Finalmente uno che ha letto Charles Michael "Chuck" Palahniuk, che l’ha studiato, anzi, è da credere. 110 pagine – 109 – che si leggono in mezz’ora, leggere nel loro terrificante disincanto, e benedette dal filo rosso dell’ironia. Avete presente Soffocare? C’è molto di Chuck, in questi raccontini che parlano di stupri, serial killer, pedofili ed estreme “second lives” come di cose quotidiane, normali, ormai parte del nostro habitat che s’è giocato ogni pudore e ogni valore, e sopravvive incosciente di se stesso. Ognuno è una piccola bomboniera – di tulle nero, è chiaro – che nasconde confetti avvelenati, ma deliziosi: il precario che esce a comprare l’ascia con cui dissezionare il cadavere della sua affittacamere e viene pestato sul raccordo da un lubrico vecchietto, il pedofilo disgustato da un’anziana checca che l’ammazzerebbe per pietà, l’extracomunitario massacrato nel sebac che s’identifica con gli escrementi attorno, l’Elettra moderna che vendica la madre morta di corna uccidendo il padre satiro e paraplegico con i piatti rotti, quello che resta della furia impotente della genitrice.
E poi la prof. obesa di filosofia che vive una vita virtuale hard e una reale di forzata astinenza (dopo la relazione con un prete, cui ha messo fine letteralmente a morsi), e soprattutto il monologo del serial killer sociologo, che ha ucciso 197 persone in 20 anni con precisione chirurgica, clone italico di Dexter, il racconto più lungo e più ispirato, quasi un testo teatrale, e difatti l’autore è regista e sceneggiatore, e si vede. In un mondo che va a rotoli, che convive con l’orrore su tutte le prime pagine e in tutti i TG, questo signore resta immune – e fieramente – dai “cuori mocciolosi” e dai lucchetti ai lampioni, e racconta ciò che vede proteggendosi con l’unica arma che l’intelligenza ha mentre dilaga il buio della mente, l’ironia vera, quella di Pirandello, che è via di fuga e alternativa alla follia. Non si può raccontare, questo libricino che davvero diverte, e insieme fa pensare senza importelo: bisogna leggerlo, e non è uno sforzo, perché, lo ripeto, è scritto con un lessico famigliare che non l’appesantisce oltre i 30 grammi di carta con cui è fatto, dimostrando che si può parlare di tutto usando le parole come tessere da colorare a piacere.
Come per le “Schegge” di Schifano, non è la dimensione che conta, ma la luce, la grana pastosa che t’ipnotizza davanti al fogliettino: sono solo schizzi, sì, ma fatti bene, infinitamente meglio di colossali tele imbrattate giusto per fare cassa.
Non m’esprimo sui lucchetti ai lampioni, io che porto le catene attorno al cuore e un cuore spezzato tatuato sopra il braccio, ma mai mi sognerei d’incatenarlo a qualcosa. Dico solo che ci ho provato, a leggere quei libri, e non sono arrivato oltre pagina quattro, mentre questo qui non volevo che finisse, e quando l’ho chiuso sono rimasto a rifletterci, in silenzio.
Indubbiamente è tosto, sì, ma non più di un ispirato Tarantino o di una performance di Orlan: è una secchiata d’acqua che ti sveglia, e no, non chiamatelo pulp, parola scagliata da Hank e abusata da tutti gli altri a seguire, soprattutto dopo la fiction di Wolf il risolutore e compagni.
Non chiamatelo pulp, perché pulp fa spesso rima con cool, e il cool questi racconti lo sbeffeggiano con l’acume concreto che ha chi non si fa abbagliare dai lustrini della civiltà dell’immagine, e riesce ancora a cogliere la vera natura delle cose: leggetelo, e basta.
E poi, cercate di credere che sia solo fantasia. Provateci, almeno. Se volete riuscire a dormire.
PICCOLA BOTTEGA DI QUOTIDIANI ORRORI (Con l’insistenza di un richiamo – Francesco Randazzo – Lupo Editore 2009)
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lunedì 27 luglio 2009
Il libro del giorno: Il gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa
Don Fabrizio, principe di Salina, all'arrivo dei Garibaldini, sente inevitaile il declino e la rovina della sua classe. Approva il matrimonio del nipote Tancredi, senza più risorse economiche, con la figlia, che porta con sé una ricca dote, di Calogero Sedara, un astuto borghese. Don Fabrizio rifiuta però il seggio al Senato che gli viene offerto, ormai disincantato e pessimista sulla possibile sopravvivenza di una civiltà in decadenza e propone al suo posto proprio il borghese Calogero Sedara.
"Gattopardismo, gattopardesco, gattoparderia ... Il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha arricchito il nostro vocabolario con sostantivi e aggettivi dalla straordinaria resa espressiva, ricchi di sfumature capaci di definire come meglio non si potrebbe stati d'animo e situazioni storico-ambientali. Il gattopardo è la Sicilia, la sua anima, destino, faccia, e nello stesso tempo metafora della vita, al di là di limiti geografici e politici"
di Matteo Collura tratto da Corriere della Sera del 27/07/09, p. 31
casa editrice Feltrinelli: http://www.feltrinellieditore.it/
"Gattopardismo, gattopardesco, gattoparderia ... Il romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa ha arricchito il nostro vocabolario con sostantivi e aggettivi dalla straordinaria resa espressiva, ricchi di sfumature capaci di definire come meglio non si potrebbe stati d'animo e situazioni storico-ambientali. Il gattopardo è la Sicilia, la sua anima, destino, faccia, e nello stesso tempo metafora della vita, al di là di limiti geografici e politici"
di Matteo Collura tratto da Corriere della Sera del 27/07/09, p. 31
casa editrice Feltrinelli: http://www.feltrinellieditore.it/
domenica 26 luglio 2009
Il libro del giorno: Il mio nome è Legione di Demetrio Paolin (Transeuropa edizioni)
Questo romanzo racconta la storia di Demetrio, giornalista trentenne, e del suo rapporto con determinate figure della memoria, pubblica e privata, che da sempre lo ossessionano e lo influenzano.Il racconto si muove sul filo della deriva psicologica – tra reticenze e confessioni, sprofondamenti nel dramma e soprassalti ironici, non privi del sentimento di una conquistabile felicità: vi si mescolano, come le tessere di un misterioso mosaico di cui si debba ricostruire il disegno originario, le apparizioni di Renato Curcio, il fantasma di Mohamed Atta, il Cristo di Quattordio, la veggente in comunicazione con l’anima di Vittorio Alfieri, le spoglie di Cesare Pavese e l’icona della giovane pallavolista che nasconde nel suo passato il misfatto più grande, l’omicidio della madre e del fratellino – la giovane imperatrice che condensa su di sé i crismi fondamentali della coscienza edipica occidentale. Queste epifanie, collegate alla morte del padre del protagonista, all’infanzia turbata dalla misteriosa disfunzione sessuale del fratello minore e poi al rapporto masochistico/sadico con Giulia e con le donne che in generale popolano la sua esistenza, convincono Demetrio d’essere stato toccato dal male. Un cammino che solo alla fine sembra accennare alla possibilità di trovare un ordine, e di redimere il male senza esorcizzarlo. «Ora ho capito che il male è come per alcuni la grazia. Il male è la mia grazia. Ho accettato che sono male. Così avrò salva la vita. Non essere nel male avrebbe significato essere perduto. Sono nel male e sono salvo.»
"Libro duro, nella sua focalizzazione pervicace sul male e sullo scandalo della sua esistenza, appena velato da un reticolo di citazioni letterarie forse non necessarie, apre uno spazio ipotetico per l'altro scandalo, quello dell'esistenza del bene"
di Dario Voltolini, tratto da Tuttolibri n. 1647, de La Stampa, p. II
casa editrice Transeuropa: http://www.transeuropaedizioni.it/?Page=home.php
"Libro duro, nella sua focalizzazione pervicace sul male e sullo scandalo della sua esistenza, appena velato da un reticolo di citazioni letterarie forse non necessarie, apre uno spazio ipotetico per l'altro scandalo, quello dell'esistenza del bene"
di Dario Voltolini, tratto da Tuttolibri n. 1647, de La Stampa, p. II
casa editrice Transeuropa: http://www.transeuropaedizioni.it/?Page=home.php
Nero di Vito Antonio Conte
Tende da campo. Tante. Grandi, piccole e canadesi. Tutte colorate. Prevale l'azzurro. Fili con biancheria appesa ad asciugare. Auto e furgoni ai margini. Movimento. Poco. Lento. Ma non è un camping. Non sono al mare. Percorro la strada che ogni giorno devo per recarmi al lavoro. A Nardò. Ad appena un kilometro dal passaggio a livello, prima della città, sulla destra, tra gli ulivi, quel riparo improvvisato. No, non è un campeggio. E il colore dominante, a ben vedere, è un altro: nero. Nero d'Africa. Di uomini che non sono in vacanza. Di uomini che aspettano un'occasione di lavoro. Nero. Come il colore della loro pelle. Splendidi uomini d'ebano. Tra panni stesi ad asciugare dalle poche donne presenti. Nere anche loro: bellissime. Il vento asciugherà quegli indumenti, bagnati di sudore. Loro, gli uomini, aspettano un'altra giornata di sole. Attendono che qualche “caporale” bianco li ingaggi per la raccolta delle angurie (ma non solo). Si tratta di “ingaggio” senza regole, qualche volta arriva da un loro “fratello”. Attendono dignitosamente una chiamata. Altri sono per strada, a piedi. Raggiungono la prima stazione di servizio che s'incontra entrando (da Lecce) a Nardò, quasi di fronte allo stadio di calcio, subito dopo la chiesetta nel cui giardino si erge la statua di Padre Pio. Attendono il miracolo di un altro giorno di lavoro. Con dignità statuaria pari a quella del santo. Qualche giorno addietro l'attesa si è materializzata -non nel bianco “caporale”, ma- nelle divise della polizia. Ne hanno portati via una ventina, clandestini. I “caporali” circolano ancora. Per gli “schiavi dell'anguria”, invece, la polizia segna un altro VIA nella loro odissea iniziata con la fuga (dalla guerra, dalla fame, da mille altre insidie...) da uno dei cinquantatre Stati del continente Madre. L'ennesima ingiustizia quotidiana è compiuta. La vedo ogni giorno: sulla pelle luccicante di fatica di questi uomini tra i campi mentre raccolgono questi grandi frutti-sauri tondeggianti succulenti dolci croccanti e dissetanti, li ripongono in grandi contenitori di plastica, li caricano su camion, grandi e piccoli, spesso articolati che raggiungono il Nord d'Italia, dove fette rosse e fresche (del loro sudore malpagato e senza garanzie) vengono vendute a caro prezzo. Li vedo ogni giorno. Ognuno li può vedere, passando da lì. Ogni giorno di tutti gli anni, in questo periodo. In passato trovavano riparo in vecchi fatiscenti ruderi di campagna che il degrado ha fatto crollare rovinosamente. Nessun servizio igienico, nessuna garanzie contrattuale, nessuna tutela per loro. La dignità slavata dalla mancanza di dignità di chi li ingaggia illegalmente e di chi questo permette. Il bisogno sfruttato come sempre. Il sudore lavato dai frequenti temporali di questi giorni che fa di questa Terra sempre più luogo d'Africa caraibica. Io intanto raggiungo il mio Ufficio. Che non è un bell'Ufficio. Ma neppure decoroso. Né idoneo a svolgervi le funzioni cui è destinato. Ne avrei da sprecare parole per dire di quest'altra fatiscenza... Chi di dovere ne è a conoscenza. Da tempo. E non cambia nulla. Ma il mio lavoro, per quanto mal retribuito in un ambiente invivibile, almeno è... “regolare” e non posso lamentarmi se l'immobile in cui è allocato l'Ufficio (del Giudice di Pace di Nardò) in cui lavoro è squallido e in degrado, pressoché senza impianto di condizionamento (che d'estate si schiatta dal caldo), coi caloriferi insufficienti (che d'inverno fa freddo), senza scala antincendio (e già una volta un incendio c'è stato: al piano terra, col Personale al primo piano...), senza alcun sistema di sicurezza, senza alcuna vigilanza, senza collegamenti a internet, intranet e REGE, senza niente di niente, tranne muri scrostati e richieste (…) rimaste inevase (tranne qualche sporadico palliativo che non può chiamarsi intervento...). Eppure a Nardò c'è il Nuovo Palazzo di Giustizia. Proprio vicino al luogo dove sostano gli extracomunitari in attesa di un cazzo di lavoro del loro stesso colore! Dovrei dirla tutta, mi dice Maria. Prima o poi lo farò (e a lei, invero, ho detto sempre tutto... quel che ero, quel che sono, senza reticenze... ciò che voglio... e di solito -poi- non ho riserve mentali con alcuno... e quel prima o poi allora significa altro... sì, prima o poi racconterò un'altra storia, l'unica per cui è giusto vivere di cuore...) Ma, in questo caso, c'è che è sordo chi non vuol sentire e cieco chi non vuol vedere. E allora perché sprecare ancora parole? Le ho già sprecate con chi di competenza! Da tempo. E non cambia nulla! Ma io un lavoro “regolare” almeno ce l'ho. Loro no. E quando arriva è quel che è sotto gli occhi di tutti. Non c'è paragone. Perdio! E lungi da me la tentazione di farne (paragoni). Un dato, però, è comune tra la loro situazione e la mia... Se ne parla. Sempre. Ma non cambia niente. E non posso chiudere così. Avevo promesso che avrei bestemmiato soltanto per qualcosa per cui ne valesse la pena: beh, in questo caso la mia scurrilità è d'obbligo: io la destino a chi so, voi a chi vi pare: vaffanculo! E se proprio devo indicare un'altro finale e dare ancora colore e ritmo a questo pezzo, la cosa migliore che mi viene in mente è il ritornello di una canzone di Enzo Avitabile: “chest'è l'africa favurite/bonappetito”.
sabato 25 luglio 2009
È in libreria "SCANDALOSO OMICIDIO A ISTANBUL" di MEHMET MURAT SOMER (Sellerio editore)
Istanbul, una città con tante anime. Estrema propaggine dell’Occidente, ponte tra Europa e Asia, la città dai mille minareti oscillante tra modernità e tradizione è lo scenario di questo romanzo.
A Beyoglu, il colorato e allegro quartiere occidentale di Istanbul, di notte le strade si animano per la presenza di tanti locali notturni. Un brutto fatto di sangue turba il quartiere: una persona scomparsa, un omicidio, un intrigo complicato. A indagare su tutta la faccenda il protagonista-narratore: elegantissimo, colto, amante della musica barocca, esperto di arti marziali. Non è un detective di professione: di giorno è un esperto informatico, di notte un travestito che gestisce un night club, esponente moderno di una città che non finisce di sorprendere.
Un delitto lo coinvolge in prima persona: è stata uccisa Buse, una delle sue ragazze. L’indagine si svolge fra avventure rocambolesche in una Istanbul infuocata di piena estate, tra le strade del gran bazar e i traghetti sul Bosforo. Ma soprattutto l’autore vuole svelare un mondo, quello dell’omosessualità, che descrive senza infingimenti.
Tradotto negli Stati Uniti (Penguin), in Francia (Actes Sud), Regno Unito (Serpent Tail), il libro è stato accolto molto bene dalla critica che ha visto in questo poliziesco a sfondo sociale un nuovo tassello del “noir mediterraneo”.
Nato ad Ankara nel 1959 Mehmet Murat Somer con questo romanzo ha dato inizio a una serie di noir ambientati nei quartieri caldi di Istanbul. È attualmente il principale esponente della letteratura gay in Turchia, letteratura coraggiosa a metà tra desiderio di svelarsi e richiesta di tolleranza.
A Beyoglu, il colorato e allegro quartiere occidentale di Istanbul, di notte le strade si animano per la presenza di tanti locali notturni. Un brutto fatto di sangue turba il quartiere: una persona scomparsa, un omicidio, un intrigo complicato. A indagare su tutta la faccenda il protagonista-narratore: elegantissimo, colto, amante della musica barocca, esperto di arti marziali. Non è un detective di professione: di giorno è un esperto informatico, di notte un travestito che gestisce un night club, esponente moderno di una città che non finisce di sorprendere.
Un delitto lo coinvolge in prima persona: è stata uccisa Buse, una delle sue ragazze. L’indagine si svolge fra avventure rocambolesche in una Istanbul infuocata di piena estate, tra le strade del gran bazar e i traghetti sul Bosforo. Ma soprattutto l’autore vuole svelare un mondo, quello dell’omosessualità, che descrive senza infingimenti.
Tradotto negli Stati Uniti (Penguin), in Francia (Actes Sud), Regno Unito (Serpent Tail), il libro è stato accolto molto bene dalla critica che ha visto in questo poliziesco a sfondo sociale un nuovo tassello del “noir mediterraneo”.
Nato ad Ankara nel 1959 Mehmet Murat Somer con questo romanzo ha dato inizio a una serie di noir ambientati nei quartieri caldi di Istanbul. È attualmente il principale esponente della letteratura gay in Turchia, letteratura coraggiosa a metà tra desiderio di svelarsi e richiesta di tolleranza.
Danilo Arona, L'estate di Montebuio (Gargoyle Books). Rec. di Silla Hicks
Io sono uno di quelli che la leggono, la prefazione. E spesso da lì decidono se vogliono andare avanti o no. Sono l’esca attaccata all’amo, le prefazioni: ci sono volte che funzionano, altre che sarebbe meglio strappar via le pagine. Questa, è tra quelle del primo gruppo: mette curiosità, e non la soddisfa. Offre spunti, e non li sviluppa. Racconta, senza raccontare la storia, ma solo impressioni, impulsi: il resto, quello è – dovrebbe essere - affidato al libro che segue.
Mi piacerebbe davvero dire che si è rivelato sempre allo stesso livello delle pagine che l’introducono, questo esperimento fiammingo di matrioske una nell’altra. Che il giochino della storia nella storia – la stanza nella stanza della famiglia Aldobrandini – funziona alla perfezione, e l’autore riesce nella sua scommessa giallo-horror, camminando senza scivolare sul filo di un plot che ha le dimensioni di un frattale. Premetto: in realtà, non è che si tratti di innovazione (basti pensare al film nel film della Donna del tenente francese, o, restando nel filone dark, a REC) ma resta un espediente che se riuscito dà naturalezza a storie altrimenti incredibili, ed è questo che è l’orrore, una piccola bottega di cose e vicende assurde, fuori dalla nostra logica, da quello che possiamo vedere e toccare. Perché ci spaventino, devono sembrarci possibili: dobbiamo esserne trascinati al punto da trovarci lì, con l’uomo nero a un metro, non al sicuro dentro a un cinema. Altrimenti, è tutto inutile.
Purtroppo, non sempre è così, per queste duecento e fischia pagine scritte in un italiano trapunto di riferimenti eterogenei il cui filo conduttore è l’opera omnia di King – ma, forse, davvero non è possibile scrivere di orrore lasciandoselo alle spalle - lavorato di cesello anche quando vorrebbe esser basso.
Intanto, la storia, anzi le storie. L’agiografia di una santa semisconosciuta – radiata o no dal calendario non importa – il cui martirio sembra l’opera di un ispirato Ted Bundy, e che riappare nel finale come vendicatrice adolescente, una Milla Jovovich coperta di sangue con in mano uno spadone più grande di lei per la regia di Luc “Leon” Besson.
Poi, l’estate del ’62 e la banda di piccoli protagonisti, Stand By Me di una generazione, prima che tutto cambi e che ciascuno si trovi al suo posto, nelle schiere dei buoni o dei cattivi, e il ragazzino in vacanza diventi uno scrittore, e muoia schiacciato dal peso dei ricordi.
Miriam piccola vittima, e tutte le altre senza nome, sacrificate a un culto pagano da adoratori del grano come Nicholas Cage arso vivo sull’isola de Il Segreto, che magari fosse così facile, e non esistessero mostri travestiti da papà, che fanno infinitamente più paura.
La ragazza morta che compare a provocare incidenti, leggenda metropolitana universalmente nota su cui circolano filmati su You Tube e un film spagnolo carino, di cui non ricordo il titolo.
E – sopra a tutto -il rumore del male, che è quello dei Langolieri (by S.K., of course), e insieme lo scampanellio dei monatti.
Quello che ne viene fuori è un meltin’ pot frenetico, in cui Stephen IT mantiene assieme i pezzi, e sorvolo sull’ amante scosciata/pettoruta/carrierista che diventa detective (protagonista di una fiction di Rete 4?) che si converte alla maternità salvifica, e allo speriamo che sia femmina del finale.
Anche se, in realtà, è la prevalenza – letteralmente, nel senso di superiore valore - di donne che colpisce, come nella saga di Alien.
Sono donne i capi, del bene – Sigourney Weaver - Tenente Ripley uguale la carrierista di cui sopra, e, al sommo livello, santa Milla – e del male – la regina degli alieni, uguale Lisetta cresciuta dalla parte sbagliata, gli aliens con acido al posto del sangue uguale le zannute arpie, e via dicendo.
Gli uomini, solo comprimari: i carabinieri sbranati, il detective che finisce fuori strada, persino lo scrittore Morgan (complimenti per il nome…fosse stato Marco, avrebbe sicuramente convinto di più, e lo dico io che mi chiamo come l’avversario più famoso dell’antica Roma, peccato che della guerra civile siano rimasti in pochi a saperne qualcosa) restano sullo sfondo, non capiscono, e se provano a farlo non trovano il bandolo della matassa e perdono il senno o addirittura la vita.
Solo che il primo Alien è del ’74, se non sbaglio, e all’epoca – popolata da fragili eroine sistematicamente bisognose di essere salvate – si trattava davvero di un nuovo modo di leggere la storia. Oggi, dopo Resident Evil, Tomb Raider e Xena principessa guerriera, è un filone collaudato, come tanti altri.
Quanto al dono di generare dal proprio corpo un altro corpo – sommo mistero/miracolo, alla base del matriarcato e del culto celtico della dea di Avalon, per non dire del Codice da Vinci – non credo si possa dire niente di nuovo.
Tranne, forse, che la maternità non è l’unica dimensione possibile per una donna, ma soltanto una scelta: se la carrierista che si ritrova incinta dopo il suicidio dello scrittore – per inciso: cosa abbastanza incredibile, in un’epoca in cui gli adulti non fanno i bambini per caso - si converte velocemente al nuovo ruolo di mammina, la Pia, ritardata stuprata che muore di parto nella colonia abbandonata e fatiscente, è solo una vittima, del branco, prima, e del mondo, che continua a dormire mentre lei si dissangua nella notte di san Valentino, poi.
Peccato siano solo poche righe. È la parte più riuscita: l’emarginazione, l’indifferenza, lo squallore che le permeano fanno paura davvero.
Perché sembrano – sono – reali.
Circa vent’anni fa, Giordano Bruno Guerri ha scritto un libro, su un’altra martire vergine, Maria Goretti, e sul suo stupratore. S’intitola “Povera santa”, povero assassino.
È lo stesso titolo che meriterebbe questa storia di provincia fonda dove l’ignoranza fa buio nella mente, e il resto – anche l’orrore di Stephen – viene da sé.
La colonia degli orfanelli/vittime di regime poteva essere un ottimo inizio.
Peccato che le metafore soprannaturali abbiamo smorzato la disperazione che poteva venirne fuori, e tenere sveglio chiunque, anche uno come me che non crede in niente che non si può toccare.
Peccato che di King manchi l’orrore più incredibile, quello quotidiano: il bullismo di cui è vittima l’incendiaria Carrie, la famiglia sfasciata del bambino di Cujo. La stanza del figlio, su cui si basa Pet Semetary. Tutto quello che fa davvero paura, nelle storie di quest’uomo del Maine, che non per niente in Danze Macabre dà lezioni di horror.
Ammesso che servano, è chiaro. Perché i libri sono come la musica e i quadri e le torte e i tuffi, e non si può farli identici a quelli di un altro. Ci si può provare per imparare, come gli studenti d’arte che disegnano su blocchi enormi, seduti per terra nei saloni degli Uffizi o del Louvre, con le matite sparse tutt’attorno e le facce contratte come velocisti ai blocchi. Alcuni di loro diventeranno pittori veri, altri no, torneranno a casa, e s’inventeranno altre vite. Perché ci vuole la Fortuna dell’imponderabile per realizzare i sogni, sì. Ma soprattutto perché ce ne vuole anche di più per trovare una strada nuova, solo tua, e il coraggio di percorrerla, senza che nessun altro l’abbia asfaltata, prima.
Montebuio witch project, ovvero Danilo Arona e il suo L'estate di Montebuio (Gargoyle Books)
Mi piacerebbe davvero dire che si è rivelato sempre allo stesso livello delle pagine che l’introducono, questo esperimento fiammingo di matrioske una nell’altra. Che il giochino della storia nella storia – la stanza nella stanza della famiglia Aldobrandini – funziona alla perfezione, e l’autore riesce nella sua scommessa giallo-horror, camminando senza scivolare sul filo di un plot che ha le dimensioni di un frattale. Premetto: in realtà, non è che si tratti di innovazione (basti pensare al film nel film della Donna del tenente francese, o, restando nel filone dark, a REC) ma resta un espediente che se riuscito dà naturalezza a storie altrimenti incredibili, ed è questo che è l’orrore, una piccola bottega di cose e vicende assurde, fuori dalla nostra logica, da quello che possiamo vedere e toccare. Perché ci spaventino, devono sembrarci possibili: dobbiamo esserne trascinati al punto da trovarci lì, con l’uomo nero a un metro, non al sicuro dentro a un cinema. Altrimenti, è tutto inutile.
Purtroppo, non sempre è così, per queste duecento e fischia pagine scritte in un italiano trapunto di riferimenti eterogenei il cui filo conduttore è l’opera omnia di King – ma, forse, davvero non è possibile scrivere di orrore lasciandoselo alle spalle - lavorato di cesello anche quando vorrebbe esser basso.
Intanto, la storia, anzi le storie. L’agiografia di una santa semisconosciuta – radiata o no dal calendario non importa – il cui martirio sembra l’opera di un ispirato Ted Bundy, e che riappare nel finale come vendicatrice adolescente, una Milla Jovovich coperta di sangue con in mano uno spadone più grande di lei per la regia di Luc “Leon” Besson.
Poi, l’estate del ’62 e la banda di piccoli protagonisti, Stand By Me di una generazione, prima che tutto cambi e che ciascuno si trovi al suo posto, nelle schiere dei buoni o dei cattivi, e il ragazzino in vacanza diventi uno scrittore, e muoia schiacciato dal peso dei ricordi.
Miriam piccola vittima, e tutte le altre senza nome, sacrificate a un culto pagano da adoratori del grano come Nicholas Cage arso vivo sull’isola de Il Segreto, che magari fosse così facile, e non esistessero mostri travestiti da papà, che fanno infinitamente più paura.
La ragazza morta che compare a provocare incidenti, leggenda metropolitana universalmente nota su cui circolano filmati su You Tube e un film spagnolo carino, di cui non ricordo il titolo.
E – sopra a tutto -il rumore del male, che è quello dei Langolieri (by S.K., of course), e insieme lo scampanellio dei monatti.
Quello che ne viene fuori è un meltin’ pot frenetico, in cui Stephen IT mantiene assieme i pezzi, e sorvolo sull’ amante scosciata/pettoruta/carrierista che diventa detective (protagonista di una fiction di Rete 4?) che si converte alla maternità salvifica, e allo speriamo che sia femmina del finale.
Anche se, in realtà, è la prevalenza – letteralmente, nel senso di superiore valore - di donne che colpisce, come nella saga di Alien.
Sono donne i capi, del bene – Sigourney Weaver - Tenente Ripley uguale la carrierista di cui sopra, e, al sommo livello, santa Milla – e del male – la regina degli alieni, uguale Lisetta cresciuta dalla parte sbagliata, gli aliens con acido al posto del sangue uguale le zannute arpie, e via dicendo.
Gli uomini, solo comprimari: i carabinieri sbranati, il detective che finisce fuori strada, persino lo scrittore Morgan (complimenti per il nome…fosse stato Marco, avrebbe sicuramente convinto di più, e lo dico io che mi chiamo come l’avversario più famoso dell’antica Roma, peccato che della guerra civile siano rimasti in pochi a saperne qualcosa) restano sullo sfondo, non capiscono, e se provano a farlo non trovano il bandolo della matassa e perdono il senno o addirittura la vita.
Solo che il primo Alien è del ’74, se non sbaglio, e all’epoca – popolata da fragili eroine sistematicamente bisognose di essere salvate – si trattava davvero di un nuovo modo di leggere la storia. Oggi, dopo Resident Evil, Tomb Raider e Xena principessa guerriera, è un filone collaudato, come tanti altri.
Quanto al dono di generare dal proprio corpo un altro corpo – sommo mistero/miracolo, alla base del matriarcato e del culto celtico della dea di Avalon, per non dire del Codice da Vinci – non credo si possa dire niente di nuovo.
Tranne, forse, che la maternità non è l’unica dimensione possibile per una donna, ma soltanto una scelta: se la carrierista che si ritrova incinta dopo il suicidio dello scrittore – per inciso: cosa abbastanza incredibile, in un’epoca in cui gli adulti non fanno i bambini per caso - si converte velocemente al nuovo ruolo di mammina, la Pia, ritardata stuprata che muore di parto nella colonia abbandonata e fatiscente, è solo una vittima, del branco, prima, e del mondo, che continua a dormire mentre lei si dissangua nella notte di san Valentino, poi.
Peccato siano solo poche righe. È la parte più riuscita: l’emarginazione, l’indifferenza, lo squallore che le permeano fanno paura davvero.
Perché sembrano – sono – reali.
Circa vent’anni fa, Giordano Bruno Guerri ha scritto un libro, su un’altra martire vergine, Maria Goretti, e sul suo stupratore. S’intitola “Povera santa”, povero assassino.
È lo stesso titolo che meriterebbe questa storia di provincia fonda dove l’ignoranza fa buio nella mente, e il resto – anche l’orrore di Stephen – viene da sé.
La colonia degli orfanelli/vittime di regime poteva essere un ottimo inizio.
Peccato che le metafore soprannaturali abbiamo smorzato la disperazione che poteva venirne fuori, e tenere sveglio chiunque, anche uno come me che non crede in niente che non si può toccare.
Peccato che di King manchi l’orrore più incredibile, quello quotidiano: il bullismo di cui è vittima l’incendiaria Carrie, la famiglia sfasciata del bambino di Cujo. La stanza del figlio, su cui si basa Pet Semetary. Tutto quello che fa davvero paura, nelle storie di quest’uomo del Maine, che non per niente in Danze Macabre dà lezioni di horror.
Ammesso che servano, è chiaro. Perché i libri sono come la musica e i quadri e le torte e i tuffi, e non si può farli identici a quelli di un altro. Ci si può provare per imparare, come gli studenti d’arte che disegnano su blocchi enormi, seduti per terra nei saloni degli Uffizi o del Louvre, con le matite sparse tutt’attorno e le facce contratte come velocisti ai blocchi. Alcuni di loro diventeranno pittori veri, altri no, torneranno a casa, e s’inventeranno altre vite. Perché ci vuole la Fortuna dell’imponderabile per realizzare i sogni, sì. Ma soprattutto perché ce ne vuole anche di più per trovare una strada nuova, solo tua, e il coraggio di percorrerla, senza che nessun altro l’abbia asfaltata, prima.
Montebuio witch project, ovvero Danilo Arona e il suo L'estate di Montebuio (Gargoyle Books)
Il libro del giorno: Beijing story di Tongzhi (edizioni Nottetempo)
Ultimo tango a Pechino. Nella Cina ricca e spieiata degli anni recenti, un giovane capitano d'industria abituato a comprare tutto - anche l'amore di chi non lo ama -incontra un ragazzo quasi adolescente, che si prostituisce per necessità economica o forse per autopunizione, e con lui brucia per la prima volta nel fuoco di una passione erotica che cambierà la vita di entrambi. Scoppiato su internet, quasi fosse un moderno samizdat, il caso di "Beijing Story" ha conquistato i lettori di tutto il mondo, pur rimanendo in patria un testo rigorosamente clandestino. Non a caso il suo autore è costretto ancora oggi a rimanere anonimo: contro la censura di Stato, la sua figura appare fragile e potente come quella dello studente inerme di fronte ai carri armati sulla piazza Tian'anmen. Dal romanzo, Stanley Kwan ha tratto nel 2001 un film premiatissimo, Lan Yu
"Arriva dalla Cina, sfuggito alla censura di Stato, il romanzo gay più trasgressivo dell'anno: firmato con lo pseudonimo Tongzhi (letteralmente compagno, ma anche gay, Beijing Story è una internet novel, diventata in Italia per la prima volta libro stampato, che narra la storia a tinte forti, sullo sfondo dei fatti di TieN An Men,tra il ricco imprenditore trentenne Handong e il malinconico diciassettenne Lan Yu,che si prostituisce per vivere. Amore impossibile"
di Benedetta Marietti tratto da D, La Repubblica delle Donne n.656, p. 42
casa editrice Nottetempo: http://home.edizioninottetempo.it/
Beijing story di Tongzhi
2009, 149 p.,Nottetempo
"Arriva dalla Cina, sfuggito alla censura di Stato, il romanzo gay più trasgressivo dell'anno: firmato con lo pseudonimo Tongzhi (letteralmente compagno, ma anche gay, Beijing Story è una internet novel, diventata in Italia per la prima volta libro stampato, che narra la storia a tinte forti, sullo sfondo dei fatti di TieN An Men,tra il ricco imprenditore trentenne Handong e il malinconico diciassettenne Lan Yu,che si prostituisce per vivere. Amore impossibile"
di Benedetta Marietti tratto da D, La Repubblica delle Donne n.656, p. 42
casa editrice Nottetempo: http://home.edizioninottetempo.it/
Beijing story di Tongzhi
2009, 149 p.,Nottetempo
venerdì 24 luglio 2009
Gargoyle Books presenta Il sangue di Manitou di Graham Masterton
La trama.
Alle soglie del Terzo Millennio, durante un'estate torrida, la città di New York è preda di una strana e terribile epidemia, di cui i medici non riescono a individuare l'origine. Tra i sintomi della misteriosa patologia ematica: difficoltà a ingerire cibo solido, ipersensibilità alla luce solare, e un'insostenibile arsura che può essere placata solo bevendo sangue umano. Mentre, nella metropoli, il panico dilaga, schiere di contagiati si riversano per le strade alla ricerca di sangue. Solo il sensitivo Henry Erskine capisce che ciò che accade non è affare risolvibile negli ospedali. Con il sostegno degli spiriti dei Nativi americani, Erskine si inoltrerà in un regno oscuro e sotterraneo a metà tra i vivi e i morti, dove dovrà condurre una lotta per la sopravvivenza della specie umana, una lotta in cui la morte non è che l'inizio.
Il libro.
Pubblicato negli Stati Uniti nel 2005 da Leisure Books, Il sangue di Manitou è il quarto di una serie avente come protagonista Harry Erskine, "veggente, erborista e cartomante", noto in Italia per l'interpretazione datane da Tony Curtis nel film Manitù, lo spirito del male (The Manitou, 1978) di William Girdler, tratto a sua volta dal romanzo omonimo pubblicato nel nostro paese da Cappelli. Gli altri titoli della serie, inediti in italia, sono The Djinn (1988) e Burial (1992).
Abile nell'incrociare miti di diversa estrazione, ne Il sangue di Manitou Masterton riprende alcune delle figure leggendarie dei Nativi americani e le fa incontrare/scontrare con le radici del vampirismo originate dalla sua terra d'elezione, la Romania: non le fascinose figure in mantello nero care a cinema e letteratura, ma la vera essenza del mito, quella degli strigoi, ancora massicciamente diffusa nel paese.
L'autore.
Ancora poco noto in Italia, Graham Masterton (Edimburgo, 1946) è riconosciuto a livello mondiale come uno dei grandi maestri dell'horror: in Francia gli viene intitolato un prestigioso premio letterario, il "Prix Masterton", giunto quest'anno alla nona edizione, e le sue opere vengono regolarmente pubblicate in diversi paesi, come Francia, Belgio, Olanda, Svezia, Grecia, Polonia, Romania. Masterton vanta una lunga carriera come giornalista e scrittore: è autore di oltre cento tra romanzi e racconti che hanno collezionato riconoscimenti di pubblico e critica in molti paesi. I suoi maggiori successi sono Charnel House (vincitore di uno Special Edgar conferito dalla Mystery Writers of America), Mirror (vincitore della Silver Medal of West Coast Review of Books), The House That Jack Built e Pray. Tre dei suoi racconti sono trasposti sul piccolo schermo per la serie "The Hunger", prodotta da Tony Scott. I diritti di uno dei suoi ultimi romanzi, Trauma (2002), sono stati acquistati dal regista Jonathan Mostow ("U-571") e diverranno a breve un film. Di Masterton, Gargoyle ha già pubblicato nel 2006 Spirit.
www.grahammasterton.co.uk
Da Il sangue di Manitou:
Finalmente raggiungemmo Ground Zero, il punto dove erano crollate le torri del World Trade Center e dove stava già cominciando a innalzarsi la Freedom Tower. Anche là non c'era nessuno. o quanto meno, nessuno che fosse vivo. Le baracche del cantiere erano tutte deserte e i pesanti macchinari. retroescavatori, scavatrici, bulldozer e betoniere. erano fermi e silenziosi. Vidi il corpo di un uomo pendere da una gru, appeso a una decina di metri di altezza come se fosse stato impiccato, con due o tre gabbiani che lo stavano beccando.
Quel posto aveva destato in me una quantità di emozioni, quando ero venuto in centro a vederlo, dopo l'11 Settembre, ma a quell'epoca erano in corso le operazioni di sgombero, e il luogo era rumoroso, affollato e pervaso di animata determinazione; mentre quella mattina appariva semplicemente spettrale, un cantiere deserto in una città popolata da cadaveri che marcivano e da nonmorti che potevano circolare soltanto con il buio. La gru emise ripetuti suoni metallici, e uno dei gabbiani reagì con uno stridio di irritazione.
Dall'introduzione:
Nulla di strano nella decisione di raccogliere più che la tradizione "classica" del vampirismo [.] quella posteriore, metropolitana e moderna: non più l'aristocratico individualista e il tormento della sua eterna condanna alla non-vita, ricalcato sull'originario modello del Dracula di Bram Stoker, quanto l'orda barbarica emofaga, la massa chiassosa e vandalica dei vampiri post-industriali che si riversano a legioni dietro il contagio collettivo. Con l'aggiunta di una variazione sul tema: l'infezione del sangue.
Hanno detto:
Il sangue di Manitou è un romanzo solido quanto un blocco di granito che ci proviene uno dei veri maestri del genere horror. Masterton scrive con in mente un unico obiettivo: la pagina successiva. "Se sono smanioso di arrivare alla pagina seguente, probabilmente i lettori proveranno la medesima sensazione".
Houston Chronicle
Nell'ambito dell'Horror, Graham Masterton è forse lo scrittore capace di suscitare i brividi più raggelanti.
Masters of Terror
Masterton è un narratore ipnotizzante il cui fascino risiede nel combinare conturbanti aspetti di debolezza umana con una sofisticata abilità di mantenere costante la tensione.
Genius
Gargoyle Books, "Il sangue di Manitou" di Graham Masterton
Traduzione di Annarita Guarnieri. Introduzione di Claudio Asciuti
Alle soglie del Terzo Millennio, durante un'estate torrida, la città di New York è preda di una strana e terribile epidemia, di cui i medici non riescono a individuare l'origine. Tra i sintomi della misteriosa patologia ematica: difficoltà a ingerire cibo solido, ipersensibilità alla luce solare, e un'insostenibile arsura che può essere placata solo bevendo sangue umano. Mentre, nella metropoli, il panico dilaga, schiere di contagiati si riversano per le strade alla ricerca di sangue. Solo il sensitivo Henry Erskine capisce che ciò che accade non è affare risolvibile negli ospedali. Con il sostegno degli spiriti dei Nativi americani, Erskine si inoltrerà in un regno oscuro e sotterraneo a metà tra i vivi e i morti, dove dovrà condurre una lotta per la sopravvivenza della specie umana, una lotta in cui la morte non è che l'inizio.
Il libro.
Pubblicato negli Stati Uniti nel 2005 da Leisure Books, Il sangue di Manitou è il quarto di una serie avente come protagonista Harry Erskine, "veggente, erborista e cartomante", noto in Italia per l'interpretazione datane da Tony Curtis nel film Manitù, lo spirito del male (The Manitou, 1978) di William Girdler, tratto a sua volta dal romanzo omonimo pubblicato nel nostro paese da Cappelli. Gli altri titoli della serie, inediti in italia, sono The Djinn (1988) e Burial (1992).
Abile nell'incrociare miti di diversa estrazione, ne Il sangue di Manitou Masterton riprende alcune delle figure leggendarie dei Nativi americani e le fa incontrare/scontrare con le radici del vampirismo originate dalla sua terra d'elezione, la Romania: non le fascinose figure in mantello nero care a cinema e letteratura, ma la vera essenza del mito, quella degli strigoi, ancora massicciamente diffusa nel paese.
L'autore.
Ancora poco noto in Italia, Graham Masterton (Edimburgo, 1946) è riconosciuto a livello mondiale come uno dei grandi maestri dell'horror: in Francia gli viene intitolato un prestigioso premio letterario, il "Prix Masterton", giunto quest'anno alla nona edizione, e le sue opere vengono regolarmente pubblicate in diversi paesi, come Francia, Belgio, Olanda, Svezia, Grecia, Polonia, Romania. Masterton vanta una lunga carriera come giornalista e scrittore: è autore di oltre cento tra romanzi e racconti che hanno collezionato riconoscimenti di pubblico e critica in molti paesi. I suoi maggiori successi sono Charnel House (vincitore di uno Special Edgar conferito dalla Mystery Writers of America), Mirror (vincitore della Silver Medal of West Coast Review of Books), The House That Jack Built e Pray. Tre dei suoi racconti sono trasposti sul piccolo schermo per la serie "The Hunger", prodotta da Tony Scott. I diritti di uno dei suoi ultimi romanzi, Trauma (2002), sono stati acquistati dal regista Jonathan Mostow ("U-571") e diverranno a breve un film. Di Masterton, Gargoyle ha già pubblicato nel 2006 Spirit.
www.grahammasterton.co.uk
Da Il sangue di Manitou:
Finalmente raggiungemmo Ground Zero, il punto dove erano crollate le torri del World Trade Center e dove stava già cominciando a innalzarsi la Freedom Tower. Anche là non c'era nessuno. o quanto meno, nessuno che fosse vivo. Le baracche del cantiere erano tutte deserte e i pesanti macchinari. retroescavatori, scavatrici, bulldozer e betoniere. erano fermi e silenziosi. Vidi il corpo di un uomo pendere da una gru, appeso a una decina di metri di altezza come se fosse stato impiccato, con due o tre gabbiani che lo stavano beccando.
Quel posto aveva destato in me una quantità di emozioni, quando ero venuto in centro a vederlo, dopo l'11 Settembre, ma a quell'epoca erano in corso le operazioni di sgombero, e il luogo era rumoroso, affollato e pervaso di animata determinazione; mentre quella mattina appariva semplicemente spettrale, un cantiere deserto in una città popolata da cadaveri che marcivano e da nonmorti che potevano circolare soltanto con il buio. La gru emise ripetuti suoni metallici, e uno dei gabbiani reagì con uno stridio di irritazione.
Dall'introduzione:
Nulla di strano nella decisione di raccogliere più che la tradizione "classica" del vampirismo [.] quella posteriore, metropolitana e moderna: non più l'aristocratico individualista e il tormento della sua eterna condanna alla non-vita, ricalcato sull'originario modello del Dracula di Bram Stoker, quanto l'orda barbarica emofaga, la massa chiassosa e vandalica dei vampiri post-industriali che si riversano a legioni dietro il contagio collettivo. Con l'aggiunta di una variazione sul tema: l'infezione del sangue.
Hanno detto:
Il sangue di Manitou è un romanzo solido quanto un blocco di granito che ci proviene uno dei veri maestri del genere horror. Masterton scrive con in mente un unico obiettivo: la pagina successiva. "Se sono smanioso di arrivare alla pagina seguente, probabilmente i lettori proveranno la medesima sensazione".
Houston Chronicle
Nell'ambito dell'Horror, Graham Masterton è forse lo scrittore capace di suscitare i brividi più raggelanti.
Masters of Terror
Masterton è un narratore ipnotizzante il cui fascino risiede nel combinare conturbanti aspetti di debolezza umana con una sofisticata abilità di mantenere costante la tensione.
Genius
Gargoyle Books, "Il sangue di Manitou" di Graham Masterton
Traduzione di Annarita Guarnieri. Introduzione di Claudio Asciuti
Il libro del giorno: Quando Degas andava a Napoli di Elio Capriati (MJM editore)
A determinare il fascino particolare e intrigante di questo libro di Elio Capriati si incontrano e si sommano due suggestioni diverse: quella della Napoli del passato (la vicenda si snoda lungo l’arco di un intero secolo tra fine 700 e fine 800) e quello della pittura di Edgar Degas.
A collegare i due argomenti un fatto che non tutti conoscono: e cioè che con la nostra città Degas ha avuto un lungo, articolato, appassionato rapporto. In quanto è a Napoli che hanno vissuto suo nonno, René-Hilaire De Gas, affermato uomo d’affari, e un’assai variopinta tribù di zie, zii, cugini e cuginette: parenti a cui il pittore è stato legatissimo, e che non solo ha più volte visitato, ma ha anche raffigurato nei dipinti (una delle sue opere più famose, “La famiglia Bellelli”, rappresenta appunto la zia partenopea Laurette con il marito e le figlie Niny e Julie).
Allora: di quali peculiarità si avvale l’impianto del romanzo? Ecco. A caratterizzarlo è una duplice operazione di incastro: c’è Paul Valery, il futuro autore dei ‘Cahiers’, che nella Parigi di inizio novecento recensisce la propria visita all’ormai anziano Edgar Degas, e c’è Edgar Degas che, seguendo come sovrappensiero il filo dei ricordi, rievoca l’avventurosa vita del nonno e le coinvolgenti vicende della sua famiglia. Da questa impostazione scaturisce una successione di scene colorate, ora drammatiche, ora sorridenti, ma tutte di grande impatto emotivo e quindi in grado di avvincere il lettore: i giorni della rivoluzione a Parigi, Maria Antonietta sulla carretta che la conduce al patibolo, il sacrificio delle vergini di Verdun, le stragi nella Napoli del 1799, l’eruzione del Vesuvio, e al contempo Celeste Coltellini che canta Paisiello a San Leucio, la conversazione nel salotto dei Meuricoffre, il viavai di Toledo, gli incontri del nonno con Napoleone e Murat o l’Egitto con le sue piramidi e i suoi minareti.
(Tratto dalla prefazione di Giovanna Mozzillo)
"Il napoletano Elio Capriati immagina che il grande artista ci narri la storia dell'avo, parlando di se stesso, di Napoli e della propria arte"
di Stefano Manferlotti tratto da Il Venerdì di Repubblica n. 1114, p. 104
casa editrice MJM: http://www.mjmeditore.com/index.php
Elio Capriati:www.eliocapriati.it
A collegare i due argomenti un fatto che non tutti conoscono: e cioè che con la nostra città Degas ha avuto un lungo, articolato, appassionato rapporto. In quanto è a Napoli che hanno vissuto suo nonno, René-Hilaire De Gas, affermato uomo d’affari, e un’assai variopinta tribù di zie, zii, cugini e cuginette: parenti a cui il pittore è stato legatissimo, e che non solo ha più volte visitato, ma ha anche raffigurato nei dipinti (una delle sue opere più famose, “La famiglia Bellelli”, rappresenta appunto la zia partenopea Laurette con il marito e le figlie Niny e Julie).
Allora: di quali peculiarità si avvale l’impianto del romanzo? Ecco. A caratterizzarlo è una duplice operazione di incastro: c’è Paul Valery, il futuro autore dei ‘Cahiers’, che nella Parigi di inizio novecento recensisce la propria visita all’ormai anziano Edgar Degas, e c’è Edgar Degas che, seguendo come sovrappensiero il filo dei ricordi, rievoca l’avventurosa vita del nonno e le coinvolgenti vicende della sua famiglia. Da questa impostazione scaturisce una successione di scene colorate, ora drammatiche, ora sorridenti, ma tutte di grande impatto emotivo e quindi in grado di avvincere il lettore: i giorni della rivoluzione a Parigi, Maria Antonietta sulla carretta che la conduce al patibolo, il sacrificio delle vergini di Verdun, le stragi nella Napoli del 1799, l’eruzione del Vesuvio, e al contempo Celeste Coltellini che canta Paisiello a San Leucio, la conversazione nel salotto dei Meuricoffre, il viavai di Toledo, gli incontri del nonno con Napoleone e Murat o l’Egitto con le sue piramidi e i suoi minareti.
(Tratto dalla prefazione di Giovanna Mozzillo)
"Il napoletano Elio Capriati immagina che il grande artista ci narri la storia dell'avo, parlando di se stesso, di Napoli e della propria arte"
di Stefano Manferlotti tratto da Il Venerdì di Repubblica n. 1114, p. 104
casa editrice MJM: http://www.mjmeditore.com/index.php
Elio Capriati:www.eliocapriati.it
Piovono formiche carnivore e altre inezie di Alessandro Salvi (Aletti editore)
Alessandro Salvi ha una sua forza poetica che non lascia indifferenti, vuoi per registro, per un suo timbro per versi personalissimo, vuoi per il messaggio poetico. La sua scrittura gioca in maniera obliqua tra vita e transitorietà delle cose, amore e distanza, trasformandosi in forza e sublimazione che solo si può dare quando il canto è autentico. Certo Separazione, Lutto, Nostalgia e Dolore sono costanti che hanno popolato e popolano tutt’ora le migliori produzioni poetiche da Omero a Virgilio, da Dante a Foscolo a Hikmet a Neruda, ma la poesia di questo autore che per Aletti ha pubblicato “Piovono formiche carnivore e altre inezie” si tratta di una costante rimetabolizzazione di tracciati autobiografici lasciati a metà, e che occupano (proprio per questo) con la loro pesantezza ogni giorno della propria vita. In lui non sussiste nessuna lotta con il passato, i ricordi sono ombre e talvolta si materializzano in un’angoscia latente, e costante. Per quel che ho avuto modo di percepire, in taluni componimenti velenosissimi come ad esempio “Delirio in do#”, Salvi sa che la Poesia oggi è prerogativa di pochissimi, vuoi per la questione dolente del leggere libri di poesia, vuoi per l’industria culturale in questo settore, in più di qualche occasione ingenerosa verso gli esordi o comunque poco attenta a produzioni di buona qualità. Alessandro Salvi, non solo è consapevole che fare il poeta non rientra nell’hobbystica, e che dunque è una scelta di responsabilità nella propria esistenza, una vera e propria missione direbbe il poeta albanese Gezim Hajdari, che non è l’essere mestieranti delle parole che fa di uno scribacchino un poeta, anzi questo autore assume su di sé l’onere della Parola, che porta sempre e lo fa in maniera lucida, lo stampo del tempo in cui vive: “La poesia non sta tra noi. Non più./ Cerchiamola nel bottone mancante/ di una camicia color marrone, nel/ tampone usato gettato per terra/ tra vari rifiuti, tra gli sputi e i mozziconi/ nella sale d’aspetto delle stazioni/ di raccordo./ Anzi, no, meglio non cercarla/ perchèla poesia è come la morte,/ prima o poi sarà lei a farsi viva./” (“Delirio in do#”). Che l’intero lavoro che qui presentiamo sia acuto, ironico, spregiudicato, struggente, furibondo, rabbioso, è fuori discussione, ed è fuori dubbio che sia di difficile classificazione, o incasellamento in una qualche determinata corrente poetica. Salvi è cantore di un grande disagio esistenziale e di profonda irrequietezza generazionale che porta alla disintegrazione di qualsivoglia modello di vita, ma che non si preclude la bellezza di una guerra spietata, fatta di carne e sangue su uno dei campi di battaglia in assoluto tra i più difficili: quello della libertà e onestà di spirito! Inoltre per questo poeta l’amore è lontana da qualsiasi seducente carezza, non è un sentimento intenso, totalizzante o profondamente esclusivo rivolto verso una persona, un animale, un oggetto, o verso un concetto, un ideale. Salvi non parla dell’amor cortese, romantico, ma delinea un aspetto forse patologico dell’amore, forse più vicino a certe nuances del dionisiaco, ma che si configura senza ombra di dubbio come una visione di questa categoria vicina a certa poetica americana degli anni ’70 (Charles Bukowski, William S. Burroughs tanto per intenderci) e costituita dal suo essere dunque spigolosa, scomoda, disturbante e che inevitabilmente porta ad auto scandagliarsi nei privatissimi recessi di meschinità dell’essere semplicemente, maledettamente un uomo: “L’amore è un liquore andato a male,/ più dolce del miele/ facilita il comporre/ poesie. Ma quando muore/ in bocca lascia un sapore amaro/ e nel ricordo brucia/ come su una ferita aperta/ brucerebbe il sale./ Amore non si dice/ perché non significa/ niente di preciso. E porta male./” (“L’amore è un liquore andato a male”)
giovedì 23 luglio 2009
Appocundria! Intervento di Vito Antonio Conte su Del pesce e dell'Acquario di Ilaria Seclì (Lietocolle)
“L'appocundria me scoppia ogni minutu a 'mpietto...”, cantava Pino Daniele degli esordi, 1980 all'incirca, “Nero a Metà” si chiama l'album in cui è contenuto questo pezzo (che amo ancora), se mal non ricordo. Testo scarno e essenziale, come di anima che si palesa. Melodia di chitarra che compie il miracolo di unire fado flamenco e blues. Era il mio primo anno all'Università: questo lo ricordo bene. Quasi trent'anni addietro: cazzo, mi verrebbe da dire! E sia. L'appocundria, nella sua accezione dialettale (nella lingua napoletana, siccome in quella salentina), significa qualcosa di più del corrispondente (ipocondrìa) italiano... Non è afferente, all'evidenza, al significato psicologico di nevrosi o patofobia... né coincide appieno con quegli stati più strettamente evocati e cioè con la depressione, la malinconia, lo scoramento, lo sconforto, l'abbattimento, pur contenendoli (in qualche misura). È qualcosa di più. E di diverso. È quella sorta di apatia che ha il sapore dell'indolenza e dell'impotenza (equamente divise). Molto vicino alla refrattarietà. Io, per certe cose, sto così da un po': faccio quel che devo: quel che dovere impone, appunto. Senza passione. Senza entusiasmo. È necessario. E lo faccio. Nel modo migliore, s'intende! Ma farei volentieri altro, se non avessi bisogno di quel che il lavoro dà. Mezzi di sussistenza, li chiamano. Lasciamo stare. Non m'impelagherò in parole sociologicamente rilevanti, né ho voglia di bestemmiare, oggi. Ché dire male del mio lavoro, in periodi di precarietà e di crisi -come quello presente-, significa bestemmiare. E anche la bestemmia ha un suo valore. Riservo di essere blasfemo per altre -più meritorie- occasioni. Coltivo altre passioni. Che ci sono. Per fortuna. Scrivo sempre. Appunto l'ordinario. Segno incipit per lo straordinario (almeno credo). Annoto, per non perderla, la meraviglia (ritengo). Lascio tracce dell'incanto (ne sono certo). Ci sono cose nuove che mi frullano nel grigio incipiente de... i miei capelli. Mi limito a serbarne memoria con una parola. Aspetto altro tempo. Ché questo non basta per il resto. Per tutto quanto il resto. E per quel che resto non è. Non leggo più come fino a qualche settimana fa. Non ho voglia di reading e presentazioni (salvo rare eccezioni) e, in genere, di tutta quella cultura svenduta nelle serate che, pure, a lungo, ho assiduamente frequentato. Refrattarietà! Non riesco a respirare certe atmosfere d'aria falsa. Meglio la campagna. E la fatica. Col sudore. E il silenzio. Non fraintendete: è uno stato mio. Sicuramente aiutato dal clamore e dalla frenesia inutili d'intorno, ma mio. C'è che ho voglia d'altro. E quell'altro, grazie al cielo, c'è. Non esattamente siccome vorrei, ma c'è. E anche quando non ci sarà più, semmai non ci sarà, so che “è” per sempre. No, non gioco con le parole. Non faccio sofismi. Non pratico strambe filosofie. Oddio, mi perdo ancora nei versi, da ultimo in quelli di Ilaria Seclì: “Del Pesce E Dell'Acquario” si chiama la sua ultima raccolta, edita da Lietocolle (pagg. 72, tutto compreso, € 13,00). Ma è un perdersi lieve e doloroso insieme. Un andare verso mondi toccati senza conoscerli, ovvero verso mondi conosciuti senza averli mai toccati. Non spetta a me aggiungere altro sull'opera di Ilaria Seclì. Su di lei qualcosa potrei aggiungere. Di buono. Ma non lo faccio. Dico soltanto, e lo dico a lei personalmente, che -è vero- una vita sola spesso non basta: ce ne vorrebbero almeno due!?! Ma -io (oggi)- guardo la mia e penso: una vita è tutto... Poi, aggiungo e chiudo, è il coraggio che manca; è la responsabilità che inchioda; è capire questo che difetta; comprendere questo e lasciarsi andare lo stesso; e dire: Grazie, ancora... “io, sposa del dio estinto, del figlio perduto, se il cielo rovescia / ciò che la terra solleva tu tieni e sposti nella misericordia / della valle senza vento”, così scrive Ilaria ed è solo la fine del primo componimento della raccolta poetica citata. Non perdetevi questo libro! Perdetevi in questo libro. Perdetevi in “vite infette” (uno dei versi che amo di più). Poi, tornate alle vostre occupazioni. Se ci riuscite. Io torno alla mia refrattarietà. Non mi tangono le vostre corse ultronee. L'indifferenza verso quel che ho scritto su (e, di contro, la pienezza di quell'altro che ha il più alto nome divino e ch'è madre di tutti...), adesso mi fa stare qui, tra note sempre nuove (bellissime quelle di Mario Fasciano & C. in “Porta San Gennaro - Napoli”), davanti a quello ch'è aperto da oltre un mese, che non può essere definito libro, ma di carta è fatto. Carta di ottima fattura, con parole sussurrate, immàgini di una bellezza sconvolgente, tavole note che mi appaiono come mai viste, acquerelli che fotografano anime in viaggio nella più reale delle camminate, chine di un'essenza fatta di pochissimi tratti e che evocano soprattutto quel che segno non è né potrà mai diventarlo e intanto (così) lo vedi lo tocchi lo annusi lo accarezzi e ti accarezza, tecniche miste di indicibile forza: quella che cattura l'occhio e lo fa godere... Il “LIBRO”, di grande formato (29 x 27), è “Periplo Segreto” di Hugo Pratt (a cura di Patrizia Zanotti e Thierry Thomas), edito nella scorsa Primavera da Rizzoli-Lizard (su progetto editoriale della CONG SA, Losanna), e conta ben 415 pagine (€ 70,00), con traduzione in inglese e in francese, delle quali la gran parte illustrate con gli splendidi sogni fermati nella sospensione lirica del vivere l'onirico dell'insuperato Hugo. Quest'opera si apre con una splendida fotografia (del volto in primo piano) di Hugo Pratt; quindi troviamo la “Premessa” di Patrizia Zanotti e “Sotto il segno dell'ironia” di Thierry Thomas. Prosegue con i disegni di Pratt: “Tecniche miste: 1950/1995”; poi con una sezione dedicata a “Hugo Pratt. La vita e i viaggi”. Si chiude con una “Bibliografia essenziale”. Più volte ho scritto (anche su queste pagine) di lui e delle sue opere... Ma quella di cui dico adesso è la “summa” straordinaria delle singole prodigiose storie di Pratt, frutto della sua infinita fantasia artistica. Quella che gli permetteva di vivere quel che immaginava. Quella resa immortale nelle tavole disegnate attingendo alla sua stupefacente memoria. Ricordo vivido dei fatti della sua esistenza e di tutto quello che aveva conosciuto. Di tutto ciò Pratt sapeva evocare e rendere appieno ogni espressione con pochi tratti. “Quanta musica, movimento e allegria ci sono nella Josephine Baker appena tracciata con due gesti di carboncino? Una volta in una libreria di Parigi in occasione dell'uscita del suo libro "Lettere dall'Africa" di Rimbaud, un ragazzo, molto timido e emozionato di trovarsi di fronte a Pratt, gli chiese un ritratto di Rimbaud, ma Hugo capì "Rambo" e, anche se piuttosto sorpreso, gli tracciò un bel ritratto di Silvester Stallone. All'inizio di "Aspettando Corto" c'è un passaggio che evidenzia molto chiaramente l'entusiasmo, ma al tempo stesso lo stupore per le possibilità che gli si aprivano nella vita grazie alla sua capacità di disegnare, e naturalmente, grazie al fatto che qualcuno avesse riconosciuto queste capacità e potenzialità. "Immaginate di aver sognato l'America per cinque anni. Non un posto preciso dell'America, a nord a sud o al centro. No. Avete sognato l'America come un nome, una situazione, una droga, un rinvio, una dilatazione, un'evasione, un inizio, un Eldorado, un'avventura, una chiavata o una fuga (…) e un giorno vi trovate sulla nave con un biglietto e tutto (…) con l'orizzonte che precipita a poppa mentre la prua della nave, ondata dopo ondata, apre per voi le porte del mondo. E avete poco più di vent'anni (…) Ero in viaggio per l'Argentina (…) biglietto pagato e contratto di lavoro con l'Editorial Abril. Mi chiedevo: sei un disegnatore? Sono passati vent'anni da quella prima partenza per l'America e ancora non mi sono risposto.". La sua era la "generazione entusiasta", mi diceva alla fine dei vari racconti. Erano entusiasti di tutto, ma soprattutto di essere sopravvissuti alla Guerra. Una guerra che Pratt aveva conosciuto da vicino in Africa e disegnato negli "Scorpioni del deserto" conservando un'incredibile memoria dei dettagli: delle divise, delle mostrine, degli stemmi che evidentemente aveva memorizzato inconsapevolmente da bambino. Anche nel rigido mondo militare Pratt riusciva a far entrare l'ironia, attraverso personaggi che col loro linguaggio denunciavano l'assurdità delle guerre che lui raccontava.” (Dalla premessa di Patrrizia Zanotti). Quell'ironia che gli ha permesso di raccontare disegnando mille altre realtà stordendo i lettori col suo tratto poetico e facendoli risvegliare con una domanda in più. “Per nessun disegnatore realista (cioè autore di un fumetto di avventure e non di una serie che vuol essere comica) l'ironia ha avuto tanta importanza come per Hugo... i clichè delle sue storie hanno perso il loro carattere artificiale, e i suoi personaggi sono diventati veri, quando lui è stato in grado di iniettare nelle sue strisce quell'ironia che gli era connaturata. Quando ha saputo, semplicemente, disegnarla. Ma l'ironia, viene da dire, non si disegna! Invece sì: grazie alla semplicità, appunto, grazie alla rarefazione e alla rapidità. "Il mio modo di lavorare è cercare sempre di andare oltre..." dichiarava Hugo. Di fatto il suo stile si è rivoluzionato in modo decisivo quando ha iniziato a epurare il disegno. Da quel momento tutto è diventato più leggero, e più profondo.” (Thierry Thomas). Più leggero. E più profondo. Insieme. Gli opposti. Ciò che -apparentemente- sta agli antipodi. Che si toccano. Coincidendo. Forse. Mia vecchia fisima!?! Un po' come questo pezzo. In cui ho finito per dirvi che sono impenetrabile dal mondo parlandovi di tanti mondi... E ce ne sarebbe da dire, ancora, e ancora, sì ancora... ma c'è “Il Libro” che mi reclama, questo LIBRO. Che non è un libro. Ma è fatto di carta. Come certi sogni. Di fragile carta. Tanto fragile che devi trattarla con cura e attenzione. Così fragile che può vivere (e, spesso, vive) oltre una vita. Amatela.
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L'esorcista di William Peter Blatty (Fazi editore) alla Libreria del cinema a Roma
Scritto a partire dallo studio di un caso di possessione diabolica riportato dal «Post» nel 1949, L'esorcista richiese all'autore, William Peter Blatty, una lunga e accurata ricerca sull'argomento: «Penso che il mio inconscio, una volta accumulato tutto il materiale e la fatica necessari, abbia creato la maggior parte della trama, elargendone poco alla volta delle porzioni alla mia coscienza razionale». Pubblicato nel 1971, accolto con un certo scandalo dalla critica, il libro iniziò ad avere un impressionante successo di vendite; nel '72, l'autore fu insignito della Silver Med for Literature Commonwealth of California. Nel '73 il film tratto dal libro, sceneggiato da Blatty, diretto da William Friedkin e interpretato da Max Von Sydow e Linda Blair, ebbe dieci nomination agli Oscar. Riportò due vittorie: come miglior suono e miglior sceneggiatura. Il successo del film nelle sale fu tale da indurre la produzione americana a finanziare, negli anni successivi, ben due sequel, L'esorcista II - L'eretico e L'esorcista III - La genesi.
William Peter Blatty è nato nel 1928 a New York. La famiglia, di origine libanese, era in grandi ristrettezze economiche; il padre, carpentiere, se ne andò quando William aveva sei anni. Nel corso dell'infanzia, Blatty e la madre cambieranno residenza circa ventotto volte. A metà degli anni Cinquanta, Blatty vince 10.000 dollari nel quiz show You Bet Your Life: cifra che gli consentirà di dedicarsi all'attività di scrittore. Inizialmente autore di romanzi umoristici, dal '64 al '70 Blatty inizia a collaborare come sceneggiatore con il regista Blake Edwards. Dopo l'immenso successo de L'Esorcista (1971), e del film di Friedkin tratto nel '73 dal romanzo, nel 1978 Blatty pubblica The Ninth Configuration (del quale dirige nell'80 la riduzione cinematografica); nel 1983 scrive il romanzo Legion, un sequel de L'Esorcista dal quale, nel 1989, trae il film (che scrive e dirige) L'Esorcista III. Nel 1996 dà alle stampe Demons Five, Exorcists Nothing: A Fable, e in America è appena uscita nelle librerie la sua ultima ghost story, Elsewhere.
Lunedì 27 luglio, ore 21.00, presso la Libreria del Cinema in via dei Fienaroli 31 d a Roma, in occasione della pubblicazione della nuova edizione del libro L'esorcista di William Peter Blatty cisarà l'incontro con Enrico Ghezzi ed Edoardo Nesi. A seguire, proiezione del film L'esorcista di William Friedkin(versione integrale)
William Peter Blatty, L'esorcista (Fazi editore)
Prefazione di Edoardo Nesi
traduzione di Cristiano Peddis
pp. 416 - euro: 19,00
William Peter Blatty è nato nel 1928 a New York. La famiglia, di origine libanese, era in grandi ristrettezze economiche; il padre, carpentiere, se ne andò quando William aveva sei anni. Nel corso dell'infanzia, Blatty e la madre cambieranno residenza circa ventotto volte. A metà degli anni Cinquanta, Blatty vince 10.000 dollari nel quiz show You Bet Your Life: cifra che gli consentirà di dedicarsi all'attività di scrittore. Inizialmente autore di romanzi umoristici, dal '64 al '70 Blatty inizia a collaborare come sceneggiatore con il regista Blake Edwards. Dopo l'immenso successo de L'Esorcista (1971), e del film di Friedkin tratto nel '73 dal romanzo, nel 1978 Blatty pubblica The Ninth Configuration (del quale dirige nell'80 la riduzione cinematografica); nel 1983 scrive il romanzo Legion, un sequel de L'Esorcista dal quale, nel 1989, trae il film (che scrive e dirige) L'Esorcista III. Nel 1996 dà alle stampe Demons Five, Exorcists Nothing: A Fable, e in America è appena uscita nelle librerie la sua ultima ghost story, Elsewhere.
Lunedì 27 luglio, ore 21.00, presso la Libreria del Cinema in via dei Fienaroli 31 d a Roma, in occasione della pubblicazione della nuova edizione del libro L'esorcista di William Peter Blatty cisarà l'incontro con Enrico Ghezzi ed Edoardo Nesi. A seguire, proiezione del film L'esorcista di William Friedkin(versione integrale)
William Peter Blatty, L'esorcista (Fazi editore)
Prefazione di Edoardo Nesi
traduzione di Cristiano Peddis
pp. 416 - euro: 19,00
lunedì 20 luglio 2009
MAN AT WORK 2 !!!
Il libro del giorno: La fortuna non esiste di Mario Calabresi (Mondadori)
"Non importa quante volte cadi. Quello che conta è la velocità con cui ti rimetti in piedi." Come si esce da una crisi, come si supera una perdita, un insuccesso, un fallimento? C'è chi ha avuto la forza di rimettersi in piedi dopo che l'azienda in cui lavorava ha chiuso, chi ha rifiutato di arrendersi dopo che la recessione lo aveva costretto a vendere la casa in cui viveva e a partire per chissà dove, chi ha ritrovato la forza di andare avanti dopo che un lutto sembrava avergli tolto una ragione per vivere. Due anni in viaggio attraverso l'America, trentasei Stati, l'elezione presidenziale più emozionante che si ricordi e tante vite di gente comune. Ma al centro di tutto questo per Mario Calabresi c'è una sola domanda: che cosa accade nel cuore di chi cade e trova la forza di rialzarsi? Magari con fatica, con dolore, ma con tenacia incrollabile e soprattutto senza aspettare la fortuna? Qual è il segreto di una nazione e della sua gente, capace da sempre - ma oggi più che mai - di reinventarsi da zero, di darsi una seconda chance, di eleggere un presidente nero contro ogni previsione, di rimettersi in cammino anche dopo che la più grave recessione del dopoguerra ha travolto la vita di milioni di persone?
"Attraverso queste storie, Calabresi ci fa capire che la vera forza della democrazia americana non sta tanto nella potenza militare o in quella economica, quanto nella profonda fiducia di riuscire a superare gli ostacoli, secondo il principio riassunto nella frase non importa quante volte cadi, quella che conta è la velocità con cui ti rimetti in piedi"
di Giovanni Russo tratto da il Corriere della Sera del 20/07/09, p. 29
casa editrice Mondadori: http://www.mondadori.it/libri/index.html
La fortuna non esiste. Storie di uomini e donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi di Mario Calabresi, 2009, Mondadori (collana Strade blu)
"Attraverso queste storie, Calabresi ci fa capire che la vera forza della democrazia americana non sta tanto nella potenza militare o in quella economica, quanto nella profonda fiducia di riuscire a superare gli ostacoli, secondo il principio riassunto nella frase non importa quante volte cadi, quella che conta è la velocità con cui ti rimetti in piedi"
di Giovanni Russo tratto da il Corriere della Sera del 20/07/09, p. 29
casa editrice Mondadori: http://www.mondadori.it/libri/index.html
La fortuna non esiste. Storie di uomini e donne che hanno avuto il coraggio di rialzarsi di Mario Calabresi, 2009, Mondadori (collana Strade blu)
"Ci vediamo domani" ( edizioni bd): il fumetto esplora l’abisso della mente umana. Rec. di Fabrizio Malerba*
“Ci Vediamo Domani” è una graphic novel realizzata dal bravissimo Ned Bajalica, artista di origini leccesi che ora vive a Milano, un lavoro complesso, di qualità, non solo perché realizzato con il prestigioso contributo del famoso psichiatra Paolo Crepet, che ne firma il soggetto, ma anche e soprattutto per la bellezza dei disegni che raggiungono una maturità espressiva indice di grande padronanza del media fumetto. Il mondo del fumetto offre spesso inaspettate sorprese, opere di grande valore non destinate al puro intrattenimente ma rivolte ad un pubblico esigente, curioso ma anche coraggioso, perché non sempre è facile accostarsi a determinate tematiche, soprattutto quando le stesse coinvolgono quei luoghi oscuri della mente umana. Atmosfere quasi irreali costruite attraverso un sapiente utilizzo di luci e ombre dove i neri dominano le pagine per aprire un varco nell’oscurità dell’animo umano. Un segno essenziale e ricercato, poche linee per descrivere le complessità di esistenze giunte a un bivio.
I racconti, tratti da una raccolta di casi clinici, scritti da Crepet trovano nei disegni di Bajalica la loro naturale collocazione. Lo stesso psichiatra, nella prefazione, ha manifestato grande entusiasmo nel vedere il risultato positivo di questo sodalizio:“…quando pensavo ai miei personaggi provavo a immaginare a chi potessero assomigliare. Adesso lo so, ed è, ve lo posso assicurare, una bella sorpresa scoprire che ogni tanto non solo ti accade di sognare, ma anche di vedere la tua idea raggiungere un’altra persona. Grazie Ned.”
Storie ordinarie, di tragedie personali, consumate nella solitudine del web, della strada, a volte della propria famiglia.
Ned Bajalica, già artisticamente noto come “erede” di Jacovitti, torna, con uno stile del tutto rinnovato, per regalarci emozioni nuove, frutto di una maturazione umana e professionale, dove le vicende dei suoi personaggi pongono l’attenzione su una dimensione più profonda della realtà. Una riflessione sulla vita e sulla morte, un intensa esperienza narrativa da cui partire non per trovare risposte, ma piuttosto per porsi nuove domande sull’esistenza umana.
“Ci Vediamo Domani” è un libro pubblicato da edizioni bd nella linea Alta fedeltà.
*redazione Talkink
I racconti, tratti da una raccolta di casi clinici, scritti da Crepet trovano nei disegni di Bajalica la loro naturale collocazione. Lo stesso psichiatra, nella prefazione, ha manifestato grande entusiasmo nel vedere il risultato positivo di questo sodalizio:“…quando pensavo ai miei personaggi provavo a immaginare a chi potessero assomigliare. Adesso lo so, ed è, ve lo posso assicurare, una bella sorpresa scoprire che ogni tanto non solo ti accade di sognare, ma anche di vedere la tua idea raggiungere un’altra persona. Grazie Ned.”
Storie ordinarie, di tragedie personali, consumate nella solitudine del web, della strada, a volte della propria famiglia.
Ned Bajalica, già artisticamente noto come “erede” di Jacovitti, torna, con uno stile del tutto rinnovato, per regalarci emozioni nuove, frutto di una maturazione umana e professionale, dove le vicende dei suoi personaggi pongono l’attenzione su una dimensione più profonda della realtà. Una riflessione sulla vita e sulla morte, un intensa esperienza narrativa da cui partire non per trovare risposte, ma piuttosto per porsi nuove domande sull’esistenza umana.
“Ci Vediamo Domani” è un libro pubblicato da edizioni bd nella linea Alta fedeltà.
*redazione Talkink
Poesie in transito n.7/12 di Maria Grazia Palazzo
7. Da riva a riva
Come un messaggio in bottiglia
che il vento sospinge da riva a riva,
salva dopo un lungo percorso, attendo
che l’ onda lunga mi raggiunga,
giorni, notti, anni fino all’approdo.
8. Viaggio di ritorno
A colpo sicuro voglio abbracciare
questo viaggio di ritorno
in un battito di luce d’alba
voglio chiamare la donna bambina
diventata adulta, amica, amante
fattrice di coscienze ridestate, ribelle
a fuochi fatui di amori immaturi,
levatrice instancabile di felicità perdute
dietro le porte sante dei nostri quotidiani.
9. Ferro e fuoco
Ferro e fuoco
per trovare riposo,
cercasi una carezza sul corpo
fino a dentro l’anima, il crocifisso è dietro l’angolo,
dietro finestre socchiuse che soffoca, gronda sudore, il sangue non si vede,
eppure ha voglia di tenerezza, di un sorriso.
Ognuno reclama il suo paradiso.
10. Il suonatore di reti
Il suonatore di reti
maneggia la corda ad occhi chiusi
non si scompone, non si scoraggia,
non perde mai la concentrazione, il filo…
Una musica lo sostiene, nel silenzio di una luce a straforo,
per salvarsi dalla noia, dai veleni sordi dell’ozio,
scioglie nodi e ricompone albe e tramonti ...
11. Abbracciami
Abbracciami, voglio sentire il tuo respiro, la tua risata
non è destino tra noi, ma una specie di fascinazione rara
come radici di pianta che si attaccano alla pietra
resisterò, mi nutrirò della stessa linfa,
e staremo così, appena appoggiati,
con la testa reclinata, spalla a spalla
come in un quadro di Klimt…
12. Memoria
Scivoliamo in chiave di sol
le tue dita rullano in cerca di note giuste
lungo la viola da gamba il legno
profuma la notte antica dell’ amore
i petali si sfaldano in un soffio
la luna ci sorride versando in semicerchio
un po’ del suo silenzio, una nuvola
allontana il mondo, il mare
arriccia la schiuma verso
l’orizzonte…una rete
infuoca la memoria
del risveglio.
domenica 19 luglio 2009
Il libro del giorno: Noi due come un romanzo di Paola Calvetti, Mondadori (collana Omnibus)
Emma sta per raggiungere la fatidica soglia dei cinquanta, ha un figlio adolescente, un ex marito e una brillante carriera, quando decide di rivoluzionare la sua vita - e quella di molti altri. Nei locali avuti in eredità da una zia, nel cuore di Milano, apre una libreria: si chiama "Sogni&Bisogni" e venderà solo libri d'amore... "Sogni&Bisogni" diventa presto il rifugio e il luogo d'incontro per una folla di personaggi: da Alice, trentenne e vivacissima aiutante libraia, a Gabriella - l'amica di sempre, il cui marito commercialista è il Nemico Fedele che veglia sui progetti di Emma ai tanti lettori, uomini e donne, giovani e anziani, che portano le loro vite fra i libri e così ne trovano di nuove. Ma, soprattutto, è grazie alla libreria e a una fatale coincidenza che Emma ritrova Federico, il grande amore della sua giovinezza.
"(...) un libro da leggere d'un fiato, intelligente, raffinato, elegante, e in cui scoprire o riscoprire, come la lettura possa essere anche occasione di conoscenza, d'incontro se, parafrasando Vinicius de Moraes, mi sento di dire: la lettura è l'arte dell'incontro (lui disse la vita è l'arte dell'incontro). Eppoi evviva queste libraie, queste biblioteche, sapienti donne di libri, di lettura e di vita"
di Massimo Gatta tratto da Leggere:Tutti (giugno/luglio 09), p. 48
casa editrice Mondadori: http://www.mondadori.it/libri/index.html
Noi due come un romanzo di Paola Calvetti
2009. Mondadori (collana Omnibus)
"(...) un libro da leggere d'un fiato, intelligente, raffinato, elegante, e in cui scoprire o riscoprire, come la lettura possa essere anche occasione di conoscenza, d'incontro se, parafrasando Vinicius de Moraes, mi sento di dire: la lettura è l'arte dell'incontro (lui disse la vita è l'arte dell'incontro). Eppoi evviva queste libraie, queste biblioteche, sapienti donne di libri, di lettura e di vita"
di Massimo Gatta tratto da Leggere:Tutti (giugno/luglio 09), p. 48
casa editrice Mondadori: http://www.mondadori.it/libri/index.html
Noi due come un romanzo di Paola Calvetti
2009. Mondadori (collana Omnibus)
Balla Juary. Sferragliando verso sud, di Fabio Izzo, prefazione di Gianluca Morozzi, Il Foglio (Piombino, 2009). Rec . di Nunzio Festa
Inutile prendersi in giro o far finta di non capire: Juary era quel giocatore dell'Avellino che inventò un modo più strambo del normale d'esultare dopo la rete: un balletto intorno alla bandierina del calcio d'angolo. Inutile prendersi in giro, ancora; perché “Balla Juary. Sferragliando verso sud” è pure la storia d'un innamoramento, o quantomeno d'una infatuazione. Diciamo, visto che è comunque inutile passeggiare su certe cose fingendo, che questo nuovo romanzo di Fabio Izzo – autore del meglio riuscito e completamente diverso (per stile, forma, contenuti, vivacità...) “Eco a perdere” - prova a essere una creazione letteraria che tenta di guardare a cose che non tutti guardano. Cosa, però, appunto riuscita a metà. In quanto, per esempio, se è vero che d'un protagonista del sud a nord e del nord a sud non s'era forse mai letto, e anche vero che lo si deve poter leggere in tutto il suo Significato. Ma, per fortuna, l'autore riesce bene, e utilizzando una lingua meno 'innovativa' e sperimentale del recente passato, a presentare una rappresentazione d'almeno un paio di dinamiche che oggi sono parte della vita realte. Tanto per cominciare, l'influenza e il rapporto fra genitore e/o genitrice con figlio e/o figlia, in special modo guardando alla sensibilità o insensibilità persino del mammone, come il sempre attuale processo di ritorno e d'andata verso sud che vuol dire emigrazione per lavoro specialmente in direzione nord. Ancora, Izzo dice ma non racconta se non in parte e in maniera parziale che significa tifare al Meridione e che significa farlo più sopra del Mezzogiorno. Il romanzo sarà servito in particolare allo scrittore stesso, che difronte all'immensità di certi temi comprende o comprenderà o ha compreso che serve soffermarsi maggiormente oppure non pensarci proprio sopra su tanto. Non esistono vie di mezzo. L'autore, che recentemente è stato premiato al concorso Dialoghi con Pavese del Premio Grinzane di Cavour, ha molto davanti e doti da far vivere.
Balla Juary. Sferragliando verso sud, di Fabio Izzo, prefazione di Gianluca Morozzi, Il Foglio (Piombino, 2009), pag. 137, euro 12.00.
Balla Juary. Sferragliando verso sud, di Fabio Izzo, prefazione di Gianluca Morozzi, Il Foglio (Piombino, 2009), pag. 137, euro 12.00.
sabato 18 luglio 2009
Il libro del giorno: Duecentosei ossa di Kathy Reichs (Rizzoli)
Tempe Brennan sente il cuore pulsare al ritmo della paura. È prigioniera e non sa perché: qualcuno l'ha rinchiusa in un sotterraneo, insieme a mucchi di resti umani. Proprio lei, che di mestiere legge nelle ossa dei morti la storia delle persone. Confusa e incredula, con le mani e i piedi legati, Tempe non riesce a immaginare cosa possa esserle accaduto. Finché, lentamente, comincia a ricordare... Una telefonata anonima che l'accusa di aver insabbiato la verità sull'omicidio di un'ereditiera - un'inchiesta chiusa da tempo, che qualcuno ha voluto portare alla ribalta. Poi un nuovo caso, tre cadaveri ritrovati nei boschi attorno a Montreal, tutte donne anziane, tutte massacrate con inaudita ferocia, e i grossolani errori che la dottoressa Brennan avrebbe commesso nell'analisi dei loro corpi. Errori inspiegabili per una professionista come lei, cui ogni volta ha rimediato una nuova, ambiziosa collega, l'anatomopatologa Marie-Andréa Briel. Così, sola nella sua prigione, Tempe ricompone il puzzle: questa volta è lei il bersaglio, e solo lei può trovare il modo di liberarsi e capire chi l'ha voluta fuori dai giochi e perché.
"Torna l'antropologa forense Tempe Brennan, che nelle ossa dei morti legge la storia delle persone. Ma questa volta è lei, sepolta viva, in trappola tra falangi rubate e cadaveri"
di Annalisa Usai tratto da L'Almanacco dei libri de La Repubblica del 18/07/09, p. 42
casa editrice Rizzoli: http://rizzoli.rcslibri.corriere.it/rizzoli/
Duecentosei ossa di Kathy Reichs, 2009, 394 p. (Rizzoli)
"Torna l'antropologa forense Tempe Brennan, che nelle ossa dei morti legge la storia delle persone. Ma questa volta è lei, sepolta viva, in trappola tra falangi rubate e cadaveri"
di Annalisa Usai tratto da L'Almanacco dei libri de La Repubblica del 18/07/09, p. 42
casa editrice Rizzoli: http://rizzoli.rcslibri.corriere.it/rizzoli/
Duecentosei ossa di Kathy Reichs, 2009, 394 p. (Rizzoli)
Rossano Astremo, 101 cose da fare in Puglia almeno una volta nella vita (Newton Compton). Anteprima dell'autore
Carpignano Salentino è un paese di quattromila anime, in provincia di Lecce, distante 15 chilometri da Otranto. Nel 1974, da maggio ad ottobre, Carpignano ospitò Eugenio Barba e il suo Odin Teater. In quel periodo la compagnia teatrale danese era in tournee formativa e scelse Carpignano come base delle sue attività. Dopo un iniziale periodo di seminari ed incontri, Barba propose l’idea di scambiare le tradizioni locali di musiche e danze con gli spettacoli del suo gruppo. Immaginate ora la presenza, nelle strade di un piccolo paesino del Salento, dove gran parte dei suoi abitanti non sapeva ancora né leggere e né scrivere, di spettacoli teatrali d’avanguardia. L’iniziale reazione dei carpignanesi fu d’incomprensione. Questo sino a quando un gruppo di amici diede vita ad una festa paesana improvvisata, in cui a farla da padrona furono musiche e balli tradizionali, assaggi di prodotti tipici preparati in famiglia e vino locale. Era l’11 agosto del 1974. Barba ebbe il merito di condurre gli abitanti di Carpignano fuori dalla monotonia dei una vita spesa nei campi e diede la dimostrazione del fatto che rivivere la propria cultura può dare gioia e felicità, anche se solo per una notte. Questa è l’origine della Festa te lu mieru (Festa del vino), che dal 1975 si ripete ogni anni nella prima settimana di settembre. Definita la “madre di tutte le sagre”, la Festa te lu mieru accoglie ogni anno migliaia di visitatori provenienti da tutta la regione, i quali si riversano nelle due piazze del paese, Piazza Duca D’Aosta e Largo Madonna delle Grazie, dove sono presenti centinaia di stand enogastronomici e i palchi in cui s’inscenano spettacoli con pizziche e tarante a scandire il ritmo dell’evento. Occasione ghiotta questa per gustare i piatti tipici del Salento, dai pezzetti di cavallo al sugo alla carne arrostita, dalle friselle ai fagioli, dalle pitte (piatto tipico salentino realizzato con patate) alle uliate (pane con olive), dalle pittule fritte (frittelle salate) alle porzioni di patatine fritte di cui ogni anno ne vengono distribuite oltre centomila, il tutto annaffiato dal vino locale distribuito a fiumi. È una sagra, questa di Carpignano, che coinvolge e travolge ed anche chi si reca con le migliori intenzioni sarà vinto dal potere dionisiaco che conquista tutti i partecipanti.
Restare sobri sarà un’impresa ardua.
(Carpignano Salentino . Cercare di restare sobri alla Festa te lu mieru di Rossano Astremo - per concessione dell'autore)
Rossano Astremo, 101 cose da fare in Puglia almeno una volta nella vitacollana Centouno n. 25, Newton Compton
Dal 30 luglio in libreria
Restare sobri sarà un’impresa ardua.
(Carpignano Salentino . Cercare di restare sobri alla Festa te lu mieru di Rossano Astremo - per concessione dell'autore)
Rossano Astremo, 101 cose da fare in Puglia almeno una volta nella vitacollana Centouno n. 25, Newton Compton
Dal 30 luglio in libreria
venerdì 17 luglio 2009
Il libro del giorno: I loro occhi guardavano Dio di Zora Neale Hurston (edizioni Cargo)
Janie Stark, donna di colore di qurant'anni, rievoca la storia della sua tormentata vita. Sposata a un uomo molto più grande di lei Janie fugge per finire tra le braccia di Joe, furbo e ambizioso, che ben presto diventa un potente commerciante. Condannata a subire i soprusi di Joe, rivelatosi arrogante e violento, Janie decide di fuggire di nuovo quando incontra Tea Cake, per ricominciare una nuova vita. Ma la sorte si accanisce contro di lei, e sarà proprio Janie, quando un cane rabbioso morde Tea Cake, a dover mettere fine alle sofferenze del ragazzo con un colpo di fucile. Solo dopo aver subito un processo infamante, Janie ritorna al suo paese natale, dove vivrà nel ricordo di una felicità perduta.
"Una lettura intensa,che ha molto contribuito all'emancipazione delle donne di colore sin dai tempi della prima pubblicazione,ma che nonostante tutto, rimane di attualità"
di Gian Paolo Serino tratto da Il venerdì di Repubblica n. 1113, p. 108
Edizioni Cargo: http://www.edizionicargo.it/
I loro occhi guardavano Dio di Zora Neale Hurston
2009, 267 p., brossura, Editore Cargo (collana Biblioteca di Cargo)
"Una lettura intensa,che ha molto contribuito all'emancipazione delle donne di colore sin dai tempi della prima pubblicazione,ma che nonostante tutto, rimane di attualità"
di Gian Paolo Serino tratto da Il venerdì di Repubblica n. 1113, p. 108
Edizioni Cargo: http://www.edizionicargo.it/
I loro occhi guardavano Dio di Zora Neale Hurston
2009, 267 p., brossura, Editore Cargo (collana Biblioteca di Cargo)
LE BENEVOLE di JONATHAN LITTEL (EINAUDI). Rec. di Silla Hicks
Di tutto quello che mi è capitato tra le mani, negli ultimi mesi o in tutta la vita, queste quattrocento e rotte pagine sono sicuramente tra il poco che non mi riuscirà di scordare. Intanto, per la scritta bozze non corrette sotto al titolo:cazzo, chiunque scriva sa che privilegio è, poter accedere a una cosa del genere,una specie di pass per la zona vip dove normalmente uno come te non potrebbe sognarsi di entrare, nella testa e nel cuore di chi ha partorito quel mondo prima che c’entrasse il gioco al massacro della sala tagli e molto ne restasse sul pavimento, magari proprio quello che adesso hai la fortuna di sentire artigliarti lo stomaco, e che commercialmente non era possibile mantenere. E sottolineo il commercialmente, anche: avverbio che poco o niente dovrebbe c’entrate con la scrittura e che invece l’invade come un tumore maligno: cazzo, quant’è difficile da accettare, e vaffanculo se così va il mondo, quando ci penso ringrazio dio di vivere di altro, sono scorpione ascendente scorpione e anche se non credo agli oroscopi sarà per questo che la diplomazia e i compromessi stanno a me come l’olio all’acqua, non penso mai a quella che sarà la reazione di chi avrà la pazienza di starmi ad ascoltare né a quanti lo faranno, e vaffanculo se questo vuol dire che farò a vita il camionista, non sono capace di prostituire le parole.
Persino rileggermi è a volte un tradimento, smussare gli angoli come una bugia: le cose buone escono già buone, e quelle cattive non c’è modo di aggiustarle. Scrivere non è come andare in bicicletta. Non si può imparare, né farlo a comando. Non si può decidere dove andare, sei solo un medium, la storia è già là, ed è un dono. Il cartellino del prezzo, un orpello osceno. Nella mia personale Utòpia (quella di Moore: non l’utopìa, che è una categoria, ma un mondo intero), tutti i libri sono gratis. Come l’open source di Linux.
E questo meriterebbe davvero di esserlo: è Le benevole, di Jonathan Littel, e il consiglio è uno solo, compratelo o fatevelo prestare, leggetelo, insomma, e poi piegatevi in due scossi da conati di vomito e ringraziatemi, perché questo Obersturmfurher mezzo francese chiamato Max Aue – incrocio ben riuscito tra Fernando Caretta e il Grillo Parlante di Pinocchio – è il cicerone ideale per raccontare la Germania impazzita che cercò di distruggere il mondo e che è obbligatorio visitare, per non riesumarla né ora né mai.
Max Aue (Maximilien Aue): da SS a dirigente di una fabbrica francese di merletti, a occhi spalancati attraversa un ventennio disumano con il distacco di un entomologo lobotomizzato al cuore, e senza scuse né giri di parole ammette ogni cosa, perché è quello che è stato, e non ci sono altri modi per dirlo.
In un tempo di collettiva perdita di coscienza, lui vede tutto e racconta tutto, senza metro di giudizio, perché non può essercene. È amante incestuoso, pederasta, matricida e assassino testimone di atrocità irrancontabili – la banda di bambini feroci, le fosse comuni, le amazzoni ariane ossessionate dal perdurare la razza – e tutto senza distogliere le sguardo, mantenendosi lucido mentre cammina scalzo tra cocci di follia. Il fronte orientale e i ricevimenti del Reich, il cranio fracassato del neonato e il morso al naso globoso del Furher, la fedeltà alla propria gemella Miriam che lo spinge tra nerborute braccia maschili, il riciclarsi con successo negli affari quando tutto è finito, facendo sparire le tracce di ciò che è stato assieme al compagno di una vita, Thomas, diventato pericoloso testimone: ogni fotogramma è asetticamente ripreso, senza censura né sensi di colpa, con la camera fissa di un Von Trier in stato di grazia, pacato monologo colto e accurato, e un finale alla Herzog nello zoo bombardato di Berlino, l’agonia dell’ippopotamo come visionaria metafora di quella di un’epoca e dell’universo del mondo.
Apocalittico, come apocalittico è stato il buio della mente che ci ha contagiato tutti, noi tedeschi in primis, ma tutti quanti dietro. Virus mai debellato che raffiora qua e là anche oggi, e che la teoria politically correct del rispetto della sovranità degli Stati vorrebbe costringerci a non riconoscere, così che finirà per divampare in universale epidemia, di nuovo.
Senza che nessuno faccia niente. Così che altri Max Aue ci trovino un habitat ideale.
Sperando che dopo resti qualcuno, ad ascoltarli raccontare.
BENEVOLE HORLA,(LE BENEVOLE, di JONATHAN LITTEL, EINAUDI, TORINO, 2007. Rec. di Silla Hicks)
Persino rileggermi è a volte un tradimento, smussare gli angoli come una bugia: le cose buone escono già buone, e quelle cattive non c’è modo di aggiustarle. Scrivere non è come andare in bicicletta. Non si può imparare, né farlo a comando. Non si può decidere dove andare, sei solo un medium, la storia è già là, ed è un dono. Il cartellino del prezzo, un orpello osceno. Nella mia personale Utòpia (quella di Moore: non l’utopìa, che è una categoria, ma un mondo intero), tutti i libri sono gratis. Come l’open source di Linux.
E questo meriterebbe davvero di esserlo: è Le benevole, di Jonathan Littel, e il consiglio è uno solo, compratelo o fatevelo prestare, leggetelo, insomma, e poi piegatevi in due scossi da conati di vomito e ringraziatemi, perché questo Obersturmfurher mezzo francese chiamato Max Aue – incrocio ben riuscito tra Fernando Caretta e il Grillo Parlante di Pinocchio – è il cicerone ideale per raccontare la Germania impazzita che cercò di distruggere il mondo e che è obbligatorio visitare, per non riesumarla né ora né mai.
Max Aue (Maximilien Aue): da SS a dirigente di una fabbrica francese di merletti, a occhi spalancati attraversa un ventennio disumano con il distacco di un entomologo lobotomizzato al cuore, e senza scuse né giri di parole ammette ogni cosa, perché è quello che è stato, e non ci sono altri modi per dirlo.
In un tempo di collettiva perdita di coscienza, lui vede tutto e racconta tutto, senza metro di giudizio, perché non può essercene. È amante incestuoso, pederasta, matricida e assassino testimone di atrocità irrancontabili – la banda di bambini feroci, le fosse comuni, le amazzoni ariane ossessionate dal perdurare la razza – e tutto senza distogliere le sguardo, mantenendosi lucido mentre cammina scalzo tra cocci di follia. Il fronte orientale e i ricevimenti del Reich, il cranio fracassato del neonato e il morso al naso globoso del Furher, la fedeltà alla propria gemella Miriam che lo spinge tra nerborute braccia maschili, il riciclarsi con successo negli affari quando tutto è finito, facendo sparire le tracce di ciò che è stato assieme al compagno di una vita, Thomas, diventato pericoloso testimone: ogni fotogramma è asetticamente ripreso, senza censura né sensi di colpa, con la camera fissa di un Von Trier in stato di grazia, pacato monologo colto e accurato, e un finale alla Herzog nello zoo bombardato di Berlino, l’agonia dell’ippopotamo come visionaria metafora di quella di un’epoca e dell’universo del mondo.
Apocalittico, come apocalittico è stato il buio della mente che ci ha contagiato tutti, noi tedeschi in primis, ma tutti quanti dietro. Virus mai debellato che raffiora qua e là anche oggi, e che la teoria politically correct del rispetto della sovranità degli Stati vorrebbe costringerci a non riconoscere, così che finirà per divampare in universale epidemia, di nuovo.
Senza che nessuno faccia niente. Così che altri Max Aue ci trovino un habitat ideale.
Sperando che dopo resti qualcuno, ad ascoltarli raccontare.
BENEVOLE HORLA,(LE BENEVOLE, di JONATHAN LITTEL, EINAUDI, TORINO, 2007. Rec. di Silla Hicks)
In libreria per Sellerio Confessione di Bill James
Ritornano i personaggi di Protezione, il primo giallo della serie di Bill James pubblicato in Italia accolto subito come un maestro. L’ambiente è ancora una volta quello di un commissariato di polizia inglese dove agenti non sempre “immacolati” - non mancano i deboli, gli infiltrati, i corrotti - si mescolano a capi dalla dubbia condotta. Il tutto complicato dai rapporti tra loro, le loro mogli, e i tanti che si muovono al confine tra malavita e persone per bene.
Questa volta al centro della vicenda è Sarah, la moglie dell’Assistente Commissario Capo Desmond Iles. Una sera Sarah si trova al Monty, il malfamato locale del barone della droga Ralph Ember, quando vi giunge trafelato un giovane molto elegante che subito si accascia sul pavimento, evidentemente ferito.
È proprio Sarah ad ascoltare le ultime, incomprensibili parole del ragazzo, prima che Ralph spenga la luce permettendo ai sopraggiunti inseguitori di completare la loro opera. Sarah vorrebbe vederci chiaro, ma non può certo raccontare l’accaduto al marito Desmond, dato che quella sera al Monty si trovava in compagnia dell’amante Ian Aston. Sarà tuttavia lo stesso Desmond Iles a rivelare involontariamente alla moglie che, proprio a causa di quello che ha visto al Monty, Ian corre un gravissimo pericolo.
“Questo primo romanzo pubblicato in Italia del britannico Bill James è uno dei polizieschi più interessanti dell’anno”. (Mauro Anselmo, Panorama)
“Nel poliziesco, che in fondo è la versione adulta del gioco guardie e ladri, uno scrittore deve decidere prima di tutto da che parte sta, e molto dipende da quella scelta. Però ci sono gli scrittori come Bill James che sanno tenere i piedi in due scarpe, costruendoci la propria fortuna”. (Maurizio Bono, La Repubblica)
“Gli intrighi orditi dai poliziotti buoni per sopperire alle imperizie e ai tradimenti del dipartimento ricordano il Wanbaugh di I ragazzi del coro. E non è poco”. (Laura Grimaldi, Il Sole 24 Ore)
Bill James, pseudonimo di James Tucker, scrittore gallese. “Le leggende editoriali raccontano che Bill James sia stato pilota della Raf e agente del controspionaggio britannico, - scrive Luca Crovi sul ‘Giornale’ - ma lui semplicemente confessa di aver imparato tutto ciò che sa sul mondo del crimine durante l’apprendistato come cronista di nera al Daily Mirror. Da 23 anni è un maestro del noir europeo grazie all’originalità con cui ha caratterizzato i suoi angelici e allo stesso tempo satanici poliziotti Colin Harpur e Desmond”.
Con il suo vero nome ha pubblicato un libro di critica letteraria, The Novels of Anthony Powell.
Questa volta al centro della vicenda è Sarah, la moglie dell’Assistente Commissario Capo Desmond Iles. Una sera Sarah si trova al Monty, il malfamato locale del barone della droga Ralph Ember, quando vi giunge trafelato un giovane molto elegante che subito si accascia sul pavimento, evidentemente ferito.
È proprio Sarah ad ascoltare le ultime, incomprensibili parole del ragazzo, prima che Ralph spenga la luce permettendo ai sopraggiunti inseguitori di completare la loro opera. Sarah vorrebbe vederci chiaro, ma non può certo raccontare l’accaduto al marito Desmond, dato che quella sera al Monty si trovava in compagnia dell’amante Ian Aston. Sarà tuttavia lo stesso Desmond Iles a rivelare involontariamente alla moglie che, proprio a causa di quello che ha visto al Monty, Ian corre un gravissimo pericolo.
“Questo primo romanzo pubblicato in Italia del britannico Bill James è uno dei polizieschi più interessanti dell’anno”. (Mauro Anselmo, Panorama)
“Nel poliziesco, che in fondo è la versione adulta del gioco guardie e ladri, uno scrittore deve decidere prima di tutto da che parte sta, e molto dipende da quella scelta. Però ci sono gli scrittori come Bill James che sanno tenere i piedi in due scarpe, costruendoci la propria fortuna”. (Maurizio Bono, La Repubblica)
“Gli intrighi orditi dai poliziotti buoni per sopperire alle imperizie e ai tradimenti del dipartimento ricordano il Wanbaugh di I ragazzi del coro. E non è poco”. (Laura Grimaldi, Il Sole 24 Ore)
Bill James, pseudonimo di James Tucker, scrittore gallese. “Le leggende editoriali raccontano che Bill James sia stato pilota della Raf e agente del controspionaggio britannico, - scrive Luca Crovi sul ‘Giornale’ - ma lui semplicemente confessa di aver imparato tutto ciò che sa sul mondo del crimine durante l’apprendistato come cronista di nera al Daily Mirror. Da 23 anni è un maestro del noir europeo grazie all’originalità con cui ha caratterizzato i suoi angelici e allo stesso tempo satanici poliziotti Colin Harpur e Desmond”.
Con il suo vero nome ha pubblicato un libro di critica letteraria, The Novels of Anthony Powell.
giovedì 16 luglio 2009
Il libro del giorno: Il lettore controverso di Guido Piovene (Aragno)
Controversa la figura di Piovene non è solo per la coda polemica, anche aspra, che ha seguito le sue molte conversioni politiche e ideali; vi è nel metodo stesso della sua militanza intellettuale una radice critica ‘assoluta’, che impedisce al suo discorso di fermarsi sulle idee correnti. Avverso ai dogmatismi e alle definizioni stabili, anche contro se stesso e le proprie «febbriciattole di convinzione effimera», istituisce sempre coi suoi temi un rapporto dialettico, tortuoso, complicato dalle mille sottigliezze della sua psicologia. Che presenta da un lato una violenta tendenza alla compromissione personale, dall’altro un culto fanatico verso la verità. Scrittore e giornalista, intellettuale integrato ai più alti livelli dell’industria culturale, Piovene è il tipico rappresentante di un secolo impuro come il Novecento, di cui sconta in un singolare corpo a corpo tutte le principali contraddizioni. La riflessione sulla letteratura, tipicamente centrata sui destini dell’arte narrativa, lo accompagna senza pause nella sua lunga carriera, dal ventennio fascista all’età della crisi e della contestazione. Sicché si occupa di Tozzi, Kafka, Moravia, Céline, dialoga con Fortini sul marxismo e prende parte al dibattito sul caso Pasternak. Sono interventi a caldo, scritti a ridosso dei libri e degli eventi che li hanno provocati, prima sulle riviste militanti e con passione da giovane scrittore, poi sulle grandi testate nazionali («Il Corriere della Sera», «La Stampa», «Il Giornale Nuovo» di Montanelli), spesso secondo i tempi urgenti dettati dai giornali. Non si userà pertanto per Piovene la fortunata formula di critico scrittore, perché lo scopo pratico né l’occasione dei suoi articoli vengono quasi mai dimenticati. E tuttavia, in questo stare agganciati al loro tempo, oltre che per le doti di scrittura e per la vasta, inusitata ampiezza di prospettive di Piovene, questi scritti rivelano un sicuro motivo d’interesse, non solo per gli specialisti: per il loro valore di testimonianza e per ‘l’energia dell’errore’ che vi circola libera e potente. L’antologia degli scritti, che li raccoglie per la prima volta in un’edizione organica, è corredata da un’ampia introduzione e da una bibliografia esauriente delle collaborazioni letterarie.
"Piovene pensava, anni 60, che Cèline non fosse uno dei maggiori maestri del tempo. Trovava il suo inferno un pò superficiale. E sentiva in lui magari ben dissimulato, un fiatone sentimentale, come un'asma cardiaca. Antipremio (a Piovene)"
di Antonio D'Orrico tratto da Antipremio della settimana del Corriere della Sera magazine n. 28 del 16/07/09, p. 101
casa editrice Aragno: http://www.ninoaragnoeditore.it/
Guido Piovene, IL LETTORE CONTROVERSO
Scritti di letteratura (a cura di Giovanni Maccari), 2009
"Piovene pensava, anni 60, che Cèline non fosse uno dei maggiori maestri del tempo. Trovava il suo inferno un pò superficiale. E sentiva in lui magari ben dissimulato, un fiatone sentimentale, come un'asma cardiaca. Antipremio (a Piovene)"
di Antonio D'Orrico tratto da Antipremio della settimana del Corriere della Sera magazine n. 28 del 16/07/09, p. 101
casa editrice Aragno: http://www.ninoaragnoeditore.it/
Guido Piovene, IL LETTORE CONTROVERSO
Scritti di letteratura (a cura di Giovanni Maccari), 2009
Miracoli? di Roberto Volterri (Acacia edizioni, 2009)
Con sorpresa e grande piacere ricevo la notizia da Roberto Volterri,ricercatore dell'insolito, (che ho già avuto il modo e il piacere di recensire sulle pagine di questo blog)la notizia dell'uscita per i tipi di Acacia edizioni del suo diciottesimo lavoro dal titolo "Miracoli" con la prefazione dell'immenso Roberto Pinotti. Un libro ‘strano’, diverso, un libro in cui troverete un vasto panorama di fenomeni ‘anomali’, ‘impossibili’, insomma ‘miracolosi’, che, però, potrebbero essere inquadrati da un altro punto di vista, forse nell’ambito della Biologia, della Chimica, della Fisica. Troverete inoltre moltissime Appendici Sperimentali che vi consentiranno di cercare di riprodurre dei ‘miracoli’ molto semplici e che rientrano in qualche modo nella tematiche trattate. Non imparerete di certo a camminare sulle acque, non raggiungerete il vostro appartamento, entrando ovviamente dalla finestra, levitando fino al quarto piano, non farete impallidire Mosè facendo scaturire acqua dalla roccia, ma – si sa – viviamo tempi difficili e bisogna… accontentarsi.
Buon ’viaggio’ e buona sperimentazione!
Info:
Acacia Edizioni: Tel. 02/ 90090606 oppure info@eremonedizioni.it
ordini@acaciaedizioni.com
Buon ’viaggio’ e buona sperimentazione!
Info:
Acacia Edizioni: Tel. 02/ 90090606 oppure info@eremonedizioni.it
ordini@acaciaedizioni.com
Amnesie amniotiche, di Pasquale Vitagliano, LietoColle (2009). Rec. di Nunzio Festa
I versi che Pasquale Vitagliano ha raccolto in “Amnesie amniotiche” sono un passo di testimonianza, vergate da un 'plurale collettivo' vissuto negli occhi e negli oggetti dell'io. La silloge è essa stessa testimonianza, non poesia civile ma comunque poesia che fa parte della più 'alta' civilta. Una scrittura, quella di Vitagliano, che riesce a sganciarsi, anzi essere sganciata e/o non allacciata invece alla bassa retorica (non di figure ma di parole e sensi e immagini e sviluppi) – certamente diventando cuore che fa anche originalità proprio grazie a questo. Il volume, diviso in otto sezioni e corredato da opere di Mark Rothko, è la prove poetica di un editor e giornalista, leccese di nascita ma che vive a lavora in provincia di Bari, già presente sul spazi telematici e in alcune antologie. Le liriche s'alternano per scelta stilistica, pure; in quanto, per esempio, l'autore predilige la versificazione breve e a tratti frammentata/spezzettata mentre in altre ricorre a un versificare più prosastico. Dove troppo cerca di rendere tangile il presente-futuro, però, la raccolta perde qualcosa. Per analizzare un momento più intimistico, si prenda “ansima”, dalla sezione “salmi”. “Sotto il silenzio / la mansuetudine, / come le vene increspate / sotto un cartiglio autistico, / come le gravine / sotto il viadotto. // È la faccia nuda / che cerca di nuovo / il vento salato / della veduta di Byron, / quando fece volare / al cielo il naso finto / di un'esanime maturità. // È questo pennacchio, / che ho cercato / di giocarmi sull'isola / dell'asino bianco, / con l'anima cieca / della baldoria, / che solo la morte / non si scorda. // Quando l'ho perso / c'era una donna: / era lo specchio muto / della mia obesità. / Di questa faccia / mi sarebbe bastato / conoscerne il nome / e invece... // Ho voluto pure / guardare”. La chiusa è bella soprattutto perché lascia aperto un pensiero. Vitagliano, dopo aver composto questa poesia, potrebbe quindi guardare maggiormente a questo tipo d'espressione, leggendo ancora di più e lasciando leggere ancora di più d'irrequietezza e, in qualche modo, di continue ricerche proprie del poeta. E attraverso il personale, sappiamo, che il collettivo si forma, o comunque tenendo sempre conto d'esso. Con la forza d'immagini superiori, per fare un esempio, appunto: quell'asino bianco.
Amnesie amniotiche, di Paquale Vitagliano, prefazione di Giovanni Nuscis, LietoColle (Como, 2009), pag. 92, euro 13.00.
Amnesie amniotiche, di Paquale Vitagliano, prefazione di Giovanni Nuscis, LietoColle (Como, 2009), pag. 92, euro 13.00.
martedì 14 luglio 2009
Il rientro dell'impulso di Marcello Costantini (Lupo editore)
Il Salento. Terra di transito, di attraversamenti, di ragni tarantolati, di ulivi secolari. Salento, terra di meraviglie barocche, di cultura, non solo terra dove impera lu sule, lu mare, lu ientu! Già perché c’è un aspetto della storia di questo territorio ancora tutta da scoprire, tutta ancora da valorizzare e da apprezzare. Ma il Salento è una porzione di territorio che sta sviluppando una serie di riflessioni editoriali molto interessanti su di un genere letterario che sino a Salvatore Toma ed Antonio Verri non c’era mai stato: ovvero il giallo, i cui primi vagiti a queste latitudini sono stati siglati dalle penne di Giovanni Capodicasa e Raffaele Polo. Poi ecco che subentra un ulteriore tassello a questo mosaico che va pian piano a costruire una sua identità ben definita, e mi riferisco al lavoro di Marcello Costantini dal titolo “Il Rientro dell’impulso” per i tipi di Lupo editore. E addirittura si tratta di un tipo particolare di giallo, ovvero quello di natura archeologica, che attraverso una ricchissima serie di narrazioni e storie tratte da fonti specifiche, attraverso l’utilizzo di analisi proprie di metodi provenienti dalla ricerca in questo ambito, la generosità delle citazioni che mai stancano per come il tutto è costruito, ci fanno provare il piacere di una lettura fatta di intrecci che vanno dalle indagini su Roca e la sua tradizione, di un misterioso archeologo “finto messicano” Pallares (curioso e coltissimo) coinvolto in un singolare omicidio le cui vicende ruotano attorno all’Università del Salento, Maria d’Enghien e la sua vicinanza psicotica al tarantismo e mistica al santo dei ragni (S. Paolo di Galatina), e ancora i Normanni, la civiltà dei Messapi legata al culto di una divinità sconosciuta, e ancora tutta una serie di suggestioni che fanno parlare a viva voce paesi salentini come Galatina, Scorrano, Roca, Specchiulla, Porto Badisco sino ad arrivare a Stoccolma, Parigi e Lisbona. Un libro che contribuisce a mettere a nudo il b-side dell’estremo tacco d’Italia, seguendo un intricato percorso che lo porta tra riti primitivi e regine ''tarantate'', santi ambigui e dei arroganti.
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