Solo i miracolati hanno un lavoro e una famiglia a trent’anni, e lo dico io che sono stato fino a ieri uno di loro e che anche adesso uno stipendio a fine mese continuo ad averlo, ed è una fortuna, perché anche la mia non vita ha comunque un prezzo.
Tutti gli altri, sono una mandria che si aggira senza prospettive né speranze, cresciuta senza la fame che ti spinge avanti a tutti i costi ma anche senza quel progetto che ti fa vivo non solo nel corpo ma dentro al cuore: ogni giorno li vedo, caracollare avanti e indietro, con i vestiti e tutto il resto di dieci anni più giovane ma dentro una pelle che sta invecchiando pur senza essere mai stata grande.
Niente responsabilità, niente bambini e niente nemmeno rabbia, si trascinano, angeli caduti dal limitare di quell’adolescenza che è stata un nido troppo morbido e che adesso è diventata una gabbia da cui non sanno uscire.
Chiedono a papà le chiavi del SUV o della Punto, a seconda dei casi, ma in ognuno non sanno dove andare, e con chi, e quando, non ridono né piangono, semplicemente sono, un giorno appresso all’altro, finché non arriva la vita e li strattona o - raramente - li prende per la mano.
Non so di chi è la colpa, ammesso che ce ne sia una: ma non credo che dipenda dal lavoro che non c’è, sarebbe troppo facile, e poi non è nemmeno vero: i miei colleghi sono stranieri, soprattutto slavi, e sì che Valerio non l’avrebbe presi, lui che ha cercato in tutti i modi camionisti italiani se solo ne avesse trovati da assumere, tempo indeterminato e orario completo e tutto, venti giorni l’anno di ferie pagate più i riposi, invece niente, lauree quante ne vuoi, ma patente E e CAP praticamente nessuna.
Perché è dura, questa vita, sì, e la paga non ti fa ricco ma solo tranquillo di mangiare ogni giorno, anche se noi c’abbiamo pagato il mutuo quindici anni, e c’avremmo mantenuto i bambini che volevamo e che non potevamo avere: a tratti ho l’impressione che semplicemente non s’abbassino, e d’altronde sono troppo in alto, hanno studiato e via dicendo, e pazienza se quando nomini Proust credono corresse in Formula 1 e di Fassbinder non hanno visto niente, figurarsi parlare di Fritz Lang. Il fatto è che crescere costa sforzo, e questo è tutto: costa sforzo camminare da soli per andare da qualche parte, e combattere e ferirsi le nocche e innamorarsi, soprattutto, perché cazzo se è vero che l’amore fa male.
Costa sforzo alzarsi dal letto, ed uscire là fuori e affrontare i giorni come un’autostrada, dove ci sono caselli, e code, ma alla fine, prima o poi – se non t’addormenti dopo dodici ore di guida, o non muori di freddo in una piazzola sotto la neve della bassa, o non ardi in un traforo perché le porte tagliafuoco hanno lucchetti che nessuno s’è ricordato di aprire – alla fine, insomma, se dio vuole, arrivi. Sia pure a sederti a un tavolo coperto da una tovaglia di plastica, in una casa vuota, con una birra in mano a scrivere, tenendo tra le braccia il tuo fascio di ricordi, che è tutto quello che ti resta, ma ce l’hai, cazzo, ce l’hai, e se ti tocchi le cicatrici capisci che ci sei ancora, anche se ti coricherai dentro un letto vuoto e t’addormenterai piangendo.
Così, basta, cazzo, basta, non si vive nolente, si vive volente, e vaffanculo se fa – e lo fa, è da credere – un male cane.
Questo è ciò che mi resta tra le dita, di questo libro che ho finito in due giorni e ci ho pensato due settimane, cercando di darci un senso che non fosse la rabbia che provo davanti a questa inettitudine che non ha niente a che vedere con Zeno Cosini, ma solo con il tempo in cui vivo. Questo ragazzo – ragazzo? No, mi spiace: uomo, perché a vent’anni sei ragazzo, ma a trenta no, e questo è quanto, lo si ammetta o meno non cambia – che ciondola in ambiente universitario fuori tempo massimo e frequenta ragazzine fuori sede mi fa rabbia, tanto più quanto più so che non è un parto di fantasia. Mi fa rabbia perché non fa niente, niente e dico niente, per avere una vita e non serbatoio di ore: mi fa rabbia perché persino quando crede di amare non si scuote, e dio sa se l’amore non è un elettrochoc per chicchessia l’abbia mai provato. Mi fa rabbia pensare che esista – che esistano – e mi fa rabbia non trovarci una ragione: non perché io abbia la pretesa di capire il mondo, no, ma perché ho il brutto vizio di farmi domande, e l’incapacità di trovare risposte mi frustra, né più né meno come uscire dal cinema senza vedere la fine.
Quindi, è la rabbia, che mi resta, di questo libro: la rabbia di non riuscire a spiegarmi perché ci siano tanti miei quasi coetanei – io sono nato il 10 novembre del ’72, non nell’anno mille – che non vanno da nessuna parte, mentre la clessidra li si vuota tra le mani. Perché – lo si accetti o no – il tempo passa. E diventa sempre tardi, non importa quanto sia stato presto, fino a ieri.
Così, non so dire se di queste pagine, fiumana di quello che vorrebbe essere stream of consciousness, questo sì a tratti – nelle intenzioni - Sveviano, che scorre lenta, tortuosa, persino incerta, come il protagonista, mi resti altro.
Ma che volete farci, sono un camionista, io. Un operaio. Non ci sono andato neanche un giorno, all’università. Convivevo già, a diciannove anni. Volevo crescere, diventare grande. L’amore mi ha fatto a pezzi. Non posso capire, cosa significhi avere trent’anni, oggi. Avere il mondo in mano e il cuore vuoto e ignorarli entrambi, e lasciarsi nolentemente vivere.
Perché ci ho provato a vivere, io, prima di diventare questo. Non so se Ettore/Italo – ironia della sorte, come me sospeso tra questo paese e quell’altro – mi definirebbe un lottatore o no, ma so che ci ho provato, a non essere un inetto, a piangere e ridere ed esistere. So che ci ho provato, a sentire l’amore. E che ne è valsa la pena di tutto. Anche del dolore, anche di stasera. Che ne vale sempre la pena, perché, altrimenti, allora sì che non c’è nessun senso.
E tra il nolente e il niente – per me, sempre per me – è meglio il niente.
No, non mi riferisco al nichilismo, abusato dal protagonista come la frase ti amo sulla bocca della maggior parte della gente. Voglio dire il niente che è niente davvero. Staccare la spina. Game over.
Certo, è un peccato. Perché, credetemi, c’è sempre la vita, là fuori.
VOLENTE O NOLENTE Rec. Di Silla Hicks
(NOLENTE di Tony Sozzo – Lupo Editore, Copertino, 2008)