Passaggi per il bosco :: festival di lettere in musiche da periferia
Gruppo Opìfice, Gianluca Morozzi, Vanni Santoni, Gianfranco Franchi, Paolo Mascheri, Simone Rossi, Carlo Palizzi, Gianluca Liguori, Andrea Coffami, Enrica Camporesi, Angelo Zabaglio.
Abbandono. Oblio. Deserto. Tutto da farsi per poi ritornare: passare al bosco attraversando le strade della periferia. Abbandonate e desertiche.
Ricognizione in lettera e musica dalla periferia del ritorno. Praticamente un viaggio.
CAGLIARI | LUGLIO 2009
Racconti di periferie - estate 2009
a cura del Gruppo Opìfice
TEMA :: Abbandono. Oblio. Deserto
Tutto da farsi per poi ritornare: passare al bosco attraversando le strade della periferia. Abbandonate e desertiche.
Invia il tuo racconto a redazioneopifice@gmail.com entro e non oltre il 15 luglio 2009. I migliori racconti saranno pubblicati su opifice.it e letti durante il festival letterario Passaggi per il bosco
assaggi
Il Laboratorio Teatro è oblio, coriandoli del copione sulle teste del pubblico in sala, liberatorie spruzzate fisiologiche verso il nero pubblico seduto che le luci non devono dare alla voce sul palco. Inizierei dal Caligola di Camus, ma non dal testo, no, inizierei da quando Carmelaccio e Camus s’incontrano, quello è già teatro.
[Carlo Palizzi, Attraverso ricordi di domani, 1959]
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venerdì 15 maggio 2009
Genio e Follia in Vincent Van Gogh. Di Maria Beatrice Protino
È possibile considerare la follia come causa determinante del genio? Oppure il genio per manifestarsi deve avere comunque il sopravvento sulla follia? Karl Jaspers –filosofo e studioso di psicologia, psichiatria e linguaggio- presenta uno studio classico sul problema-enigma della schizofrenia in alcuni tra i più grandi artisti, tra i quali Vincent Van Gogh. La sua analisi passa dal genere al concreto, cioè analizza i tratti caratteristici delle varie personalità dal momento in cui la malattia entra nella vita dell’uomo fino a trasfigurarne l’opera, rendendola appunto arte. «Per diversi giorni sono stato completamente fuori di me.. Questa volta la crisi mi ha preso quando ero nei campi e stavo dipingendo in una giornata ventosa.. durante le crisi mi sento vile per l’angoscia e la sofferenza, più vile di quanto sarebbe sensato sentirsi.. allora non so più dove sono, la mia testa si perde», scrive Van Gogh in una lettera al fratello nel 1889.
«Conosciamo la follia in due accezioni -scrive Jaspers- come il contrario della ragione e come ciò che precede la stessa distinzione tra ragione e follia ‘. E, mentre nella prima accezione la follia ci è nota in quanto esclusione dal sistema o deroga al sistema di regole in cui la ragione consiste, proprio quelle che abbiamo inventato come rimedio all’angoscia, nella seconda la follia non è conosciuta, in quanto essa viene prima delle regole e delle deroghe e, per ciò stesso, avvertita come minaccia. Essa nasce là dove la coscienza umana si è emancipata dalla condizione divina o animale e conosce la creazione artistica come l’unica possibilità per l’uomo di non chiudersi all’abisso del caos perché –infatti- non c’è alcun mistero nel fondo oscuro di quell’abisso che, guardato dal punto di vista della ragione, chiamiamo irrazionale, ma dal quale, appunto, vengono le parole che poi sarà la stessa ragione ad ordinare. ‘Il mistero se mai è da cercare nella capacità della ragione di reggere alle forze contrastanti che la sottendono, terribili perché prive di regole». L’artista che si è fatto testimone di questa lotta sacrifica la sua mente e mette la sua parola al servizio del non-senso, precipizio dell’ordine logico, vertigine, congedo dalla ragione e il patire dell’artista, la sua catastrofe biografica si fa parola per gli uomini.
La definizione logica di questo stato mentale -ma anche fisico- è schizofrenia: la mente (phren) scissa (schizo) in due mondi, l’uno si rivede e disperde nell’altro senza che sia più possibile capire quale dei due sia il mondo vero.
V.Van Gogh nasce nel 1853 a Zundert, un paesino dell’Olanda. Non ha un carattere comune: tende ad isolarsi, è scontroso, anche se molto attaccato agli affetti familiari: «Aveva un’aria assorta, grave, malinconica, ma quando rideva allora il suo viso si rischiarava». Era molto religioso, e sino alla fine fu sostenuto dalla fede che non doveva niente alla chiesa e ai suoi dogmi: andava alla sostanza delle cose, al senso profondo dell’esistenza, spesso risultando poco gradito o non capito nelle sue prediche, che finivano per agitare l’auditorio derelitto a cui erano destinate. Anche come insegnante in Inghilterra fallisce. Infine diventa evangelista e assistente volontario tra i minatori del Borinage. È solo nel 1879, all’età di 26 anni che, costretto dal padre, torna a casa, deperito nel fisico e tormentato sul senso della sua vita: «Il mio tormento non è altro che questo: in cosa potrò riuscire?». Ma sarà proprio allora che Van Gogh darà fondo alla sua vocazione: «Mi sono detto: riprenderò la matita, mi rimetterò a disegnare, e da allora mi sembra tutto cambiato per me» . Si diede così all’arte, prima a casa da autodidatta, poi all’Aia per studiare i maestri olandesi, infine ad Anversa. Dal 1886 al 1888 sta a Parigi dal fratello Theo e scopre gli impressionisti.
Passando in rassegna le sue lettere per ricercare i primi segni della sua malattia, troveremo che già dal dicembre 1885 parla di disturbi fisici, si sente fiacco e debole: sicuramente impegnava i pochi soldi che aveva per comprare tele e colori, mangiava poco, si nutriva di solo pane e fumava molto per ingannare il senso di fame. Ma sarà dal 1888 che inizierà a fare riferimento a disturbi adesso psichici che cerca di dominare: «Sono veramente infuriato con me stesso, vorrei avere un temperamento forte certi giorni sono terribili... vorrei tranquillizzarmi i nervi.. sono così malato che non ho il coraggio di restare solo.. soffro di emozioni non giustificate e involontarie e in certi giorni di ebetismo.. spero di non aver avuto altro che una semplice crisi d’artista, e poi molta febbre in seguito alla perdita molto forte di sangue.. per il momento non sono ancora pazzo.. anche prima sapevo che ci si poteva rompere braccia e gambe e che dopo si poteva guarire, ma ignoravo che ci si potesse rompere la testa cerebralmente.. dentro di me ci dev’essere stata qualche emozione troppo grande che mi ha fregato in questo modo..» .
L’attenzione di Jaspers si concentra sul rapporto decorso della malattia-mutamento nell’intensità creativa: nello stato preliminare della psicosi, cioè nel 1888, l’intensità aumenta; dopo, con le varie crisi più forti del 1890 fino al suicidio, l’intensità diminuisce, ma le facoltà creative permettono a Van Gogh una nuova evoluzione artistica. Scriverà: «Il mio pennello scorre fra le dita come se fosse un archetto di violino». E della sua pittura: «Ciò che ho imparato a Parigi se ne va.. perché invece di cercare di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, mi servo del colore in modo più arbitrario.. esagero il biondo dei capelli, arrivando ai toni arancioni, al giallo cromo, al limone pallido…comincio sempre più a cercare una tecnica semplice, che forse non è più impressionista.. vorrei dipingere in modo che chiunque abbia occhi ci possa vedere chiaro».
Tutti i quadri dal 1888 hanno un nuovo tono rispetto ai precedenti: dissoluzione della superficie pittorica con pennellate di forma geometrica regolare, ma molto diverse fra loro. Ci sono linee, semicerchi e spirali, forme che ricordano il 3 o il 6, angoli. Le linee producono effetti multiformi, perché disposte parallelamente, ma anche in curve o raggi: l’impiego del suo pennello dà ai quadri un movimento inquietante perché tutto si torce e sembra palpitare, ardere. Le tinte sono mescolate in modo nuovo, sorprenderte, si raggiungono effetti crudi, fortemente realistici. Non cura il particolare, ma cerca il naturale, la chiarezza. E nei suoi ultimi quadri i colori risultano più chiari di prima, gli errori prospettici aumentano, le deformazioni non sembrano intenzionali, ma casuali: tecnica più grossolana, rozza. I quadri delle ultime settimane danno un’impressione caotica, con colori più brutali, mancano del riflesso tipico della sua tensione interiore perchè non c’è più artificio né tecnica acquisita: solo ritorno all’origine.
«La schizofrenia non è creativa in sé. La personalità e il talento preesistono alla malattia, ma non hanno la stessa potenza. Ebbene: in Van Gogh -e in pochissimi altri casi- invece, la schizofrenia è la condizione, la causa possibile perché si aprano queste profondità» scrive Jaspers. Certo – rifuggendo facili esagerazioni - la schizofrenia non può essere creativa senza la conquista di una tecnica pittorica che V. Gogh aveva curato in dieci anni di lavoro, sforzandosi tutta la vita di arricchire le sue possibilità interiori. Riconoscere nella psicosi una condizione di certe opere non significa sminuirle. Esse rimangono inimitabili, autentiche e possono rimandarci a quel richiamo benefico che solo lo sguardo sull’assoluto può nascondere. L’opera che ne deriva è affascinante perché apre ai recessi più profondi della vita. Anzi, facendo nostra la riflessione e una domanda, forse un po’ retorica eppure realistica, di Jaspers: «In un’epoca come la nostra, di imitazioni e artifizi, in cui ogni spiritualità si converte in affarismo, in cui la vita è una mascherata al punto che la stessa semplicità è voluta o l’ebbrezza dionisiaca fittizia è forse la follia la condizione di ogni autenticità in campi in cui, in tempi meno incoerenti, si sarebbe stati capaci di esperienze e di espressioni autentiche anche senza di essa?».
«Conosciamo la follia in due accezioni -scrive Jaspers- come il contrario della ragione e come ciò che precede la stessa distinzione tra ragione e follia ‘. E, mentre nella prima accezione la follia ci è nota in quanto esclusione dal sistema o deroga al sistema di regole in cui la ragione consiste, proprio quelle che abbiamo inventato come rimedio all’angoscia, nella seconda la follia non è conosciuta, in quanto essa viene prima delle regole e delle deroghe e, per ciò stesso, avvertita come minaccia. Essa nasce là dove la coscienza umana si è emancipata dalla condizione divina o animale e conosce la creazione artistica come l’unica possibilità per l’uomo di non chiudersi all’abisso del caos perché –infatti- non c’è alcun mistero nel fondo oscuro di quell’abisso che, guardato dal punto di vista della ragione, chiamiamo irrazionale, ma dal quale, appunto, vengono le parole che poi sarà la stessa ragione ad ordinare. ‘Il mistero se mai è da cercare nella capacità della ragione di reggere alle forze contrastanti che la sottendono, terribili perché prive di regole». L’artista che si è fatto testimone di questa lotta sacrifica la sua mente e mette la sua parola al servizio del non-senso, precipizio dell’ordine logico, vertigine, congedo dalla ragione e il patire dell’artista, la sua catastrofe biografica si fa parola per gli uomini.
La definizione logica di questo stato mentale -ma anche fisico- è schizofrenia: la mente (phren) scissa (schizo) in due mondi, l’uno si rivede e disperde nell’altro senza che sia più possibile capire quale dei due sia il mondo vero.
V.Van Gogh nasce nel 1853 a Zundert, un paesino dell’Olanda. Non ha un carattere comune: tende ad isolarsi, è scontroso, anche se molto attaccato agli affetti familiari: «Aveva un’aria assorta, grave, malinconica, ma quando rideva allora il suo viso si rischiarava». Era molto religioso, e sino alla fine fu sostenuto dalla fede che non doveva niente alla chiesa e ai suoi dogmi: andava alla sostanza delle cose, al senso profondo dell’esistenza, spesso risultando poco gradito o non capito nelle sue prediche, che finivano per agitare l’auditorio derelitto a cui erano destinate. Anche come insegnante in Inghilterra fallisce. Infine diventa evangelista e assistente volontario tra i minatori del Borinage. È solo nel 1879, all’età di 26 anni che, costretto dal padre, torna a casa, deperito nel fisico e tormentato sul senso della sua vita: «Il mio tormento non è altro che questo: in cosa potrò riuscire?». Ma sarà proprio allora che Van Gogh darà fondo alla sua vocazione: «Mi sono detto: riprenderò la matita, mi rimetterò a disegnare, e da allora mi sembra tutto cambiato per me» . Si diede così all’arte, prima a casa da autodidatta, poi all’Aia per studiare i maestri olandesi, infine ad Anversa. Dal 1886 al 1888 sta a Parigi dal fratello Theo e scopre gli impressionisti.
Passando in rassegna le sue lettere per ricercare i primi segni della sua malattia, troveremo che già dal dicembre 1885 parla di disturbi fisici, si sente fiacco e debole: sicuramente impegnava i pochi soldi che aveva per comprare tele e colori, mangiava poco, si nutriva di solo pane e fumava molto per ingannare il senso di fame. Ma sarà dal 1888 che inizierà a fare riferimento a disturbi adesso psichici che cerca di dominare: «Sono veramente infuriato con me stesso, vorrei avere un temperamento forte certi giorni sono terribili... vorrei tranquillizzarmi i nervi.. sono così malato che non ho il coraggio di restare solo.. soffro di emozioni non giustificate e involontarie e in certi giorni di ebetismo.. spero di non aver avuto altro che una semplice crisi d’artista, e poi molta febbre in seguito alla perdita molto forte di sangue.. per il momento non sono ancora pazzo.. anche prima sapevo che ci si poteva rompere braccia e gambe e che dopo si poteva guarire, ma ignoravo che ci si potesse rompere la testa cerebralmente.. dentro di me ci dev’essere stata qualche emozione troppo grande che mi ha fregato in questo modo..» .
L’attenzione di Jaspers si concentra sul rapporto decorso della malattia-mutamento nell’intensità creativa: nello stato preliminare della psicosi, cioè nel 1888, l’intensità aumenta; dopo, con le varie crisi più forti del 1890 fino al suicidio, l’intensità diminuisce, ma le facoltà creative permettono a Van Gogh una nuova evoluzione artistica. Scriverà: «Il mio pennello scorre fra le dita come se fosse un archetto di violino». E della sua pittura: «Ciò che ho imparato a Parigi se ne va.. perché invece di cercare di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, mi servo del colore in modo più arbitrario.. esagero il biondo dei capelli, arrivando ai toni arancioni, al giallo cromo, al limone pallido…comincio sempre più a cercare una tecnica semplice, che forse non è più impressionista.. vorrei dipingere in modo che chiunque abbia occhi ci possa vedere chiaro».
Tutti i quadri dal 1888 hanno un nuovo tono rispetto ai precedenti: dissoluzione della superficie pittorica con pennellate di forma geometrica regolare, ma molto diverse fra loro. Ci sono linee, semicerchi e spirali, forme che ricordano il 3 o il 6, angoli. Le linee producono effetti multiformi, perché disposte parallelamente, ma anche in curve o raggi: l’impiego del suo pennello dà ai quadri un movimento inquietante perché tutto si torce e sembra palpitare, ardere. Le tinte sono mescolate in modo nuovo, sorprenderte, si raggiungono effetti crudi, fortemente realistici. Non cura il particolare, ma cerca il naturale, la chiarezza. E nei suoi ultimi quadri i colori risultano più chiari di prima, gli errori prospettici aumentano, le deformazioni non sembrano intenzionali, ma casuali: tecnica più grossolana, rozza. I quadri delle ultime settimane danno un’impressione caotica, con colori più brutali, mancano del riflesso tipico della sua tensione interiore perchè non c’è più artificio né tecnica acquisita: solo ritorno all’origine.
«La schizofrenia non è creativa in sé. La personalità e il talento preesistono alla malattia, ma non hanno la stessa potenza. Ebbene: in Van Gogh -e in pochissimi altri casi- invece, la schizofrenia è la condizione, la causa possibile perché si aprano queste profondità» scrive Jaspers. Certo – rifuggendo facili esagerazioni - la schizofrenia non può essere creativa senza la conquista di una tecnica pittorica che V. Gogh aveva curato in dieci anni di lavoro, sforzandosi tutta la vita di arricchire le sue possibilità interiori. Riconoscere nella psicosi una condizione di certe opere non significa sminuirle. Esse rimangono inimitabili, autentiche e possono rimandarci a quel richiamo benefico che solo lo sguardo sull’assoluto può nascondere. L’opera che ne deriva è affascinante perché apre ai recessi più profondi della vita. Anzi, facendo nostra la riflessione e una domanda, forse un po’ retorica eppure realistica, di Jaspers: «In un’epoca come la nostra, di imitazioni e artifizi, in cui ogni spiritualità si converte in affarismo, in cui la vita è una mascherata al punto che la stessa semplicità è voluta o l’ebbrezza dionisiaca fittizia è forse la follia la condizione di ogni autenticità in campi in cui, in tempi meno incoerenti, si sarebbe stati capaci di esperienze e di espressioni autentiche anche senza di essa?».
Il libro del giorno: Canti del caos di Antonio Moresco (Mondadori)
Questo romanzo è stato scritto nell'arco di quindici anni e assume la sua forma definitiva soltanto adesso, ora che la terza e ultima parte si aggiunge alle prime due che videro la luce nel 2001 e nel 2003. Del tutto rivisto nelle prime due parti, dunque, e finalmente concluso, "Canti del caos" si presenta in tutta la sua assoluta singolarità. Concepito per non lasciare indifferenti, a costo anche di suscitare reazioni di rifiuto, questo romanzo si accampa come opera incandescente, vertiginosa, un'opera che va a inscriversi immediatamente, di diritto, nel novero di quelle imprese estreme che come grandi massi erratici punteggiano la storia della letteratura. "Canti del caos" si è andato formando nel corso del tempo come un organismo vivente, pieno di violenza ma anche di delicatezza e dolcezza, di oscenità ma anche di trascendenza, di passaggi narrativi incalzanti e di affondi lirici. Nella sua gigantesca macchina realistica e metaforica vengono macinati e trascesi i codici, i generi e gli orizzonti letterari di questa epoca: la fantascienza, il poliziesco, il comico, la pornografia, il fantasy, l'horror, il romanzo d'amore, il saggio scientifico e filosofico, la meditazione religiosa e mistica.
casa editrice Mondadori: http://www.mondadori.it/libri/index.html
"Un viaggio visionario e polimorfo, carico di atmosfere stranianti e arroventate"
di Silvia Pingitore
da Il Venerdì di Repubblica n. 1104, p.102
Canti del caos di Moresco Antonio
2009, 1072 p., rilegato, Editore Mondadori (collana Scrittori italiani e stranieri)
casa editrice Mondadori: http://www.mondadori.it/libri/index.html
"Un viaggio visionario e polimorfo, carico di atmosfere stranianti e arroventate"
di Silvia Pingitore
da Il Venerdì di Repubblica n. 1104, p.102
Canti del caos di Moresco Antonio
2009, 1072 p., rilegato, Editore Mondadori (collana Scrittori italiani e stranieri)
giovedì 14 maggio 2009
La fiera del libro di Torino 09 viene inaugurata da un omicidio ...
Paolo Roversi, scrittore milanese di 34 anni, è considerato da molti scrittori, Massimo Carlotto e Marcello Fois su tutti, l'erede del nuovo panorama noir italiano. Definito dalla critica “lo Scerbanenco postmoderno” in questo racconto inedito, tra sesso estremo e morte, immagina un omicidio durante la Fiera del LIbro di Torino di quest'anno in una torbida storia in cui non faticherete a riconoscere editori, scrittori e scrittrici dalla frusta più facile della penna.
Morte al salone del libro di Paolo Roversi
La voce del caporedattore Beppe Calzolari risuonò roca nell'apparecchio.
“Un collega della pagine letterarie mi ha chiesto se avevo qualcuno disponibile per tamponare un evento al Salone del Libro, e indovina?”
Enrico Radeschi sbuffò. Lui era un mastino della nera, un freelance a cui piaceva l'odore della strada, scovare le notizie in sella alla sua Vespa gialla. Quella richiesta gli suonava quanto mai strana.
“Odio la cultura lo sai?”
“La odiamo tutti: per questo facciamo i giornalisti.”
Calzolari ne sapeva una più del diavolo; ma soprattutto era consapevole che il cronista, pagato a cottimo, non aveva altra scelta se non quella di cedere al ricatto.
Potete continuare a leggere il brano qui:
http://satisfiction.menstyle.it/archive.php?eid=109
fonte (Satisfiction di Gian Paolo Serino)
Morte al salone del libro di Paolo Roversi
La voce del caporedattore Beppe Calzolari risuonò roca nell'apparecchio.
“Un collega della pagine letterarie mi ha chiesto se avevo qualcuno disponibile per tamponare un evento al Salone del Libro, e indovina?”
Enrico Radeschi sbuffò. Lui era un mastino della nera, un freelance a cui piaceva l'odore della strada, scovare le notizie in sella alla sua Vespa gialla. Quella richiesta gli suonava quanto mai strana.
“Odio la cultura lo sai?”
“La odiamo tutti: per questo facciamo i giornalisti.”
Calzolari ne sapeva una più del diavolo; ma soprattutto era consapevole che il cronista, pagato a cottimo, non aveva altra scelta se non quella di cedere al ricatto.
Potete continuare a leggere il brano qui:
http://satisfiction.menstyle.it/archive.php?eid=109
fonte (Satisfiction di Gian Paolo Serino)
Giorgio Faletti annuncia l'uscita di "Io sono Dio"
posted on youtube by Baldini e Castoldi Dalai
"Così come Leone inventò gli spaghetti western, Faletti ha inventato gli spaghetti thriller modernizzando in un sol colpo il vetustissimo mondo letterario ed editoriale italiano."
Antonio D'Orrico - Corriere Magazine, 14/05/2009
Giorgio Faletti annuncia l'uscita di "Io sono Dio", il suo nuovo thriller, in tutte le librerie dal 19 maggio.Per chi è più impaziente, l'autore sarà presente al Salone del Libro di Torino sabato 16 maggio alle ore 20:00 alla sala dei 500. Per chi invece non potrà godersi dal vivo l'incontro, l’ appuntamento è sul sito http://giorgiofaletti.net/io-sono-dio/ a partire dalle 20:00 per la diretta in streaming dell’ evento tra i più succulenti del salone.
Giuse Alemanno, Le vicende notevoli di Don Fefè, nobile sciupa femmine e grandissimo figlio di mammaggiusta ... (I Libri di Icaro)
Giuse Alemanno ha stoffa da vendere. Sa scrivere e questo lo ha dimostrato non solo nei suoi esordi in Racconti Lupi (1998) per i tipi di Filo editore, poi ancora nel 2001 nella raccolta sempre per la stessa casa editrice di racconti brevi dal titolo Solitari, e non per ultimo con il suo romanzo d’esordio per i tipi di Stampa Alternativa, dal titolo Terra Nera, romanzo perfido e paradossale di cafoni e d’anarchia. Alemanno ha convinto in tutta la sua attività di scrittore, come adesso quando propone alle stampe per i tipi di I Libri di Icaro “Le vicende notevoli di Don Fefè, nobile sciupa femmine e grandissimo figlio di mammaggiusta e del suo fidato servitore Ciccillo”. Da un lato continua a prediligere un codice linguistico nudo e crudo che ben si addice alle latitudini esistenziali che descrive ovvero un’umanità grottesca, sconfitta, privata di un senso della felicità a causa di una dimensione antropologica della quotidianità alienante e stritolante. I colori sono sempre quelli prediletti dall’autore, e cioè tutte le tonalità della terra arsa e crudele del Salentoo di un Sud del Sud del mondo , il rosso del vino e del sangue, il giallo malato di un sole che indistintamente illumina barbare convenzioni, perverse connivenze, dure leggi della seduzione e dell’intrigo amoroso e di potere. Insomma Alemanno ha la capacità di coinvolgere il lettore, offrendogli in bella posa una serie di situazioni e personaggi che rivelano come egli sia in grado di rendere senza troppi fronzoli una realtà ai margini della quale ne conosce ogni singolo dettaglio. Ma Alemanno da un altro punto di vista, è l’autore dell’azzardo linguistico, dove addirittura il sermo vulgaris diviene lingua altra, nuova, a volte completamente inventata, innovativa senza ombra di dubbio; è l’autore che riesce a cantare la bellezza delle donne e dei loro malefici d’amore (vedasi come descrive le donne “a servizio” di Don Fefè da Tecla alla giovane Rosaria sino all’affascinante attrice Lucia), che sa parlare con eleganza dei modi e dei costumi della nobile gente di campagna, neanche fosse il D’Annunzio delle cronache romane; è l’autore che sa parlare con eleganza sopraffina del bon ton e dei suoi mille ricami. Già perché Alemanno è uno scrittore completo, che sa offrire non solo opere gradevoli alla lettura, ma che avrebbe molto da insegnare a numerosi scrittori di dubbie doti letterarie che circolano oggi in più parti d’Italia. Ma veniamo al dunque: Don Felice meglio noto come Don Fefè, nobile di Cipièrnola, incontrastato sovrano di Palazzo Rizzo Torreggiani Cimboli, ricco ereditiero e gran figlio di mignotta, in un Sud chiaramente novecentesco, privo comunque – solo per chi non ha occhi per vedere - di collocazione temporale e geografica, passa le sue giornate tra amplessi fugaci ma intensi con le sue domestiche o con le mogli dei suoi affittuari, ricordi melanconici di lussuosi postriboli parigini, i rocamboleschi e implumi voli da tacchino del suo umile servitore Ciccillo, ruffiano e tuttofare, e dulcis in fundo i malevoli – ahimè – tiri della sorte che pone sulla strada di questo personaggio (che sembra una caricatura del marchese De Sade tutto dedito al sano perseguimento né più né meno dei cazzi suoi), piccoli contrattempi: don Fefè deve misurarsi con la mala locale, con l’aspro desiderio di vendetta di belle e ruspanti donne sempre pronte ad allargare le gambe ma superdotate di occhio fino, e con degli eccessi d’ira, che lo fanno scomporre oltre ogni ragguardevole misura che gli compete per rango e censo. Quello di Alemanno per farla breve è un piccolo gioiellino che si lascia leggere con estrema facilità, ma che rimane nel cuore di chi avrà il buongusto di assaporarlo sino alla fine
Giuse Alemanno, Le vicende notevoli di Don Fefè, nobile sciupa femmine e grandissimo figlio di mammaggiusta e del suo fidato servitore Ciccillo, I libri di Icaro, pp. 128
Giuse Alemanno, Le vicende notevoli di Don Fefè, nobile sciupa femmine e grandissimo figlio di mammaggiusta e del suo fidato servitore Ciccillo, I libri di Icaro, pp. 128
Il libro del giorno: Sud. Un viaggio civile e sentimentale di Marcello Veneziani (Mondadori)
Il Sud si sta svuotando di anime, culture e popolazione, tra emigrati e denatalità. Marcelle Veneziani non parte dal Nord e si ferma a Eboli, come Levi col suo Cristo, ma parte dal Sud più estremo e profondo e arriva a Eboli. Risultato del suo viaggio è un rapporto letterario e civile sul Meridione presente e passato che si dipana tra rifiuti e ricordi, tradizioni e degrado, cafonerie e cavallerie rusticane, ragioni e sentimenti, passando per contrade reali e allegoriche. Le località toccate diventano location per ambientare temi e personaggi, scorci e denunce, colore e cultura, malavita e folclore. Rabbiose critiche si alternano ad appassionate difese, partorite entrambe dall'amore per quelle terre. Nelle sue storie e storielle, Veneziani capovolge l'idea crociana di un paradiso abitato da diavoli, e teme invece che il Mezzogiorno stia diventando un inferno abitato da angeli in fuga per salvarsi da soli e non dannarsi insieme. Il suo resoconto assume una varietà di registri narrativi: dalle denunce giornalistiche alle nostalgie, dai ritratti parodistici al saggio storico, fino a lambire un sobrio «matriotti-smo» terrone e comporre una specie di manifesto sudista.
casa editrice Mondadori: http://www.mondadori.it/libri/index.html
"Nel suo nuovo libro Sud. Un viaggio civile e sentimentale (Mondadori, 200 pagine, 17,50 euro) Marcello Veneziani, intellettuale disorganico di destra, nonchè pensoso meridionale di Puglia, scrive frasi folgoranti di questo tipo: A prima vista Tonino Di Pietro sembra l'autista di un ministro. Ma poi a sentirlo parlare ti accorgi che loavevi sopravvalutato. Il trattore sembra il mezzo più adeguato per lui per muoversi sui terreni sconnessi della politica italiana"
Andrea Di Consoli da Il Riformista del 14/05/09 p. 19
Sud. Un viaggio civile e sentimentale di Veneziani Marcello, 2009, 200 p., rilegato
Editore Mondadori (collana Frecce)
casa editrice Mondadori: http://www.mondadori.it/libri/index.html
"Nel suo nuovo libro Sud. Un viaggio civile e sentimentale (Mondadori, 200 pagine, 17,50 euro) Marcello Veneziani, intellettuale disorganico di destra, nonchè pensoso meridionale di Puglia, scrive frasi folgoranti di questo tipo: A prima vista Tonino Di Pietro sembra l'autista di un ministro. Ma poi a sentirlo parlare ti accorgi che loavevi sopravvalutato. Il trattore sembra il mezzo più adeguato per lui per muoversi sui terreni sconnessi della politica italiana"
Andrea Di Consoli da Il Riformista del 14/05/09 p. 19
Sud. Un viaggio civile e sentimentale di Veneziani Marcello, 2009, 200 p., rilegato
Editore Mondadori (collana Frecce)
mercoledì 13 maggio 2009
“La nuca” (Edizioni Controluce) di Luisa Ruggio. Quando il sangue si fa carta. Rec. di Maria Beatrice Protino
«La nuca di Hyrie era chiara come l’intervallo tra un sogno e un altro»: la parola si fa eros e la nuca diviene sinonimo naturale di mistero, di alchimia, tra scienza e conoscenza, razionalità e sfogo passionale, nota mistica della sensualità. Il racconto è quello di una ragazza - una bellissima adolescente - sospettata di stregoneria in un’epoca in cui questo poteva significare bruciare sul rogo, in una terra immaginaria eppure in tutto simile al richiamo di quella Soleto con la sua magnetica guglia del campanile - nel cuore della Grecìa salentina - che raccoglie ancora le tracce di un filosofo e alchimista che alla Ruggio è piaciuto immaginare come grande pensatore medievale. Hyrie, innamorata delle parole, si traveste da uomo per diventare “allievo” in uno Scriptorium particolare, invaso dall’odore di spezie esotiche. Insieme ai libri e agli inchiostri, la ragazza conoscerà anche il fratello dell’alchimista, un arabo che colleziona nuche femminili alla ricerca di quella perfetta su cui poter scrivere un codice di pura sensualità: «Nei sogni Gherìb andava a darle un bacio, scostandole di poco le cosce. Poi, sentiva la sua mano raggiungerle la nuca. Per tenerla ferma. Nella sbavatura del sonno d’inverno, il suo fiato era solo un miraggio». Attraverso un continuo e intenso germogliare poetico, il romanzo racconta dell’intimità della ricerca della conoscenza e dello sprofondo che a volte può derivarne, dell’abisso, del baratro ma anche della magia che assorbono le forze, la mente. E più se ne ha la consapevolezza e più piace: eppure il loro fascino è così opprimente, è come un Medioevo dell’anima femminile che vuole rinascere, che vuole scoprire e far rifiorire la propria coscienza sino a tornare al corpo e al suo potere seducente: poesia di un viaggio favoloso in un universo femminile che si reinventa dopo la scoperta della libertà. Grazie a un’elevatissima canzone poetica, si coglie quasi il suono delle parole e la passione per la scrittura, si sente «l’odore dei loro piatti» di orzo e lenticchie e del giardino degli aranci, o di quella Soletum dalle stradine lastricate e «paglia, sterco e rivoli moreschi», che canta il suo folle miserere carico di «vendette all’ombra degli altari». Nel suo diario, Hyrie scriverà di desideri che ci dominano come armi: che, come oppio, ci condizionano; scriverà di come la conoscenza sino all’essenza delle cose e di se stessi possa essere vita e morte, euforia e paura, lo scandalo e il suo contrario; di come «i libri siano carne viva», e di come la parola scritta sfidi il tempo, nonostante i suoi carichi di solitudine, quella solitudine che, come scrive la Ruggio, «non terminerà».
La nuca - il secondo romanzo di Luisa Ruggio – è edito da Edizioni Controluce 2008
E sarà presentato all’ "XXII Fiera Internazionale del Libro, Torino" (Torino Lingotto Fiere) presso il padiglione 1, stand C79 - B86
La nuca - il secondo romanzo di Luisa Ruggio – è edito da Edizioni Controluce 2008
E sarà presentato all’ "XXII Fiera Internazionale del Libro, Torino" (Torino Lingotto Fiere) presso il padiglione 1, stand C79 - B86
Il libro del giorno: Il cielo rubato. Dossier Renoir di Andrea Camilleri (Skira)
Una donna bella e sfuggente, un notaio di Agrigento che forse nasconde un segreto e il misterioso viaggio a Girgenti del maestro dell'Impressionismo, Pierre-Auguste Renoir, un viaggio che nessuno storico dell'arte ha mai saputo collocare nel tempo. Un epistolario a una sola voce che sale in un crescendo emotivo e si interrompe bruscamente. Un giallo nel giallo brillantemente risolto dall'indagine sul campo di Andrea Camilleri. "Sto scrivendo una cosa nuova e complessa. Un racconto lungo su un viaggio poco noto che Pierre-Auguste Renoir fece ad Agrigento, riferito dal figlio Jean Renoir nella biografia sul padre. Sembra che al papà avessero rubato il portafoglio, che sia stato ospitato dal contadino cui aveva chiesto di fargli da guida, uno che s´offese quando alla fine gli fu offerto un compenso, tanto che la moglie Aline risolse togliendosi una catenina con la Madonna e regalandogliela. Si separarono tra i pianti. Altro non c'è. Ma io scrivo." (Andrea Camilleri)
casa editrice Skira: http://www.skira.net/
"Da un cenno biografico raccontato dal figlio di Renoir, Jean, Camilleri riesce a costruire una struttura narrativa articolata e complessa. E mentre racconta la storia descrive la dimensione intellettuale e psicologica dell'artista"
di Salvo Fallica
da L'Unità del 13/05/09 p. 39
Il cielo rubato. Dossier Renoir di Camilleri Andrea
2009, 96 p., ill., brossura, Editore Skira (collana Art stories)
casa editrice Skira: http://www.skira.net/
"Da un cenno biografico raccontato dal figlio di Renoir, Jean, Camilleri riesce a costruire una struttura narrativa articolata e complessa. E mentre racconta la storia descrive la dimensione intellettuale e psicologica dell'artista"
di Salvo Fallica
da L'Unità del 13/05/09 p. 39
Il cielo rubato. Dossier Renoir di Camilleri Andrea
2009, 96 p., ill., brossura, Editore Skira (collana Art stories)
martedì 12 maggio 2009
Todd Hasak-Lowy a Napoli alla libreria Dante e Descart per presentare Prigionieri (Minimum Fax)
«Un tagliente, farsesco e ambizioso romanzo d’esordio. L’audace commedia psicologica di Hasak-Lowy è seducente, acuta e carica di graffiante umorismo».
Booklist
Daniel Bloom è uno sceneggiatore di successo: scrive film d’azione in cui la violenza delle esplosioni è direttamente proporzionale all’entità degli incassi, vive a Los Angeles in una bella casa con la moglie Caroline e il figlio adolescente Zack. Ma la direzione politica imboccata dal suo paese lo turba in maniera sempre più pressante, e comincia a intestardirsi su un progetto scomodo: la storia di un serial killer intento a decimare i capi delle multinazionali e gli spregiudicati uomini politici che tengono in pugno le sorti del pianeta, e di un poliziotto che, pur avendone la possibilità, non si sente in diritto di fermarlo. Nel frattempo il matrimonio con Caroline comincia a traballare, e l’imminente bar mitzvah di Zack lo porta a riconsiderare la propria identità religiosa: riuscirà Daniel a destreggiarsi fra il suo agente nevrotico e un rabbino lisergico, un finanziatore dai metodi spicci e un viaggio in Israele alla ricerca di un'illuminazione?
Dalla penna virtuosistica di un nuovo talento della letteratura americana, un ritratto esilarante e senza compromessi delle nevrosi e delle ossessioni della nostra contemporaneità.
mercoledì 20 maggio 2009 alle 18.00 presso la libreria Dante & Descartes di via Mezzocannone a Napoli, Todd Hasak-Lowy incontrerà i lettori per presentare Prigionieri
Con l'autore interverranno Martina Testa e Francesco Pacifico
Booklist
Daniel Bloom è uno sceneggiatore di successo: scrive film d’azione in cui la violenza delle esplosioni è direttamente proporzionale all’entità degli incassi, vive a Los Angeles in una bella casa con la moglie Caroline e il figlio adolescente Zack. Ma la direzione politica imboccata dal suo paese lo turba in maniera sempre più pressante, e comincia a intestardirsi su un progetto scomodo: la storia di un serial killer intento a decimare i capi delle multinazionali e gli spregiudicati uomini politici che tengono in pugno le sorti del pianeta, e di un poliziotto che, pur avendone la possibilità, non si sente in diritto di fermarlo. Nel frattempo il matrimonio con Caroline comincia a traballare, e l’imminente bar mitzvah di Zack lo porta a riconsiderare la propria identità religiosa: riuscirà Daniel a destreggiarsi fra il suo agente nevrotico e un rabbino lisergico, un finanziatore dai metodi spicci e un viaggio in Israele alla ricerca di un'illuminazione?
Dalla penna virtuosistica di un nuovo talento della letteratura americana, un ritratto esilarante e senza compromessi delle nevrosi e delle ossessioni della nostra contemporaneità.
mercoledì 20 maggio 2009 alle 18.00 presso la libreria Dante & Descartes di via Mezzocannone a Napoli, Todd Hasak-Lowy incontrerà i lettori per presentare Prigionieri
Con l'autore interverranno Martina Testa e Francesco Pacifico
Il giorno prima della felicità di Erri De Luca (Feltirnelli). Rec. di Vito Antonio Conte
“Ora scrivo le pagine sul quaderno a righe mentre la nave punta all'altro capo del mondo. Intorno si muove o sta fermo l'oceano. Dicono che stanotte passiamo l'equatore”. Tanto del molto che ha pubblicato Erri De Luca ho letto. Ne ho scritto già in un pezzo dello scorso anno per un quotidiano del Salento. Non mi ripeterò. Ché replicare, come ho diffusamente lasciare trasparire, non mi è mai piaciuto. In questa domenica in cui il sole si mischia a pioggerella sottile e gelata, a un ciclamino rosso d'amore, alle note de “I Giorni” di Ludovico Einaudi, alla rilettura di un post (commenti inclusi) su un blog di quasi un anno addietro, lascio l'ultima pagina dell'ultimo libro di De Luca per il meriggio (che ancora meriggio non è nonostante i mandorli già biancheggianti di nuovo), dopo un'ottima spigola al sale pasteggiata con un buon vino. Lo faccio apposta, ché -lo so- sarà dolce la fine di questo libro. Dolce come un dessert alla fine di un pasto frugale essenziale e giusto. “Il giorno prima della felicità” (Feltrinelli, € 13,00) è l'ennesima scrittura di Erri De Luca, un romanzo breve di cui non può dirsi ch'è un racconto lungo, una narrazione di una vita lungo più vite, attraverso più epoche, toccando luoghi e storie, penetrando il segreto di più uomini, disvelando le storie che piacciono a me, quelle minime e straordinarie mai scritte nei libri di storia, lasciando misteri appena accennati pronti a schiudersi in altre scritture, mescolando pensieri e fatti pienamente vissuti e soltanto sfiorati. Un capolavoro! L'incipit lascia spazio alla casualità: “Scoprii il nascondiglio perché c'era finito il pallone” e il caso è padrone assoluto del seguito: tutto accade (apparentemente) perché qualcos'altro che non appartiene a chi vive quel momento è accaduto o non si è verificato. E, come sempre, una scelta di fare o non fare, s'inserisce pienamente nel disegno che qualcuno che non abita questa terra ha tratteggiato. L'ultima volta che ho scritto di un libro (“I Bruchi” di Giovanni Bernardini), ho scritto di guerra, di fascismo e... d'ignoranza (ché in quel libro anche di ciò si narrava). Questo libro (e, se volete, è un altro caso) tocca (in maniera totalmente diversa) gli stessi argomenti: la seconda guerra mondiale, il nazismo, la liberazione di Napoli a opera dei napoletani (“Quando spuntano sei persone, tutte in una volta, allora si vince”), prima ancora degli americani... E l'amore: il primo, l'unico, quello per cui vale la pena dare il proprio sangue, per scatenare il pianto, ché soltanto le lacrime possono liberare dalla pazzia. È la storia di un bambino (cui De Luca affida l'Io narrante), nato senza genitori, che cresce durante la guerra, che impara il mondo dal mondo di Don Gaetano e dai libri usati di Don Raimondo, che diventa uomo quando incontra la natura che l'aiuta a scoprire la sua natura. Che s'innamora di una bambina che vede attraverso i vetri di una finestra e che poi ritroverà da maggiorenne; meglio: dalla quale verrà ritrovato e che gli chiederà (senza parlare) il sangue dopo aver donato a lui il suo sangue, quello del primo amore, in un patto che sarà spezzato soltanto dal coltello che reciderà un'altra vita e, con essa, ogni legàme con un passato di tristezze infinite e cieli senz'altro colore che non fosse quello degli scantinati dove ripararsi dai bombardamenti e dall'idiozia dell'ignoranza (una volta ancora!) che sempre ha messo e continua a mettere l'uomo contro l'uomo. La guerra: quel respirare a fatica dove ogni regola è capovolta, dove la natura è capovolta, dove qualunque dio è buono per essere pregato o bestemmiato, quasi come quando guerra non c'è... “Insieme al buono cresceva il peggio. Una brava persona si metteva a prestare a usura, una ragazza di buona famiglia si metteva a fare la puttana per i tedeschi. Uno che aveva il titolo di guappo era il primo a scappare al ricovero. I tedeschi e i fascisti erano più incanagliti perché la guerra si metteva male. Lo sbarco di Salerno era riuscito. Facevano saltare le fabbriche, saccheggiavano i magazzini per lasciare vuoto. La città negli ultimi giorni di settembre faceva paura per la fame e il sonno in faccia alle persone. Chi teneva qualcosa mangiava di nascosto. I tedeschi fecero una sceneggiata: forzarono un negozio, poi invitarono la gente a saccheggiarlo. Sulla folla che si era buttata a prendere la roba spararono in aria e ripresero la scena dentro una pellicola. Serviva alla loro propaganda: il soldato tedesco interviene a impedire il saccheggio. Sono fatti successi, guagliò, proprio in una di queste belle giornate di settembre”. Poi, in ogni guerra, c'è chi vince e c'è chi perde. E non sempre la vittoria è dei giusti. Chi faceva la puttana per i tedeschi, ha continuato a farla per gli americani. E non parlo solo di femmine (se metafora vuole). Non sempre vince la libertà. E cosa dire di tutti quelli che nella stessa guerra sono stati dalla parte dei tedeschi e dei fascisti e quando per loro stava per finire male sono passati dalla parte degli americani? Non lo so? Meglio: lo so, ma non riesco, non riesco proprio a dare giudizi. Specialmente su qualcosa che non ho vissuto. Troppo facile dire a posteriori qualunque cosa. Troppo facile parlare... Oggi tutti parlano, c'è libertà d'espressione (grazie a dio!). Difficile è dire e fare quando non c'è libertà. C'è che la libertà, anche quando è dato acquisito (in particolare quando è costata la pelle a altri), bisogna rispettarla ogni giorno, per ri-conquistarla. E la libertà diventa niente se niente hai fatto per meritarla. “La libertà uno se la deve guadagnare e difendere. La felicità no, quella è un regalo, non dipende se uno fa bene il portiere e para i rigori”. Già, la felicità... “il più speciale dolore, una fitta agli occhi e uno squaglio di cioccolata in bocca”. Ho avuto paura di dire la mia felicità. Ho cercato di farlo. Ho reso cenni della sua grandiosità. Questo ho fatto. Il miracolo è cosa rara. Raccontare è ripetere il miracolo. Il miracolo s'è ripetuto. La paura continua a abitare in me ogni volta che la grazia mi tocca e mi chiedo: la felicità è cosa da dire? “Sì e nessun coraggio sarà bello come questa paura”. Riporto frasi e mi accorgo che, mai come “Il giorno prima della felicità”, questo libro sarebbe da trascrivere tutt'intero, ché ogni pagina contiene dei righi, un dialogo, un pensiero, qualcosa, almeno una parola che può spiegare un senso, piegare un dolore, dare una ragione, dire di un errore, farti toccare un sogno, cullare una speranza, annegare in un ricordo, salvarti da una deriva... per questo (e per molto altro) ho parlato di capolavoro, ma soprattutto perché si vede che De Luca è riuscito a penetrare nella formula (magari tradotta dall'aramaico e combinata con le esistenze che ha saputo ascoltare, vedendole poi attraverso la sua, intanto che su qualche vetta alpina la neve ha dato quel nitore alle cose, felicità compresa, che pochi sentono e vedono, rendendole uniche e irripetibili) che fa di uno scrittore uno scrittore immortale: quella formula che generosamente svela (ché tra conoscere e vivere ci passa l'Orient Express), regalandocela: “Lo scrittore dev'essere più piccolo della materia che racconta. Si deve vedere che la storia gli scappa da tutte le parti e che lui ne raccoglie solo un poco. Chi legge ha il gusto di quell'abbondanza che trabocca oltre lo scrittore”. E quel che c'è oltre si può soltanto intuire, ché risiede al di là del limite visibile tra l'azzurro abbacinante del cielo e la vastità sconvolgente del deserto. Puoi fare unicamente una cosa per avvinarlo: muoverti lentamente coltivando pazienza. Con ogni mezzo, meglio se a piedi, ma che viaggio sia. E, prima o poi, affrontare quello vero. “I viaggi sono quelli per mare con le navi, non coi treni. L'orizzonte dev'essere vuoto e deve staccare il cielo dall'acqua. Ci dev'essere niente intorno e sopra deve pesare l'immenso, allora è viaggio”. Questo libro è un viaggio senza fine: sai dove comincia, le tappe sono scritte da qualche parte, a un certo punto arriverà la felicità, forse lo capirai il giorno prima sì da poterla accogliere, ma la fine non dipende da te. “Dicono che stanotte passiamo l'equatore”.
Il giorno prima della felicità di De Luca Erri
2009, 133 p., brossura, Editore Feltrinelli
powered by Paese Nuovo
Il giorno prima della felicità di De Luca Erri
2009, 133 p., brossura, Editore Feltrinelli
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Il libro del giorno: Il paradosso dei sessi. Uomini, donne e il vero scarto fra i generi di Susan Pinker (Einaudi)
Se il successo nel lavoro rispecchiasse quello scolastico, le donne oggi governerebbero il mondo. Perché spesso avviene il contrario? In questo volume Susan Pinker risponde ribaltando alcune delle nostre più ferme convinzioni, in particolare che donne e uomini siano equivalenti dal punto di vista biologico e che abbiano gli stessi obiettivi di vita. Che cosa vogliono le donne e perché lo vogliono? Che senso ha imporre alle donne un modello lavorativo maschile? Perché la parità non c'è ancora? Per Susan Pinker all'origine della differenza c'è uno scarto biologico che favorisce inclinazioni e atteggiamenti distinti. Soltanto accettando questa divergenza fondamentale si potrà realizzare un'organizzazione del lavoro in cui le diverse attitudini siano rispettate e valorizzate. Un saggio controverso che mira a gettare nuova luce sulle differenze tra uomo e donna, e offre spunti inediti per riaprire il dibattito.
casa editrice Einaudi: http://www.einaudi.it/einaudi/ita/default.jsp
"(...) conoscere e riconoscere le differenze tra i sessi non è un passo indietro, ma due in avanti"
Massimo Barberi
da Mente e Cervello n.53, p. 105
Il paradosso dei sessi. Uomini, donne e il vero scarto fra i generi di Pinker Susan
2009, 398 p., brossura Editore Einaudi (collana Einaudi. Stile libero extra)
casa editrice Einaudi: http://www.einaudi.it/einaudi/ita/default.jsp
"(...) conoscere e riconoscere le differenze tra i sessi non è un passo indietro, ma due in avanti"
Massimo Barberi
da Mente e Cervello n.53, p. 105
Il paradosso dei sessi. Uomini, donne e il vero scarto fra i generi di Pinker Susan
2009, 398 p., brossura Editore Einaudi (collana Einaudi. Stile libero extra)
lunedì 11 maggio 2009
La settima stella di Maria Pia Romano (Besa editrice). Rec. di Silla Hicks
Ciao, Pia.
Non lo userò, il tuo nome intero, che ti appesantisce, mentre tu invece sei leggera. Non fisicamente, intendo: o, piuttosto, questo io non lo so, solo ti immagino, le guance paffute, ancora incerta sulla soglia dell’adolescenza.
E’ dentro, che sei lieve.
Acqua nell’acqua, eterea solo come chi è molto giovane può ancora essere quando vorrebbe a tutti i costi le rughe di una vita intera per sentirsi subito grande. Piccola, spaesata in un mondo che vorrebbe collocarti da qualche parte, mentre tu cerchi, ancora, te. Siddartha di provincia, e femmina, per giunta. Dio lo sa, se è (stata) dura.
E, a dispetto di quanti anni tu abbia ora, è questo che sei ancora, dentro, o che eri, mentre scrivevi. Il resto - il curriculum, il voto di laurea, il colore degli occhi o dei capelli - non è cosa che possa mai trasparire attraverso le parole e sinceramente non credo nemmeno importi, se Marguerite Yourcenar, una vecchia signora, è diventata il giovanetto Adriano: uno che scrive s’inventa anche se stesso, o semplicemente scrivendo diventa quello che è.
Così, ho letto ogni riga, Pia, e mi perdonerai, adesso, per quello che ti dirò, e ti farà arrabbiare.
Ma io quello che tu immagini l’ho visto, tutto, inclusi gli occhi sbarrati dell’amore. Ne ho respirato l’odore di sangue e di cancrena. Io sono diventato grande. Tu, ancora, fortunatamente – per te, certo, ma anche per chi può leggerti – ancora no. Per questo la tua acqua è così limpida, un mare calmo mentre piove piano.
E tu ci nuoti come hai imparato – da sola, è da credere, anche se ci tieni tanto a citare versi e canzoni – senza accorgerti che può inghiottirti, con l’incoscienza degli anni migliori, dell’inesperienza che sa di fiori e sigarette fumate di nascosto nel bagno del liceo.
Sicuramente avevi bei voti, e ti piaceva studiare: ma, sai, non c’è libro in cui ci siano le risposte, e il dolore che senti nella musica è qualcosa che difficilmente ti porta da qualche parte: piuttosto, ti aiuta a smarrirti, dentro te.
Sono i giorni ad insegnarti la strada , e ti lasciano sulla pelle tagli che non sai guarire, e che altri giorni cicatrizzano in cheloidi slabbrati e bruni. È sempre così, fino alla fine.
Potrei dirti che è bello, che tu legga – miracolo, Anais Nin – e scriva: che tu sia capace di cesellare le parole, e scovare riferimenti che dipanano fili attraverso labirinti, seminando echi.
Invece, no.
Non è vero, non è questo che conta, non è questo che mi rimane, adesso, che ho chiuso il tuo libro.
Non è questo che ti serve, Pia.
Non ti serve limare ogni riga, né trovare metafore, né fingerti grande.
Adesso sì, ti arrabbierai. Quello che ti serve è vivere. Toglierti la maschera di donna vissuta e lasciare da parte echi volutamente torbidi, che fortunatamente non ti appartengono, e sottolineo il fortunatamente, perché nessuno – e nemmeno te – capisce che la vera trasgressione è essere felici, almeno finché non s’accorge che non potrà più esserlo davvero, a vita.
Non voltare le spalle, non rimanere in ombra, guardami dritto negli occhi. Guarda questa spiaggia, questi scogli, questo sole. Il resto verrà da solo, anche la notte.
E quando succederà, e dovrai abituarti al buio, al freddo, lo farai, perché è il destino umano. Ma resta al sole, finché c’è.
L’amore non è liquido, Pia. Non è il mare. È oceano denso e nero, e parlarne significa essere superstiti della tempesta. Non si può fare, essendosi appena bagnati i piedi. Sotto il livello del mare non c’è il Nautilus, Pia. C’è Cthulhu. Vorrei che tu non lo scoprissi mai.
E trova le parole non nello zaino con cui andavi al Palmieri, ma per strada, non aver paura di chiamare le cose con il loro nome.
Di urlarle, se necessario.
Non so cos’è, la poesia, io: non so contare le sillabe né fare giochi con le rime né so come si chiamano i versi, non sono un poeta né uno scrittore, sono solo uno che scrive per non strozzarsi .
Ma so che quando lasci che quello che sei e senti davvero venga fuori scrivi cose che mi attraversano, perché sono il tuo occhio – nudo – sul mondo.
Il cavaliere che si strucca quando lo spettacolo al circo è finito dimostra che sai vedere.
Ed è quando vedi che – come direbbero i tuoi amici su facebook – le tue parole arrivano.
Anzi di più: colpiscono. Le parole sono pietre. Si scagliano, Pia. E feriscono, anche. A un tempo la mano che le getta e il bersaglio.
Lo sa Roth, forse oggi l’unico capace di usarle per davvero.
Roth, che non evoca, ma dà a ogni cosa un nome.
La sovrastruttura, i titoli di studio, i complimenti, i premi, sono polvere.
Quello che resta, sono le persone, quelle che indovineranno la tua faccia, attraverso le tue righe, e si scopriranno a ridere e piangere e parlarti, riconoscendosi nelle tue risate e nelle tue lacrime, che tu abbraccerai e che ti abbracceranno, lungo questo filo posto rasoterra che non si può percorrere ma in cui si può solo inciampare che Kafka dice sia la vita.
Tutti quelli che senza averti conosciuto ti avranno guardato, per quello che sei davvero, e ti vedranno, così, senza occhi bistrati né altri orpelli, e pazienza se non sembrerai abbastanza grande.
Attraverso l’acqua, nella quale sarai sempre come adesso, leggera, trasparente, la luce che ti attraversa, anche se volgi le spalle e ti rifuggi nell’ombra.
Come ti ho visto io.
Una ragazzina che vorrebbe essere Anais Nin, e non sa che è molto più bella e conturbante – questa parola ti piacerà, lo so, e la scrivo apposta, perché meriti un regalo - così, con quello sguardo e quel sorriso e quegli occhi che si riempiono di lacrime e domande che non avrà mai più uguali, in vita sua.
Avrai tempo per diventare una Strega. O qualsiasi altra cosa che tu voglia, e non sai ancora.
Ma mai più potrai essere così come in questo momento che mi guardi.
Insostenibile leggerezza di orizzonte.
Acqua nell’acqua.
Anzi, persino di più. Acqua di primavera.
ACQUA DI PRIMAVERA ovvero
LA SETTIMA STELLA (MISCUGLIO DI SEME DI SESAMO E RISO)
MARIA PIA ROMANO, 2008 BESA, NARDO’ (LE)
Non lo userò, il tuo nome intero, che ti appesantisce, mentre tu invece sei leggera. Non fisicamente, intendo: o, piuttosto, questo io non lo so, solo ti immagino, le guance paffute, ancora incerta sulla soglia dell’adolescenza.
E’ dentro, che sei lieve.
Acqua nell’acqua, eterea solo come chi è molto giovane può ancora essere quando vorrebbe a tutti i costi le rughe di una vita intera per sentirsi subito grande. Piccola, spaesata in un mondo che vorrebbe collocarti da qualche parte, mentre tu cerchi, ancora, te. Siddartha di provincia, e femmina, per giunta. Dio lo sa, se è (stata) dura.
E, a dispetto di quanti anni tu abbia ora, è questo che sei ancora, dentro, o che eri, mentre scrivevi. Il resto - il curriculum, il voto di laurea, il colore degli occhi o dei capelli - non è cosa che possa mai trasparire attraverso le parole e sinceramente non credo nemmeno importi, se Marguerite Yourcenar, una vecchia signora, è diventata il giovanetto Adriano: uno che scrive s’inventa anche se stesso, o semplicemente scrivendo diventa quello che è.
Così, ho letto ogni riga, Pia, e mi perdonerai, adesso, per quello che ti dirò, e ti farà arrabbiare.
Ma io quello che tu immagini l’ho visto, tutto, inclusi gli occhi sbarrati dell’amore. Ne ho respirato l’odore di sangue e di cancrena. Io sono diventato grande. Tu, ancora, fortunatamente – per te, certo, ma anche per chi può leggerti – ancora no. Per questo la tua acqua è così limpida, un mare calmo mentre piove piano.
E tu ci nuoti come hai imparato – da sola, è da credere, anche se ci tieni tanto a citare versi e canzoni – senza accorgerti che può inghiottirti, con l’incoscienza degli anni migliori, dell’inesperienza che sa di fiori e sigarette fumate di nascosto nel bagno del liceo.
Sicuramente avevi bei voti, e ti piaceva studiare: ma, sai, non c’è libro in cui ci siano le risposte, e il dolore che senti nella musica è qualcosa che difficilmente ti porta da qualche parte: piuttosto, ti aiuta a smarrirti, dentro te.
Sono i giorni ad insegnarti la strada , e ti lasciano sulla pelle tagli che non sai guarire, e che altri giorni cicatrizzano in cheloidi slabbrati e bruni. È sempre così, fino alla fine.
Potrei dirti che è bello, che tu legga – miracolo, Anais Nin – e scriva: che tu sia capace di cesellare le parole, e scovare riferimenti che dipanano fili attraverso labirinti, seminando echi.
Invece, no.
Non è vero, non è questo che conta, non è questo che mi rimane, adesso, che ho chiuso il tuo libro.
Non è questo che ti serve, Pia.
Non ti serve limare ogni riga, né trovare metafore, né fingerti grande.
Adesso sì, ti arrabbierai. Quello che ti serve è vivere. Toglierti la maschera di donna vissuta e lasciare da parte echi volutamente torbidi, che fortunatamente non ti appartengono, e sottolineo il fortunatamente, perché nessuno – e nemmeno te – capisce che la vera trasgressione è essere felici, almeno finché non s’accorge che non potrà più esserlo davvero, a vita.
Non voltare le spalle, non rimanere in ombra, guardami dritto negli occhi. Guarda questa spiaggia, questi scogli, questo sole. Il resto verrà da solo, anche la notte.
E quando succederà, e dovrai abituarti al buio, al freddo, lo farai, perché è il destino umano. Ma resta al sole, finché c’è.
L’amore non è liquido, Pia. Non è il mare. È oceano denso e nero, e parlarne significa essere superstiti della tempesta. Non si può fare, essendosi appena bagnati i piedi. Sotto il livello del mare non c’è il Nautilus, Pia. C’è Cthulhu. Vorrei che tu non lo scoprissi mai.
E trova le parole non nello zaino con cui andavi al Palmieri, ma per strada, non aver paura di chiamare le cose con il loro nome.
Di urlarle, se necessario.
Non so cos’è, la poesia, io: non so contare le sillabe né fare giochi con le rime né so come si chiamano i versi, non sono un poeta né uno scrittore, sono solo uno che scrive per non strozzarsi .
Ma so che quando lasci che quello che sei e senti davvero venga fuori scrivi cose che mi attraversano, perché sono il tuo occhio – nudo – sul mondo.
Il cavaliere che si strucca quando lo spettacolo al circo è finito dimostra che sai vedere.
Ed è quando vedi che – come direbbero i tuoi amici su facebook – le tue parole arrivano.
Anzi di più: colpiscono. Le parole sono pietre. Si scagliano, Pia. E feriscono, anche. A un tempo la mano che le getta e il bersaglio.
Lo sa Roth, forse oggi l’unico capace di usarle per davvero.
Roth, che non evoca, ma dà a ogni cosa un nome.
La sovrastruttura, i titoli di studio, i complimenti, i premi, sono polvere.
Quello che resta, sono le persone, quelle che indovineranno la tua faccia, attraverso le tue righe, e si scopriranno a ridere e piangere e parlarti, riconoscendosi nelle tue risate e nelle tue lacrime, che tu abbraccerai e che ti abbracceranno, lungo questo filo posto rasoterra che non si può percorrere ma in cui si può solo inciampare che Kafka dice sia la vita.
Tutti quelli che senza averti conosciuto ti avranno guardato, per quello che sei davvero, e ti vedranno, così, senza occhi bistrati né altri orpelli, e pazienza se non sembrerai abbastanza grande.
Attraverso l’acqua, nella quale sarai sempre come adesso, leggera, trasparente, la luce che ti attraversa, anche se volgi le spalle e ti rifuggi nell’ombra.
Come ti ho visto io.
Una ragazzina che vorrebbe essere Anais Nin, e non sa che è molto più bella e conturbante – questa parola ti piacerà, lo so, e la scrivo apposta, perché meriti un regalo - così, con quello sguardo e quel sorriso e quegli occhi che si riempiono di lacrime e domande che non avrà mai più uguali, in vita sua.
Avrai tempo per diventare una Strega. O qualsiasi altra cosa che tu voglia, e non sai ancora.
Ma mai più potrai essere così come in questo momento che mi guardi.
Insostenibile leggerezza di orizzonte.
Acqua nell’acqua.
Anzi, persino di più. Acqua di primavera.
ACQUA DI PRIMAVERA ovvero
LA SETTIMA STELLA (MISCUGLIO DI SEME DI SESAMO E RISO)
MARIA PIA ROMANO, 2008 BESA, NARDO’ (LE)
Il libro del giorno: Il 18° vampiro di Claudio Vergnani (Gargoyle Books)
"...sbarco il lunario uccidendo vampiri. Non è un compito difficile, ed è sempre meglio che lavorare. lo e i miei compagni li distruggiamo durante il giorno, mentre dormono il loro sonno di morte, nascosti nei loro miserabili covi. Non possono reagire. Un paio di colpi di mazzuolo ed è fatta. Forse non è il mestiere più bello del mondo, ma è facile e socialmente utile. Non occorrono coraggio o particolare determinazione. Non serve essere animati dal sacro fuoco della giustizia. Serve solo un po' di pratica e tanta disperazione. Per certi versi è come la disinfestazione di topi o insetti: fai quello che devi fare, sopportando il disgusto, e poi te ne torni a casa. Sempre che non si finisca per esagerare, per passare la misura. Il problema è che non sapevo che esistesse un confine. L'ho saputo solo dopo averlo oltrepassato. E, a quel punto, tornare indietro non era più possibile..."
casa editrice Gargoyle Books: http://www.gargoylebooks.it/
"Questo romanzone si legge d'un fiato perchè i suoi vampiri sono con noi, e anzi siamo un pò noi, come dice Dario Maria Gulli nella bella introduzione, quasi un manualetto letterario di vampirologia"
Filippo La Porta
da XL di Repubblica n.45 (maggio 09), p. 183
Il diciottesimo vampiro di Vergnani Claudio
2009, 544 p., brossura
Editore Gargoyle
casa editrice Gargoyle Books: http://www.gargoylebooks.it/
"Questo romanzone si legge d'un fiato perchè i suoi vampiri sono con noi, e anzi siamo un pò noi, come dice Dario Maria Gulli nella bella introduzione, quasi un manualetto letterario di vampirologia"
Filippo La Porta
da XL di Repubblica n.45 (maggio 09), p. 183
Il diciottesimo vampiro di Vergnani Claudio
2009, 544 p., brossura
Editore Gargoyle
domenica 10 maggio 2009
Uomo nel buio di Paul Auster (Einaudi). Rec di Maria Beatrice Protino
Il nuovo romanzo di Paul Auster, ‘Uomo nel buio’, in Italia edito da Einaudi, è così convincente nell’ evocare lo stato di insonnia che, posto si riesca a reggere davvero la lettura per una sola notte, senz’altro si parteciperebbe volentieri alla colazione descritta alla fine del racconto, cioè: . Infatti, arrivato a questo punto, il lettore non solo è redivivo da una notte di veglia, ma anche da una notte in cui, fluidamente, ha egli stesso partecipato a un viaggio, a un’odissea interiore, condotto quasi per mano attraverso una narrazione intensa e abilissima.
Il protagonista, August Brill, critico letterario in pensione, ha 72 anni, e giace nel suo letto a casa della figlia, nel Vermont, per rimettersi da un incidente automobilistico che l’ha reso quasi invalido. In questa sua lunga notte d’insonnia – come gli accade ormai da tempo - tiene occupata la mente immaginando storie che lo conducono lontano dalla sua vita, da ciò che vorrebbe dimenticare: la recente morte della moglie, l'orribile assassinio in Iraq del fidanzato della nipote che laggiù lavorava in un impresa di costruzioni, il divorzio della figlia, il suo stesso incidente. Sdraiato nel buio, cerca di rifuggire l’idea del dolore personale e della sua famiglia e si racconta la storia di un mondo parallelo, di un'America che, pur rimanendo contemporanea a quella reale, non è in guerra contro il terrorismo, in cui non è avvenuto l’attentato dell’11 settembre, né la guerra in Iraq, ma è dilaniata da una guerra civile scoppiata nel 2000 durante la prima contestatissima elezione di Bush. Mentre il destino del protagonista della storia fantapolitica diventa sempre più incerto, la nipote, anch'essa insonne, raggiunge il nonno e August capisce che non può più sfuggire ai racconti veri, alle vicende della sua vita, ma cedere, lasciarsi andare al (così come recita un verso della poetessa Rose Hawthorne, più volte citato nel libro).
Sin dal titolo si evoca il silenzio alle infinite domande della vita e si narra del buio, della difficoltà di continuare a vivere se non costruendosi – quasi cinicamente - un’altra realtà e offuscando la distinzione tra ciò che è vissuto davvero e ciò che non lo è: si peregrina secondo modalità quasi kafkiane nei bassifondi di città ostili che sono simbolo di solitudine. Il racconto nel racconto, la narrazione che si mescola tra due mondi possibili, in un gioco di richiami e una fede incondizionata nella fluidità dell’esistenza e nel suo caos, nella sua mancanza di ordine, nel suo intrinseco affidarsi a imprevedibili giri di destino, fortuna e coincidenza, ma anche – imprevedibilmente, appunto - in un’inossidabile slancio salvifico della mente verso la speranza.
In tal modo, un romanzo che comincia come un racconto di morte, si conclude narrando di tre generazioni che, attraverso l’amore, riescono a riconciliarsi con il mondo.
Paul Auster è nato nel 1947 a Newark (New Jersey). Nato da famiglia benestante di origini tedesche, durante l'adolescenza inizia a scrivere le prime poesie. Si laurea nel 1969 alla Columbia University e tra il 1971 e il 1974 vive in Francia. Nel 1974 sposa la scrittrice e traduttrice Lydia Davis, dalla quale ha un figlio, Daniel. Il matrimonio dura solamente quattro anni. Dopo aver divorziato dalla Davis, sposa nel 1982 la scrittrice di origini norvegesi Siri Hustvedt, dalla quale ha una figlia, Sophie.
La sua carriera di scrittore di romanzi inizia nel 1979 con L'invenzione della solitudine, ma è solo nel 1985 che arriva la consacrazione a livello internazionale con la Trilogia di New York, composta da Città di vetro, Fantasmi e La Stanza Chiusa. Da questo momento Paul Auster diviene uno scrittore di culto e dalle poliedriche attività: scrive per il cinema (Smoke e Blue in the face) e diviene regista (Lulu on the Bridge).
Il cinico rimescolare con la mente gli eventi reali per ‘ri-crearsi’ in una vita parallela non possono tuttavia risolvere il dramma dell’esistenza: forse solo la speranza nell’amore può salvare dall’oblio.
Il protagonista, August Brill, critico letterario in pensione, ha 72 anni, e giace nel suo letto a casa della figlia, nel Vermont, per rimettersi da un incidente automobilistico che l’ha reso quasi invalido. In questa sua lunga notte d’insonnia – come gli accade ormai da tempo - tiene occupata la mente immaginando storie che lo conducono lontano dalla sua vita, da ciò che vorrebbe dimenticare: la recente morte della moglie, l'orribile assassinio in Iraq del fidanzato della nipote che laggiù lavorava in un impresa di costruzioni, il divorzio della figlia, il suo stesso incidente. Sdraiato nel buio, cerca di rifuggire l’idea del dolore personale e della sua famiglia e si racconta la storia di un mondo parallelo, di un'America che, pur rimanendo contemporanea a quella reale, non è in guerra contro il terrorismo, in cui non è avvenuto l’attentato dell’11 settembre, né la guerra in Iraq, ma è dilaniata da una guerra civile scoppiata nel 2000 durante la prima contestatissima elezione di Bush. Mentre il destino del protagonista della storia fantapolitica diventa sempre più incerto, la nipote, anch'essa insonne, raggiunge il nonno e August capisce che non può più sfuggire ai racconti veri, alle vicende della sua vita, ma cedere, lasciarsi andare al
Sin dal titolo si evoca il silenzio alle infinite domande della vita e si narra del buio, della difficoltà di continuare a vivere se non costruendosi – quasi cinicamente - un’altra realtà e offuscando la distinzione tra ciò che è vissuto davvero e ciò che non lo è: si peregrina secondo modalità quasi kafkiane nei bassifondi di città ostili che sono simbolo di solitudine. Il racconto nel racconto, la narrazione che si mescola tra due mondi possibili, in un gioco di richiami e una fede incondizionata nella fluidità dell’esistenza e nel suo caos, nella sua mancanza di ordine, nel suo intrinseco affidarsi a imprevedibili giri di destino, fortuna e coincidenza, ma anche – imprevedibilmente, appunto - in un’inossidabile slancio salvifico della mente verso la speranza.
In tal modo, un romanzo che comincia come un racconto di morte, si conclude narrando di tre generazioni che, attraverso l’amore, riescono a riconciliarsi con il mondo.
Paul Auster è nato nel 1947 a Newark (New Jersey). Nato da famiglia benestante di origini tedesche, durante l'adolescenza inizia a scrivere le prime poesie. Si laurea nel 1969 alla Columbia University e tra il 1971 e il 1974 vive in Francia. Nel 1974 sposa la scrittrice e traduttrice Lydia Davis, dalla quale ha un figlio, Daniel. Il matrimonio dura solamente quattro anni. Dopo aver divorziato dalla Davis, sposa nel 1982 la scrittrice di origini norvegesi Siri Hustvedt, dalla quale ha una figlia, Sophie.
La sua carriera di scrittore di romanzi inizia nel 1979 con L'invenzione della solitudine, ma è solo nel 1985 che arriva la consacrazione a livello internazionale con la Trilogia di New York, composta da Città di vetro, Fantasmi e La Stanza Chiusa. Da questo momento Paul Auster diviene uno scrittore di culto e dalle poliedriche attività: scrive per il cinema (Smoke e Blue in the face) e diviene regista (Lulu on the Bridge).
Il cinico rimescolare con la mente gli eventi reali per ‘ri-crearsi’ in una vita parallela non possono tuttavia risolvere il dramma dell’esistenza: forse solo la speranza nell’amore può salvare dall’oblio.
Il libro del giorno: New Italian Epic di Wu Ming (Einaudi)
Questo libro racconta come e perché, negli ultimi anni, molti romanzi italiani si siano attratti e incontrati fino a formare una vasta nebulosa, un "campo elettrostatico" letterario. È la nebulosa della "nuova epica italiana-, come ha proposto di battezzarla Wu Ming dopo il primo avvistamento, nella primavera del 2008. Come un corpo celeste, attendeva solo di essere "scoperta" e descritta. Non è un movimento di autori, ma un dialogo tra libri. Opere diverse, ma costruite su un comune sentire, una rinnovata fiducia nella parola e nel raccontare, un'etica della narrazione che porta a unire attitudine pop e ricerca di storie complesse, sguardi obliqui sulla realtà e visioni di mondi alternativi, sovversione della lingua ed esperimenti "transmediali". Ad aprire questa raccolta è l'ormai noto "memorandum" sul New Italian Epic, in una versione riveduta e ampliata. A seguire, due lunghi interventi esplorano la dimensione sociale e politica di questo nuovo approccio al mestiere di raccontare. Mestiere descritto come pratica di resistenza, perché "l'unica alternativa per non subire una storia è raccontare mille storie alternative".
"Forse Wu Ming sta insistendo così tanto (tanto da pubblicarci un saggio) sull’epica, perché è soprattutto la sua produzione che può dirsi epica. Ogni scrittore-critico non può che proiettare la propria estetica sulla produzione altrui, quando la analizza. È il destino dello scrittore-critico, insito nel suo stesso statuto. Ma paradossalmente è proprio uno dei caratteri più marcati dell’epica (la matrice collettiva e, nella sua vita orale, l’anonimato), quello che meno prende in considerazione Wu Ming. Perché? Semplicemente perché queste caratteristiche sono presenti nella tradizione poetica, mentre sono pressoché assenti in quella narrativa"
dal sito Absolute Poetry a cura di Lello Voce da http://lellovoce.altervista.org/
(Appunti per la nuova epica italiana postato il 2009-02-22 14:50:42 da Valerio Cuccaroni - http://lellovoce.altervista.org/spip.php?article1694)
casa editrice Einaudi: http://www.einaudi.it/einaudi/ita/default.jsp
New italian epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro di Wu Ming
2009, XIII-208 p., Einaudi (collana Einaudi. Stile libero)
"Forse Wu Ming sta insistendo così tanto (tanto da pubblicarci un saggio) sull’epica, perché è soprattutto la sua produzione che può dirsi epica. Ogni scrittore-critico non può che proiettare la propria estetica sulla produzione altrui, quando la analizza. È il destino dello scrittore-critico, insito nel suo stesso statuto. Ma paradossalmente è proprio uno dei caratteri più marcati dell’epica (la matrice collettiva e, nella sua vita orale, l’anonimato), quello che meno prende in considerazione Wu Ming. Perché? Semplicemente perché queste caratteristiche sono presenti nella tradizione poetica, mentre sono pressoché assenti in quella narrativa"
dal sito Absolute Poetry a cura di Lello Voce da http://lellovoce.altervista.org/
(Appunti per la nuova epica italiana postato il 2009-02-22 14:50:42 da Valerio Cuccaroni - http://lellovoce.altervista.org/spip.php?article1694)
casa editrice Einaudi: http://www.einaudi.it/einaudi/ita/default.jsp
New italian epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro di Wu Ming
2009, XIII-208 p., Einaudi (collana Einaudi. Stile libero)
sabato 9 maggio 2009
Hammerstein o dell'ostinazione. Una storia tedesca (Einaudi) di Enzensberger Hans Magnus. Rec. di Silla Hicks
Quando sono arrivato qui, oltre vent’anni fa, mi capitava spesso. Camminavo per strada, e li sentivo, i vecchi, sussurrarmelo alle spalle, il loro dialetto che non capivo, solo qualche parola comprensibile, tagliente, il sibilo di un coltello, all’altezza delle scapole, stramaledetti tedeschi, ce l’avevo scritto in faccia, chi ero.
Col tempo, avevo imparato ad evitarli, ad incassare il collo nelle spalle se proprio dovevo passare davanti alle loro panchine, ma non ho mai pensato di rispondere, di difendermi. Sapevo, già allora, cos’abbiamo fatto. Abbiamo, tutti. Anche quelli nati nel ’72, come me, che la notte dei cristalli non erano nemmeno nella mente di dio (ammesso che quella notte ce ne fosse uno).
Oggi non c’è più tanta gente che ricorda. I ragazzini fuori dai licei non sanno nemmeno che ci sia stata, la Shoà, e forse per questo bruciano le bandiere di Israele. Sono e sembro ancora un tedesco, parlo con il mio accento e porto i miei occhi e i miei capelli, ma non c’è rimasto più quasi nessuno a considerarli il segno del demonio. Di quelli che abbiamo invaso e trucidato, non è rimasto che qualche capitolo nei libri di scuola, ma è nelle ultime pagine, e si sa che la maggior parte delle classi non finisce il programma, così per tanti studenti italiani le SS restano i cattivi di qualche film: non voglio dire di chi, tra loro, si tatua le svastiche, adesso. Sinceramente, spesso, non voglio nemmeno pensare che esista. Perché io sono uno stramaledetto tedesco, e so. Io, e tanti come me, sappiamo di parlare la lingua di chi ha scritto l’abominio di Mein Kampf. E non riusciamo a perdonarcelo, anche se è stato prima di noi: ne portiamo gli occhi azzurri come un lutto, sappiamo di essere nipoti di chi l’ha lasciato fare. Per questo, ci ho messo un po’ prima di trovare il coraggio di leggere questo libro. Perché parlava di quella parte della storia del mio paese che vogliamo dimenticare, di quel bagaglio ingombrante che ci fa vergognare del nostro accento e delle nostre facce, che ci fa desiderare di chiedere scusa, come se potesse valere a qualcosa, dopo milioni di innocenti morti. Perché l’ho sfogliato, riconoscendomi nelle foto, e ho pensato che sì, le razze esistono. Noi, ci assomigliamo. Marie Therese è identica a mia sorella, e io ricordo parecchio Eugen Ott, o almeno lo ricordavo, prima che tutto andasse a rotoli, perchè adesso, coi capelli rasati e venti chili meno, più che un ufficiale del Reich ricordo un deportato, e non c’è bisogno di dire che mi fa piacere, questo, o che mi farebbe piacere, anzi, se fossi ancora capace di gioire di qualcosa..
Ma poi ho cominciato a leggere, e l’ho finito, questo libro, e ho ringraziato dio (sempre ammesso che non sia bestemmia pensare che dio ci fosse, in quegli anni) perché questo libro non parla di SS, o anzi, ne parla, ma parla anche di persone che non si sono fatte abbindolare dal mito della superiorità ariana, che hanno cercato di fermare la follia, che l’hanno combattuta, e pazienza per com’è andata a finire, se ci sono stati gli Hammerstein allora non tutti i tedeschi hanno colpa, ma solo quelli che hanno seguito un pazzo: non è stata la Germania, ma solo una parte, a cercare di distruggere l’umanità del mondo. Non sono una famiglia perfetta, gli Hammerstein, esponenti della Reichswher, nobili eleganti e viziati, il padre che arriva a rimproverare alla figlia bambina di aiutare la servitù piuttosto che bighellonare coi fratellini: piuttosto anticipatici, per quell’aria intrinseca di superiorità che i nati ricchi di tutte le latitudini hanno, sono altezzosi persino nella critica a Hitler, il “caporale impazzito”. Per loro conta saper stare a tavola ed avere una cultura adeguata: disprezzano i burocrati e giudicano volgare l’attivismo nazista, e l’apparente lassismo nell’educazione dei figli, il lasciar loro una sfrenata libertà di fare ciò che vogliono, da “repubblicani liberi”, sa dello snobismo supremo dell’èlite che si ritiene al di sopra delle regole, proprio mentre l’impone al resto del mondo. Sono gattopardi, gli Hammerstein, anche nella resistenza all’ascesa del male, che doveva apparire loro volgare e, prima ancora che crudele, e sopra tutto ottuso, ignorante, “basso”: scordare in metropolitana la corona funebre inviata da Hitler al patriarca morto è il gesto simbolo del loro disprezzo per un regime che non reputano al loro livello, che “invillanisce” il loro Paese, e che per questo, sopra ogni cosa, non possono riconoscere. E restano aristocratici, anche quando la storia di questa famiglia finisce per intrecciarsi con l’attentato a Hitler nel ’44, la rete di resistenza, coi relativi legami con la Russia, e i figli diventano clandestini partigiani, conoscono i campi di sterminio, mentre le figlie sono spie in giro per il mondo, autentiche pasionarie, estremamente libere e moderne, anche usando il metro di oggi.
E’ un romanzo, ed insieme è tutto vero, le foto, le lettere e le testimonianze di chi ci ha parlato accanto a postume interviste immaginarie, narrazione complessa e corale, tanti, troppi personaggi, e su tutti il vecchio leone, il generale che accettò il patto col diavolo delle relazioni con Mosca e che riteneva che la paura non fosse mai essere un’ideologia, ma anche sua figlia, Marie Therese, la piccola Esi che ride sulla sua moto e vuole trasferirsi in Israele dove vive la sua migliore amica del Ginnasio, che si chiama Wera, ed è ebrea, e che ritroverà da vecchia, nel ’71, dopo il Giappone e la California, e una vita che contiene la sceneggiatura di una dozzina di film.
Perché non si può riassumere, questo libro, che non è una storia, ma la storia, un affresco che rapisce e spaventa, anche, per la musica di Wagner che ne è colonna sonora, opera di accetta e di cesello come le nostre facce, mascelle quadrate e nasi diritti, epopea di una casata che non si è rassegnata alla fine del mondo civile, che ha lasciato la sua Donnafugata per ricacciare indietro l’avanzata della barbarie.
Un libro tedesco, come le persone che racconta.
Perché è così che siamo, nel bene e nel male, sempre: persone che non si rassegnano, che s’impegnano allo spasimo quando credono in qualcosa, e la perseguono a qualsiasi costo, perché avere uno scopo è tutto ciò che chiedono, e non conoscono la resa.
Cocciuti fino alla ferocia figli dell’ostinazione.
(HANS MAGNUS ENZENSBERGER – “HAMMERSTEIN” -2008, EINAUDI, TORINO)
LA PAURA NON E’MAI UN’IDEOLOGIA
Col tempo, avevo imparato ad evitarli, ad incassare il collo nelle spalle se proprio dovevo passare davanti alle loro panchine, ma non ho mai pensato di rispondere, di difendermi. Sapevo, già allora, cos’abbiamo fatto. Abbiamo, tutti. Anche quelli nati nel ’72, come me, che la notte dei cristalli non erano nemmeno nella mente di dio (ammesso che quella notte ce ne fosse uno).
Oggi non c’è più tanta gente che ricorda. I ragazzini fuori dai licei non sanno nemmeno che ci sia stata, la Shoà, e forse per questo bruciano le bandiere di Israele. Sono e sembro ancora un tedesco, parlo con il mio accento e porto i miei occhi e i miei capelli, ma non c’è rimasto più quasi nessuno a considerarli il segno del demonio. Di quelli che abbiamo invaso e trucidato, non è rimasto che qualche capitolo nei libri di scuola, ma è nelle ultime pagine, e si sa che la maggior parte delle classi non finisce il programma, così per tanti studenti italiani le SS restano i cattivi di qualche film: non voglio dire di chi, tra loro, si tatua le svastiche, adesso. Sinceramente, spesso, non voglio nemmeno pensare che esista. Perché io sono uno stramaledetto tedesco, e so. Io, e tanti come me, sappiamo di parlare la lingua di chi ha scritto l’abominio di Mein Kampf. E non riusciamo a perdonarcelo, anche se è stato prima di noi: ne portiamo gli occhi azzurri come un lutto, sappiamo di essere nipoti di chi l’ha lasciato fare. Per questo, ci ho messo un po’ prima di trovare il coraggio di leggere questo libro. Perché parlava di quella parte della storia del mio paese che vogliamo dimenticare, di quel bagaglio ingombrante che ci fa vergognare del nostro accento e delle nostre facce, che ci fa desiderare di chiedere scusa, come se potesse valere a qualcosa, dopo milioni di innocenti morti. Perché l’ho sfogliato, riconoscendomi nelle foto, e ho pensato che sì, le razze esistono. Noi, ci assomigliamo. Marie Therese è identica a mia sorella, e io ricordo parecchio Eugen Ott, o almeno lo ricordavo, prima che tutto andasse a rotoli, perchè adesso, coi capelli rasati e venti chili meno, più che un ufficiale del Reich ricordo un deportato, e non c’è bisogno di dire che mi fa piacere, questo, o che mi farebbe piacere, anzi, se fossi ancora capace di gioire di qualcosa..
Ma poi ho cominciato a leggere, e l’ho finito, questo libro, e ho ringraziato dio (sempre ammesso che non sia bestemmia pensare che dio ci fosse, in quegli anni) perché questo libro non parla di SS, o anzi, ne parla, ma parla anche di persone che non si sono fatte abbindolare dal mito della superiorità ariana, che hanno cercato di fermare la follia, che l’hanno combattuta, e pazienza per com’è andata a finire, se ci sono stati gli Hammerstein allora non tutti i tedeschi hanno colpa, ma solo quelli che hanno seguito un pazzo: non è stata la Germania, ma solo una parte, a cercare di distruggere l’umanità del mondo. Non sono una famiglia perfetta, gli Hammerstein, esponenti della Reichswher, nobili eleganti e viziati, il padre che arriva a rimproverare alla figlia bambina di aiutare la servitù piuttosto che bighellonare coi fratellini: piuttosto anticipatici, per quell’aria intrinseca di superiorità che i nati ricchi di tutte le latitudini hanno, sono altezzosi persino nella critica a Hitler, il “caporale impazzito”. Per loro conta saper stare a tavola ed avere una cultura adeguata: disprezzano i burocrati e giudicano volgare l’attivismo nazista, e l’apparente lassismo nell’educazione dei figli, il lasciar loro una sfrenata libertà di fare ciò che vogliono, da “repubblicani liberi”, sa dello snobismo supremo dell’èlite che si ritiene al di sopra delle regole, proprio mentre l’impone al resto del mondo. Sono gattopardi, gli Hammerstein, anche nella resistenza all’ascesa del male, che doveva apparire loro volgare e, prima ancora che crudele, e sopra tutto ottuso, ignorante, “basso”: scordare in metropolitana la corona funebre inviata da Hitler al patriarca morto è il gesto simbolo del loro disprezzo per un regime che non reputano al loro livello, che “invillanisce” il loro Paese, e che per questo, sopra ogni cosa, non possono riconoscere. E restano aristocratici, anche quando la storia di questa famiglia finisce per intrecciarsi con l’attentato a Hitler nel ’44, la rete di resistenza, coi relativi legami con la Russia, e i figli diventano clandestini partigiani, conoscono i campi di sterminio, mentre le figlie sono spie in giro per il mondo, autentiche pasionarie, estremamente libere e moderne, anche usando il metro di oggi.
E’ un romanzo, ed insieme è tutto vero, le foto, le lettere e le testimonianze di chi ci ha parlato accanto a postume interviste immaginarie, narrazione complessa e corale, tanti, troppi personaggi, e su tutti il vecchio leone, il generale che accettò il patto col diavolo delle relazioni con Mosca e che riteneva che la paura non fosse mai essere un’ideologia, ma anche sua figlia, Marie Therese, la piccola Esi che ride sulla sua moto e vuole trasferirsi in Israele dove vive la sua migliore amica del Ginnasio, che si chiama Wera, ed è ebrea, e che ritroverà da vecchia, nel ’71, dopo il Giappone e la California, e una vita che contiene la sceneggiatura di una dozzina di film.
Perché non si può riassumere, questo libro, che non è una storia, ma la storia, un affresco che rapisce e spaventa, anche, per la musica di Wagner che ne è colonna sonora, opera di accetta e di cesello come le nostre facce, mascelle quadrate e nasi diritti, epopea di una casata che non si è rassegnata alla fine del mondo civile, che ha lasciato la sua Donnafugata per ricacciare indietro l’avanzata della barbarie.
Un libro tedesco, come le persone che racconta.
Perché è così che siamo, nel bene e nel male, sempre: persone che non si rassegnano, che s’impegnano allo spasimo quando credono in qualcosa, e la perseguono a qualsiasi costo, perché avere uno scopo è tutto ciò che chiedono, e non conoscono la resa.
Cocciuti fino alla ferocia figli dell’ostinazione.
(HANS MAGNUS ENZENSBERGER – “HAMMERSTEIN” -2008, EINAUDI, TORINO)
LA PAURA NON E’MAI UN’IDEOLOGIA
Il libro del giorno: Madman Bovary di Claro Christophe (Nutrimenti)
Cosa accade se, per placare le pene d'amore, Madman Bovary, il protagonista di questo deformato romanzo, cerca conforto nel suo libro preferito? Beh, può succedere di tutto se il libro è il capolavoro di Flaubert. Per esempio che la realtà, il presente, cominci a intersecarsi con Madame Bovary (che risuona qui nella storica traduzione di Natalia Ginzburg), che una discoteca assomigli sempre di più a una sala da ballo in grande stile dell'Ottocento, che il farmacista Homais diventi il vostro miglior amico, e che il veleno d'amore s'intrufoli nelle crepe del libro in cerca di un antidoto. Felicità, passione, ebbrezza - le parole che tanto affascinavano Emina - sono il breviario per l'unica cosa che conta davvero: un'erezione. Claro, con una lingua tesa, compulsiva e acrobatica, ha scritto la nuova grammatica dell'io innamorato.
casa editrice Nutrimenti: http://www.nutrimenti.net/home.php
"Il capolavoro viene sottoposto a tortura e deformato. Con una lingua che viene definita compulsiva e acrobatica"
di Giulia Borgese
da Io donna (il femminile del Corriere della Sera) p. 40 del 9/05/09
Madman Bovary, Claro Christophe, 2009, 150 p.
Traduttore - Maddamma M.
Editore Nutrimenti (collana Gog)
casa editrice Nutrimenti: http://www.nutrimenti.net/home.php
"Il capolavoro viene sottoposto a tortura e deformato. Con una lingua che viene definita compulsiva e acrobatica"
di Giulia Borgese
da Io donna (il femminile del Corriere della Sera) p. 40 del 9/05/09
Madman Bovary, Claro Christophe, 2009, 150 p.
Traduttore - Maddamma M.
Editore Nutrimenti (collana Gog)
venerdì 8 maggio 2009
L'Italia di mattina di Franco Cordelli (Giulio Perrone editore)
Giro d'Italia 1989. Un cronista-scrittore di nome Scipione racconta, tappa per tappa, la corsa ciclistica; attraversa paesi e città - da Taormina a Trento, con traguardo a Firenze. Porta con sè libri e domande: viaggia, legge, si interroga. "Scipione scriveva e i corridori gli correvano intorno", attraverso un'Italia che lo sorprende per luce e bellezza.
Immerso nel paesaggio italiano, vi si abbandona: indaga piccole verità della storia ed enormi verità umane. Riscopre luoghi che credeva di avere dimenticato, li ritrova più veri nella lentezza e nella fatica di chi spinge sui pedali. Ama quei campioni. Ama il ciclismo per la sua povertà eroica. Forse minata - proprio in quella fine di decennio - da una mondializzazione che tutto trasforma.
Si poteva più vincere soltanto con le proprie forze? Si poteva più riconoscere la qualità di un campione? Cambiava il ciclismo, cambiava l'Italia. L'uno, per Scipione, diventa specchio o allegoria dell'altra: pretesto per un racconto che si fa romanzo, saggio, atto di poesia.
Franco Cordelli ha scritto, spinto da un'antica passione sportiva, forse l'ultimo. emozionante reportage totale sul nostro Paese (Paolo Di Paolo)
Immerso nel paesaggio italiano, vi si abbandona: indaga piccole verità della storia ed enormi verità umane. Riscopre luoghi che credeva di avere dimenticato, li ritrova più veri nella lentezza e nella fatica di chi spinge sui pedali. Ama quei campioni. Ama il ciclismo per la sua povertà eroica. Forse minata - proprio in quella fine di decennio - da una mondializzazione che tutto trasforma.
Si poteva più vincere soltanto con le proprie forze? Si poteva più riconoscere la qualità di un campione? Cambiava il ciclismo, cambiava l'Italia. L'uno, per Scipione, diventa specchio o allegoria dell'altra: pretesto per un racconto che si fa romanzo, saggio, atto di poesia.
Franco Cordelli ha scritto, spinto da un'antica passione sportiva, forse l'ultimo. emozionante reportage totale sul nostro Paese (Paolo Di Paolo)
Poesia. La rivista per-versi di Crocetti con l'x-factor!
La rivista sicuramente più interessante non solo a livello nazionale (ventimila copie mensili tirate e distribuite nelle 38 mila edicole d’Italia) la cui fama arriva a scavalcare i confini del nostro paese, sicuramente è Poesia, che da poco più di un annetto ha festeggiato il suo ventennale. Alle spalle di un periodico come questo, che supera il luogo comune della vendibilità di un prodotto monotematico sul mondo dei versi, c’è un uomo che ha da sempre creduto nella cultura e nel suo valore: Nicola Crocetti, nato a Patrasso da madre greca, arrivato in Italia nel ’ 45, dal 1981 editore, con un sogno che ha saputo trasformare in realtà, sicuramente investendo del suo anche in termini di patrimonio personale: la poesia deve raggiungere tutti. Ora si potrebbe immaginare che una pubblicazione che va in edicola, si occupa di argomenti considerati non solo out dal mercato editoriale ma anche down, sia piena zeppa di pagine, mezze pagine, mozzini di pubblicità: niente di più falso, anzi quasi sorge il dubbio del miracolo economico tout court, autentico, grandioso sia per la sua vita pubblicativa sia per la quasi totale assenza di inserzioni a pagamento. In più a conferma di quanto detto sinora , una regola (valida naturalmente per Crocetti e le sue pubblicazioni) che nel mondo dei libri si tramanda di generazione in generazione, è che i prodotti della piccola editoria, sono il più delle volte dei veri e propri gioielli: mai verità più grande per questo caso specifico. La casa editrice di Milano, riedita, fa nuove traduzioni, pubblica inediti, fotografie, e ben oltre 1800 poeti selezionati dall’editore in persona che ci mette la faccia, e da una redazione e un comitato di redazione non solo tra i più competenti, ma anche dotato di un sottile fiuto per i capolavori. Per tornare alla rivista, è vero che Poesia si occupa di storia della letteratura poetica e quindi vitrovano posto nano-monografie su Omero, Esiodo, Saffo, Dante Alighieri, Giacomo Leopardi, Carducci, ma anche la contemporaneità è degnamente rappresentata Pavlos Màtesis, Zyranna Zateli, Ioanna Karistiani, Maria Mavromataki e ancora Maria Luisa Spaziani, Mario Luzi, Alda Merini, Franco Loi. Numerose le segnalazioni recensive su ciò che agita le acque della produzione poetica nazionale e non, come numerose sono le segnalazioni di inediti e le news sui concorsi per versi. Naturalmente per un lavoro così encomiabile, nasce spontaneo il fatto di pensare a dei super-poteri che ciascun personaggio organico allo staff che fa la storia di questa casa editrice, ha a disposizione … forse il loro super-potere (come recita l’ultimo spot della Coca Cola light) è il fatto di essere quello che sono. Io ve li presento. A voi, andare in edicola e leggere Poesia! (http://www.crocettieditore.com/)
Direttore responsabile: Nicola Crocetti
Vice direttore: Angela Urbano
Comitato di redazione:
Massimo Bacigalupo, Donata Berra, Donatella Bisutti, Yves Bonnefoy, Roberto Carifi, Arnaldo Colasanti, Milo De Angelis, Enzo Di Mauro, Luigi Forte, Marco Forti, Nicola Gardini, Bruno Gentili, Cesare Greppi, Tony Harrison, Seamus Heaney, Giovanna Ioli, Barbara Lanati, Franco Loi, Angelo Lumelli, Lucio Mariani, Predrag Matvejevic, Paul Muldoon, Daniele Piccini, Marina Pizzi, Giancarlo Pontiggia, Roberto Rossi Precerutti, Silvio Ramat, Mario Richter, Jacqueline Risset, Ezio Savino, Maria Luisa Spaziani, Tomas Tranströmer, Derek Walcott, Charles Wright, Adam Zagajewski
Redazione:
Stefano Calvi, Luigi Gargano, Corrado Peligra, Antonello Satta Centanin, Fabio Simonelli
Redazione negli Stati Uniti:
Paolo Valesio: Columbia University Department of Italian 508 Hamilton Hall, MC 2827
1130 Amsterdam Avenue - New York - N.Y. 10027 U.S.A.
Redazione in Gran Bretagna:
Nicola Gardini: Saint Cross College Oxford University - Saint Giles OX1 3LZ Oxford - Regno Unito
Direttore responsabile: Nicola Crocetti
Vice direttore: Angela Urbano
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Redazione:
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Redazione negli Stati Uniti:
Paolo Valesio: Columbia University Department of Italian 508 Hamilton Hall, MC 2827
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Redazione in Gran Bretagna:
Nicola Gardini: Saint Cross College Oxford University - Saint Giles OX1 3LZ Oxford - Regno Unito
Il libro del giorno: Donato Valli, Chiamami maestro. Vita e scrittura con Girolamo Comi (Manni editore)
Ci sono, in queste pagine, un maestro e un discepolo che diventa maestro. Attraverso il diario inedito di Girolamo Comi, fedelmente trascritto, Donato Valli rievoca lunghi anni da cui emergono nitide la figura del poeta che in tempi bui rapportava il Salento alla cultura italiana, e la storia di una generosa amicizia intellettuale.
Donato Valli - Dal 1951, quando iniziò su “L’Albero” di Comi, scrive di letteratura.
casa editrice Manni: http://www.mannieditori.it/index_x.asp
"Come una confessione, come un omaggio sentito e commosso, come una lettera “pubblica” al proprio maestro, il testo di Donato Valli ritrae Girolamo Comi in tutta la sua forza: “Quel che m’innamorava m’innamora”, scriveva quest’ultimo negli anni della vecchiaia, eterno fanciullo e poeta".
di Alessandra Guareschi
da QuiSalento, maggio 2009, p. 52
Donato Valli, Chiamami maestro. Vita e scrittura con Girolamo Comi
104 pagine - € 13,00 - ISBN: 978-88-6266-128-7
Donato Valli - Dal 1951, quando iniziò su “L’Albero” di Comi, scrive di letteratura.
casa editrice Manni: http://www.mannieditori.it/index_x.asp
"Come una confessione, come un omaggio sentito e commosso, come una lettera “pubblica” al proprio maestro, il testo di Donato Valli ritrae Girolamo Comi in tutta la sua forza: “Quel che m’innamorava m’innamora”, scriveva quest’ultimo negli anni della vecchiaia, eterno fanciullo e poeta".
di Alessandra Guareschi
da QuiSalento, maggio 2009, p. 52
Donato Valli, Chiamami maestro. Vita e scrittura con Girolamo Comi
104 pagine - € 13,00 - ISBN: 978-88-6266-128-7
giovedì 7 maggio 2009
Le novità di Hacca edizioni per maggio/giugno 2009
In libreria dal 20 Maggio
Luca Canali, L’interdetto, 208 pagine, 14,00 euro
Il libro
Questo romanzo inizia come un “giallo”, ma è una finta partenza. Siccome “tedio e orrore” sono più forti dei misteriosi incastri della narrazione di mistero, nel volgere di poche pagine scopriamo che i personaggi de L’interdetto credono poco alla consolazione delle tattiche difensive e alle mascherate di genere, e subito si presentano per quello che sono: personaggi fragili, in procinto di cadere, anime vulnerabili, finanche strambe.
Un commissario, Strina, prima di cadere rovinosamente nel Purgatorio della malattia e della pensione, è turbato da quattro inquietanti denunce. Fatti di rilevanza penale, apparentemente senza clangore: lettere minatorie, danni patrimoniali, vendette. Strina è turbato, perché sente, con fiuto animalesco, l’odore della resa dei conti. Anche il suo più stretto collaboratore, Esposito, più accomodante e meno crucciato, sente lo stesso odore: l’odore della fine. Ma cosa disintegra in profondità i vecchi equilibri di un tranquillo quartiere cittadino, basato su menzogne taciute e cattiverie mal trattenute?
Il segreto di questa disintegrazione morale è nelle mani di un “grande vecchio”, il Professor Nullian, affascinante studioso amante degli animali, scrittore famoso che vive quasi come un clochard, e che difende gli innocenti animali con piglio integralista, facendone una questione di primaria importanza. Sarà lui, con la sua bizzarra vitalità, a muovere i fili dei crolli a catena, e, se vogliamo, a suggerire una possibile purificazione dai tanti “mali oscuri” della realtà che lo circonda. Nonostante qualcuno riesca a interdire questo vecchio genio, ugualmente sarà lui, con la sua intelligenza, a suggerire i destini dei personaggi di questa storia. Perché L’interdetto, pur essendo un’amara riflessione sul male, sull’ipocrisia, sulla corruzione e sulla “malattia chiamata uomo”, si configura come uno dei pochissimi romanzi in cui ai vecchi è dato in sorte il potere di essere suscitatori di destino, divenendo burattinai dello smascheramento esistenziale. E questo dato è confermato dalla lingua lucida e limpida di Canali, uno scrittore che ha portato luce in ogni interstizio delle sue storie, che pure, sempre, sorgono dal buio.
L'autore
Luca Canali (Roma 1925).
Dopo tredici anni (1945-58) di intensa attività nell’organizzazione di base del partito comunista, e ventidue anni di insegnamento e ricerca nell’Università di Roma (assistente prima di Natalino Spegno, poi di Ettore Paratore), consegue la cattedra di Lingua e Letteratura latina nell’università di Pisa. In pensione anticipata per motivi di salute, si dedica alla saggistica, alla poesia e alla narrativa. Vasta la sua attività di traduttore: tutto Virgilio, Lucrezio, Catullo, Orazio, gli Elegiaci e Petronio.
È stato redattore del “Contemporaneo”, ha collaborato con “Il Verri” di Luciano Anceschi, “Paragone” di Anna Banti e Roberto Longhi. Ha pubblicato saggi, fra i quali Personalità e stile di Giulio Cesare, Sesso e violenza nell’antica Roma, Il sangue dei Gracchi. Nel 1981 esce il suo primo e più noto romanzo Autobiografia di un baro (Bompiani), cui seguono, tra gli altri, Nei pleniluni sereni (Longanesi) L’uomo che non stava al gioco (Piemme) L’innocenza dei colpevoli (Manni).
In libreria dal 10 Giugno
Turi Vasile, L’ombra, 130 pagine, 13,00 euro
Il libro
Questi racconti di Turi Vasile sono scritti in piena luce. Il vecchio io autobiografico de L’ombra torna a essere, per le misteriose metamorfosi del destino umano, un bambino ammalato di nostomanìa, abbacinato nell’eden di una Messina che risorge, come l’Araba fenice, dalle sue ceneri. Non c’è scrittore in Italia altrettanto disarmato. E la mano di Vasile, nel mentre scrive, anziché chiudersi, si apre, mostrando ogni linea, ogni vena. Non ci sono segreti, in questi racconti; e anche la vita fuggitiva, e il mistero della morte e del dolore, sono accettati con bonomia, con lacrime di bambino con la faccia di vecchio.
I racconti di Vasile sono aperti come un ventaglio. Tutto vi è detto con pudore e sincerità: la disperazione per la moglie Silvana, chiusa nella torre della malattia; l’affanno degli anni, che hanno perso la giovanile dispnea causata dalla “lissa”, e hanno trovato l’altra dispnea, quella di chi ha il cuore malato; i tanti ricordi che risorgono intatti da un luogo che non esiste, se non nell’anima. Con questo memoriale lirico, Turi Vasile scrive uno dei suoi libri più commoventi. E, nonostante in uno dei racconti più belli di questa raccolta un uomo perda la propria ombra, solo alla fine quest’uomo capirà che, senza la propria ombra, si muore davvero. L’ombra è su di noi, e dobbiamo portarla dietro come un doppio siamese. Sono pochi gli scrittori che sanno “dialogare con le ombre” come Vasile – e, sempre, anche i morti sembrano vivi, nei suoi racconti. Aleggia sull’opera e sulla vita di Vasile un nuovo mito, quello di Margite, colui che sapeva fare tutto, ma tutto faceva male. Senza grancasse e senza sociologia – sorretto soltanto da una lingua tersa e immediata, da un’attitudine al sogno che lo pone al fianco dei grandi lirici greci, e da un’attenzione al quotidiano miracolosa, e all’epifanico dettaglio minimo – Vasile si riconferma uno dei nostri grandi scrittori – smentendo Margite – proprio perché mai prima s’era vista così tanta luce nella disperazione, sia pur sorretta dall’esistenza di un Dio muto che, in quanto essere pensabile, solo per questo non potrà non dare senso a tutto l’incomprensibile dolore del genere umano.
L’autore
Turi Vasile (Messina, 1922), regista, produttore e scrittore, ha pubblicato, tra le altre cose: Paura del vento e altri racconti (Sellerio, 1987), Un villano a Cinecittà (Sellerio, 1993), L'ultima sigaretta (Sellerio, 1996), Male non fare (Sellerio, 1997), Il ponte sullo stretto (Sellerio, 1999), La valigia di fibra (Sellerio, 2002), Morgana (Avagliano editore, 2007), Silvana (Avagliano editore, 2008).
In libreria dal 25 Giugno
Felice Piemontese, Fantasmi vesuviani, 100 pagine, 10,00 euro
Il libro
Fantasmi vesuviani è un memoriale importantissimo sulla cultura a Napoli. Un memoriale scritto con in corpo il vaccino vivo de Il silenzio della ragione di Anna Maria Ortese, il racconto più crudele sulla disperata e compiaciuta autoreferenzialità degli scrittori napoletani.
Felice Piemontese, con la sua drammatica percezione del disastro e dell’oblio, chiama a raccolta, in un libro che non è testamento soltanto in virtù di una totale assenza di solennità retorica, tutti i protagonisti e le comparse della cultura napoletana dagli anni Sessanta agli anni Novanta del secolo scorso. Ecco sfilare uno per volta artisti, galleristi, giornalisti, scrittori, militanti politici, scrittori stranieri, editori e librai di una Napoli che sempre prova ad aprirsi al mondo – a volte con genialità, a volte con goffaggine – ma che sempre sprofonda in se stessa, nella propria pigrizia, e nei propri vividi e infernali labirinti senza via d’uscita.
I “fantasmi” di questo libro sono Domenico Rea, Lucio Amelio, Franco Cavallo, Franco Capasso, Luciano Caruso, Giuseppe Recchia, Alberto Marotta, Fabrizia Ramondino, Nicola Pugliese, Mario Guida, Tullio Pironti, Roland Barthes, Jack Kerouac, Michele Prisco, Luigi Compagnone e tanti altri, mentre l’ultimo “fantasma”, il più vivo di tutti, è il troppo dimenticato Luigi Incoronato, il cui suicidio, nella formazione morale di Piemontese, ha probabilmente contato più della militanza politica e giornalistica, e dell’esperienza neoavanguradistica. Fantasmi vesuviani è un memoriale scritto con levità e “freddezza”; è un libro che affiora dall’inconscio obliato di Napoli; è una confessione in cui la nostalgia ha il collo strozzato, e cede il passo a una dura poesia radiografica, di pianto senza lacrime.
L’autore
È nato a Monte S. Angelo (FG) nel 1942, ma vive dal 1946 a Napoli, dove svolge attività di giornalista presso la RAI TV e critico letterario per il quotidiano «Il Mattino». Oltre che di poesia (lineare e verbovisuale) e saggistica, si occupa anche di narrativa, pubblicando i seguenti volumi: Là-bas (Geiger, Torino, 1971); MDZ (Colonnese, Napoli, 1972); Ancora della poesia visiva (Continuum, Napoli, 1973); Racconto (1975); Intorno a quelle macerie (Carte Segrete, Roma, 1981); Dopo l'avanguardia (Guida, Napoli, 1981); Da un'immensa distanza (narrativa, Shakespeare & Company, Roma, 1986); Epidemia (narrativa - Pironti, Napoli, 1989); Autodizionario degli scrittori italiani (saggistica, Leonardo, Milano, 1990); La città di Ys (Manni, 1996) e il romanzo Dottore in niente (Marsilio, 2002).
MINIMUM FAX ALLA FIERA DEL LIBRO DI TORINO 2009
SABATO 16 MAGGIO
Stand Il Circolo dei Lettori – Padiglione 3 - ore 18
APERITIVO CON ANTEPRIMA NAZIONALE
Gli autori, il curatore, gli editori di Anteprima nazionale
e Antonella Parigi, la direttrice del Circolo dei Lettori,
MINIMUM FAX ALLA FIERA DEL LIBRO DI TORINO
14-18 maggio 2009
Come tutti gli anni, Minimum Fax va in trasferta a Torino per l'annuale Fiera del Libro! Quest'anno la potete trovare allo stand J51 nel padiglione 2.
Ecco gli appuntamenti che la casa editrice presenta:
GIOVEDÌ 14 MAGGIO
Sala Blu - ore 17
L’Europa non fa più sconti.
La legge del libro all’estero
a cura di Instar Libri, Iperborea, Marcos y Marcos, minimum fax, Nottetempo e Voland in collaborazione con Goethe Institut di Torino e NLPVF Foundation for Production and Translation of Dutch Literature
Intervengono
Harry Kramer (Olanda)
Liana Levi (Francia)
André Schiffrin (USA)
Verena Sich (Germania)
Modera Marco Zapparoli (Marcos y Marcos)
SABATO 16 MAGGIO
Stand Il Circolo dei Lettori – Padiglione 3 - ore 18
APERITIVO CON ANTEPRIMA NAZIONALE
Gli autori, il curatore, gli editori di Anteprima nazionale
e Antonella Parigi, la direttrice del Circolo dei Lettori,
incontrano il pubblico. Per informazioni: www.circololettori.it
a seguire
Sala Gialla - ore 19
minimum fax, Italia 150 e Circolo dei Lettori
presentano:
Anteprima nazionale.
Immaginare l'Italia da qui a vent'anni
Intervengono
Tullio Avoledo, Alessandro Bergonzoni, Ascanio Celestini, Giorgio Falco, Giuseppe Genna, Tommaso Pincio, Giorgio Vasta
Modera Michele Serra
DOMENICA 17 MAGGIO
Sala Blu - ore 12
Fare satira tra Hollywood e Israele
Todd Hasak-Lowy
presenta
Prigionieri
Con l'autore intervengono Elena Loewenthal, Piero Negri Scaglione e Martina Testa
Stand Il Circolo dei Lettori – Padiglione 3 - ore 18
APERITIVO CON ANTEPRIMA NAZIONALE
Gli autori, il curatore, gli editori di Anteprima nazionale
e Antonella Parigi, la direttrice del Circolo dei Lettori,
MINIMUM FAX ALLA FIERA DEL LIBRO DI TORINO
14-18 maggio 2009
Come tutti gli anni, Minimum Fax va in trasferta a Torino per l'annuale Fiera del Libro! Quest'anno la potete trovare allo stand J51 nel padiglione 2.
Ecco gli appuntamenti che la casa editrice presenta:
GIOVEDÌ 14 MAGGIO
Sala Blu - ore 17
L’Europa non fa più sconti.
La legge del libro all’estero
a cura di Instar Libri, Iperborea, Marcos y Marcos, minimum fax, Nottetempo e Voland in collaborazione con Goethe Institut di Torino e NLPVF Foundation for Production and Translation of Dutch Literature
Intervengono
Harry Kramer (Olanda)
Liana Levi (Francia)
André Schiffrin (USA)
Verena Sich (Germania)
Modera Marco Zapparoli (Marcos y Marcos)
SABATO 16 MAGGIO
Stand Il Circolo dei Lettori – Padiglione 3 - ore 18
APERITIVO CON ANTEPRIMA NAZIONALE
Gli autori, il curatore, gli editori di Anteprima nazionale
e Antonella Parigi, la direttrice del Circolo dei Lettori,
incontrano il pubblico. Per informazioni: www.circololettori.it
a seguire
Sala Gialla - ore 19
minimum fax, Italia 150 e Circolo dei Lettori
presentano:
Anteprima nazionale.
Immaginare l'Italia da qui a vent'anni
Intervengono
Tullio Avoledo, Alessandro Bergonzoni, Ascanio Celestini, Giorgio Falco, Giuseppe Genna, Tommaso Pincio, Giorgio Vasta
Modera Michele Serra
DOMENICA 17 MAGGIO
Sala Blu - ore 12
Fare satira tra Hollywood e Israele
Todd Hasak-Lowy
presenta
Prigionieri
Con l'autore intervengono Elena Loewenthal, Piero Negri Scaglione e Martina Testa
Energy di Roberto Re e Roy Martina (Sperling e Kupfer)
Il fatto che viviamo in una società ipercomplessa, dove informazioni, codici, grammatiche, si intersecano su più piani, inevitabilmente ci porta sull’orlo del collasso. E non è un modo di dire, tutt’altro! Spesso le nostre vite sono alla deriva e non ce ne rendiamo conto, o meglio sviluppiamo una serie di àncore e di spazi di comfort ritagliati su misura, che ci mettono nella condizione di lasciarci accadere le cose, piuttosto che essere noi i protagonisti attivi e fattivi della nostra vita. Se dovessimo fare un bilancio quotidiano di quali settori trascuriamo o quali ambiti implementiamo con energia e volontà nelle nostre esistenze, senza alcun dubbio riusciremmo a scorgere delle lacune, talvolta piuttosto gravose che magari fanno schizzare al 100% l’impegno su lavoro e carriera, mentre famiglia, amici, relazioni stagnano ad un mediocre 1,5 o al massimo 2%. Con quale risultato? Che la percezione di noi stessi subisce un drastico impoverimento vuoi in autostima, che in capacità strettamente connesse alla reattività circa le inevitabili difficoltà che ogni giorno incontriamo. E allora è sempre necessario ricorrere a farmaci, o addirittura a pisco-farmaci, è necessario sentirsi ostaggio degli eventi, immaginarsi come un naufrago in balìa delle onde tanto da percepirsi come bisognosi di una terapia psicologica, è necessario sentirsi sconfitti ancor prima di aver cominciato la lotta per affermare di voler vivere una vita degna di essere vissuta? No, assolutamente no. Roberto Re e Roy Martina, due grandi coach, anzi due grandi life coach, nel loro libro dal titolo Energy edito da Sperling e Kupfer, forniscono a quanti si sentano pronti “ al salto” di qualità, una serie di consigli pratici, su una concreta base teorica e medica, per non solo allenarsi al benessere, ma anche ad auto-aiutarsi alla motivazione per raggiungere ottimi risultati. E dunque si passerà da alcuni metodi base di PNL (Programmazione Neuro Linguistica), la scienza creata da Richard Bandler un linguista statunitense, e John Grinder, che riguarda le applicazioni delle submodalità neurosoniche che esistono nelle personali esperienze sensoriali e le loro rappresentazioni interne, utilizzando la musica e il suono per creare specifici stati interiori, sino allo studio della programmazione della volontà attraverso il brain training della focalizzazione e visualizazione, sino a cenni riguardanti La Legge dell’Attrazione che Ronda Byrne ha esposto in The Secret. Da tempo studio autori come Joe Vitale, Fred Alan Wolf, Narciso Irala, Andrea Scarsi, Vincenzo Fanelli, Henri Borel per non parlare di Gurdjeff, Osho, Gopi Krishna, e Yogananda . Talvolta alcuni spunti di riflessione o indicazioni di metodi riguardanti la visualizzazione mi sembrano provenire da quell’area di studi, talaltra sembrano ricalcare anche percorsi di vera e propria meditazione trascendentale. Ma ben venga, nessun preconcetto in merito, anzi dopo aver letto questo libro sicuramente non solo vi sentirete meglio, ma capirete cosa significhi credere nei vostri obiettivi e provare la gioia di vederli realizzati con le sole vostre forze. Questo lavoro di Re e Martina, è realmente il libro che mancava nel panorama italiano dell’auto-aiuto. Parliamo di dodici strategie super sperimentate - dall'alimentazione alla gestione delle emozioni, dal sonno alla capacità di raggiungere gli obiettivi - per scoprire i nostri punti deboli e migliorare le nostre performance.
«Non è possibile limitarsi a mantenere la salute, dobbiamo garantirci qualcosa di più, imparare a essere vitali e pieni di energia! Le persone vitali hanno più potere personale, sono più estroverse, hanno un potenziale maggiore e sono capaci di realizzare molto di più. Ma come si può essere sempre al top in un mondo così caotico ? Leggere questo libro è il primo passo per trovare una fonte di energia inesauribile.» - ROY MARTINA
«Il mio contributo è quello di 'esperto della mente' e personal coach. Mi occuperò di farvi applicare gli insegnamenti di Roy nel modo più facile ed efficace possibile. Vi spiegherò come usare le risorse mentali ed emozionali a vostro vantaggio, come stimolare la vostra motivazione e usare la mente come acceleratore di risultati piuttosto che come freno.» ROBERTO RE
«Non è possibile limitarsi a mantenere la salute, dobbiamo garantirci qualcosa di più, imparare a essere vitali e pieni di energia! Le persone vitali hanno più potere personale, sono più estroverse, hanno un potenziale maggiore e sono capaci di realizzare molto di più. Ma come si può essere sempre al top in un mondo così caotico ? Leggere questo libro è il primo passo per trovare una fonte di energia inesauribile.» - ROY MARTINA
«Il mio contributo è quello di 'esperto della mente' e personal coach. Mi occuperò di farvi applicare gli insegnamenti di Roy nel modo più facile ed efficace possibile. Vi spiegherò come usare le risorse mentali ed emozionali a vostro vantaggio, come stimolare la vostra motivazione e usare la mente come acceleratore di risultati piuttosto che come freno.» ROBERTO RE
Il libro del giorno: 1969: storia di un favoloso anno rock. A cura di Riccardo Bertoncelli (Giunti)
Nella seconda metà degli anni '60 il rock prese forme originali e inaudite, uscendo dallo stretto ambito di musica leggera per farsi calamita dei tempi, sintesi potente di novità e modernità. Il 1969 fu l'anno culmine di questa mutazione sociale e culturale, con storie, dischi, concerti, festival che ancora restano a distanza di tanto tempo nell'immaginario collettivo. Vita e morte, inizio e fine, gioia e orrore, in un vertiginoso flusso di energia: l'estate di Woodstock e l'autunno cupo di Altamont, l'ultimo anno dei Beatles e la rinascita di Dylan, l'esplosione di Santana, lo scioglimento della Jimi Hendrix Experience, l'avvento di Crosby, Stills, Nash & Young, la morte di Brian Jones, la crisi dei Doors, l'anno in cui Miles Davis registra Bitches Brew e nei negozi escono Abbey Road, Let It Bleed, Ummagumma, In the Court of the Crimson King, Nashville Skyline, il primo Led Zeppelin. In quasi 300 illustratissime pagine la cronologia dettagliata dell'anno, le storie più importanti, i festival memorabili, i dischi che hanno cambiato il rock.
casa editrice Giunti: http://www.giunti.it/
" Nel 40° anniversario, il meglio della musica e di quanto avvenne. Con ricche illustrazioni"
Ilaria Bellantoni
da Max, maggio 2009, p.56
1969: storia di un favoloso anno rock. A cura di Riccardo Bertoncelli, Giunti, pp. 288
casa editrice Giunti: http://www.giunti.it/
" Nel 40° anniversario, il meglio della musica e di quanto avvenne. Con ricche illustrazioni"
Ilaria Bellantoni
da Max, maggio 2009, p.56
1969: storia di un favoloso anno rock. A cura di Riccardo Bertoncelli, Giunti, pp. 288
Domani diretta su Salento web tv con Loredana Capone, Adriana Poli Bortone, Antonio Gabellone
Venerdì 8 maggio, dalle 17:00, la politica corre in diretta su www.salentoweb.tv
Alle Officine cantelmo di Lecce i candidati alla presidenza della Provincia di Lecce si confronteranno con la associazioni studentesche e i cittadini sui temi dell'università, della ricerca e dell'innovazione tecnologica. Loredana Capone, Adriana Poli Bortone e Antonio Gabellone, per la prima volta sul web nella storia della politica salentina, discuteranno della loro idea di Provincia e risponderanno alle domande raccolte in rete o poste dal pubblico presente in sala.
Una produzione targata www.salentoweb.tv, la prima web tv del Salento.
Alle Officine cantelmo di Lecce i candidati alla presidenza della Provincia di Lecce si confronteranno con la associazioni studentesche e i cittadini sui temi dell'università, della ricerca e dell'innovazione tecnologica. Loredana Capone, Adriana Poli Bortone e Antonio Gabellone, per la prima volta sul web nella storia della politica salentina, discuteranno della loro idea di Provincia e risponderanno alle domande raccolte in rete o poste dal pubblico presente in sala.
Una produzione targata www.salentoweb.tv, la prima web tv del Salento.
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