo contiene. Che ciascuno contiene. E, a questo punto, potrei (e dovrei!) aggiungere qualcosa (e/o più di qualcosa...) intorno al relazionarsi, all'essere sociale, al gruppo e altre cazzate più o meno interessanti, ma sorvolo ex abrupto, ché i pezzi che prendono una pagina intera dei quotidiani (salvo rare eccezioni) non mi sono mai piaciuti. Ergo, mai propinare agli altri quel che non piace a te stesso. Ogni riferimento biblico è del tutto casuale. C'è che tutto l'indicibile (di cui ho fatto parola qualche rigo su) è stato detto dalla Strout in questo libro. E, raramente (per mio difetto, all'evidenza), ho trovato in un romanzo quell'indicibile detto così bene. Tanto bene che non so dire. O, forse, non voglio. O, per il vero, credo sia sufficiente quanto ho scritto per invogliarvi a leggere questo romanzo di cui si sentirà ancora parlare a lungo. Non perché questo sia il mio fine. Non perché questo libro necessiti delle mie parole. Ma perché mi andava di condividere qualcosa. Come sempre, quando scrivo.

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venerdì 22 gennaio 2010

FELICIDADE CLANDESTINA – CLARICE LISPECTOR ( EDITORA ROCCO) . Intervento di Adriana Maria Leaci

O pequeno livro de contos que encontramos nas mãos è como um diário de recordações. Algo que devemos guardar para matar as saudades e reviver as emoções de um tempo. Não seria estranho que pessoas de qualquer sexo ou idade, ainda hoje, se achem dentro dessas páginas, porque Clarice consegue sentir o que os outros sentem. Um retrato múltiplo de várias épocas da sua vida que seguem com muita semelhança o mesmo curso que seguiram outras vidas, numa período em que a mulher brasileira ainda “servia”, e ser uma grande observadora do “íntimo” dos seres humanos não era competência para qualquer um. Este volume não é um dos mais conhecidos de Lispector mas, é, sem dúvida alguma, uma das suas obras mais intensas. Seguindo um roteiro autobiográfico e inspirando-se em conceitos simples de pura metafísica, se identifica com um estilo de total ruptura com qualquer linha de escritura da sua geração. Mas falar de geração não tem sentido. Clarice Lispector possuiu a chave de todos os tempos, escrevendo como se fosse um oráculo de sentimentos, que pode ser consultado pelos leitores de todas as gerações.

Felicidade Clandestina nasce primeiro como um conto para o Jornal do Brasil, ao que seguiram outros mas, quando a mesma Clarice percebe que estão para acorrentá-la num gênero literário, se desprende do compromisso do jornal e escreve outros contos, reunindo 25 entre contos e crônicas num mesmo volume em 1971. A autora desprezava os rótulos que pudessem escravizá-la no tempo. Se sentia livre e só a liberdade lhe daria a inspiração ideal para produzir o que nos presenteia com este livro. Cada vez que foi entrevistada rejeitou conceitos que a definissem, que a colocassem numa posição fixa da literatura brasileira. Clarice Lispector sobrevive a todos os desconcertos, a despeito de quem não acreditava que um mito intelectual pudesse ser sinônimo de mulher. Sua morte prematura devido a um mal incurável não a destacou da terra vivente, pois a sua energia ainda contagia, ainda emociona e conquista os apaixonados pela leitura, que conseguem apreciar tudo o que não é banalidade vendido nas livrarias.

FELICIDADE CLANDESTINA – CLARICE LISPECTOR. EDITORA ROCCO – RIO DE JANEIRO - 1998
LITERATURA BRASILEIRA – CONTOS E CRÔNICAS

giovedì 21 gennaio 2010

L’Italia de noantri di Aldo Cazzullo (Mondadori). Intervento di Maria beatrice Protino

Pubblicato da Mondadori nell’ottobre del 2009, questo de “L’Italia de noantri” è l’ultimo di un giornalista scrupoloso e attento, dal 2003 firma del Corriere della sera, Aldo Cazzullo. "Noantri" fa da trois d’union dell'Italia di oggi, frammentata in clan e famiglie e in cui il dominio dei rapporti personali ha la meglio sul merito. Attraverso un’analisi capillare e appassionata racconta la crisi del Paese e traccia l’identikit dell’italiano nuovo con toni tutt’altro che romantici. Al Nord si evade il fisco e si teme lo Stato come un nemico, si mette a frutto il denaro mafioso proprio come al Sud. «Forse al Nord si evade il fisco meno che al Sud? Forse il traffico è meno congestionato e non si suona il clacson per strada? Forse al Nord non si paga il pizzo, non si pratica l'usura, non si sfrutta la prostituzione, non si cede al racket, non si accolgono gli investimenti della camorra?». Gli italiani, scrive, «hanno gli stessi modelli di riferimento, gli stessi eroi positivi e negati, gli stessi personaggi di culto». Ed ancora: «Gli italiani sembrano aver perso la voglia di sacrificarsi e di lavorare duro e preferiscono ereditare il lavoro piuttosto che cercarselo; il Sud non riesce a esportare il suo frutto migliore, il calore umano; il Paese non è mai stato così frammentato eppure così uguale dal Piemonte alla Sicilia: unificato dall'egemonia di Roma e del Mezzogiorno». Aldo Cazzullo parte dalla sua città, Alba –che oggi vive di turismo quasi come Taormina, dove ancora trent'anni fa «i miei nonni non avrebbero mai mangiato una pizza» e, soprattutto, «come qualsiasi langhetto della loro generazione, non avrebbero mai mangiato per strada» e narra di un passaggio da un Piemonte piccolo borghese ad un Piemonte che ha rinunciato all'idea di diversità dal resto del paese. Narra delle Langhe, cuore dello scandalo del Grinzane Cavour sino ad arrivare a Roma del Palazzo e dei Vanzina, del Vaticano e dei Cesaroni, capitale de noantri sino al Sud, che nel costume e nel linguaggio, dalla mafia a Padre Pio, ha ormai imposto il suo primato culturale al Nord. Il cancro dell’Italia: il “familismo”, il senso di fedeltà e di appartenenza al partito, al burocrate e all'ordine professionale, prevale sul merito. Esso non prospera perché «una mente perversa ne governa le redini, ma perché si fonda su un vasto consenso, o perlomeno su un'inveterata abitudine». Tra i vari fattori di «unificazione nazionale», il giornalista ricorda anche Silvio Berlusconi, «come a suo tempo la Dc e il Duce». Solo che il suo consenso è «distribuito in modo più uniforme» di quello della Dc e, a differenza del Duce, «non ha mai preteso di trasformare gli italiani». Per ultimo entra nella Chiesa, svelando storie di sacerdoti e cardinali, con i retroscena dell'elezione del pontificato di Benedetto XVI. Chiesa, Cei e Vaticano, scrive Cazzullo, sono per gli italiani «una sorta di assicurazione sulla vita eterna», tra fede autentica, consuetudine e «tornaconto politico o personale».

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mercoledì 20 gennaio 2010

“Come fanno le serpi a primavera” di Patrizia Ricciardi (Lupo editore). Intervento di Angela Leucci

Ognuno di noi è un'isola. Anzi no. Ce lo dimostra Patrizia Ricciardi, con questa sua prima pubblicazione, una raccolta di poesia, che giunge ora, dopo un'intera vita a scrivere. Si intitola “Come fanno le serpi a primavera” la silloge edita da Lupo, che raccoglie le liriche di questa poetessa salentina, di argomento assai vario, anche se sono rintracciabili moltissimi topoi presenti nella poesia locale, dalla più classica di Vittorio Bodini a quella più postmoderna di Salvatore Toma, cui è dedicato un componimento, tra qualche rima e assonanza assolutamente non casuale e versi in vernacolo che fanno entrare nell'atmosfera. Si rintraccia un Salento fatto di colori e odori, case bianche di tufo e lune della notte di san Martino, fiori dai nomi apparentemente esotici, ma che “fanno casa”, tra animali, proprio come accade nella vita reale dell'autrice. Accanto all'intimismo dei sentimenti personali esiste un filone di lotta e di ideali, che esprime dissenso contro la guerra denunciandone gli orrori e si augura fiducioso un futuro migliore per l'intera umanità. Si legge nella prefazione di Donatella Neri: “La poetica di Patrizia Ricciardi è così, di totale adesione al dolore del vivere e alla continua rinascita che il dolore comporta, capace di sdegno e amarezza come accoglienza dolce al nuovo”. L'autrice incontrerà i lettori stasera presso Art Café a Maglie, all'interno della manifestazione “Eva + Eva”, nell'ambito della rassegna letteraria “Non può piovere libri per sempre”. L'altra Eva del titolo è la già citata in questo blog Annamaria Mangia, che presenterà il suo “Tredici di me”. Letture a cura di Giovanni Santese e Fernando Bevilacqua. Accompagnamento musicale con Rocco Giangreco degli Arsura alla chitarra. Appuntamento alle 21,30.

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