«Una padronanza e un'originalità di scrittura rare in un autore agli esordi».
Giovanni Pacchiano, Il Sole 24 Ore
«Le sue frasi sono mirabolanti, le sue storie sono vive. Le pagine di questo scrittore pulsano».
Francesco Borgonovo, Libero
Figlio unico napoletano trapiantato a Roma, megalomane, assediato da una selva di nevrosi erotiche, bipolare come tutte le persone di talento nell'Italia contemporanea, Michele Botta ha la sua prima vera occasione per entrare nel mondo degli adulti: viene assunto da una giovane e dinamica società di produzione televisiva. Potrebbe essere l¹anno della svolta, e invece è qui che il suo equilibrio già precario finisce per sgretolarsi. Viene mollato dalla ragazza. Il rapporto con i genitori è un ginepraio di ostilità reciproche ormai arrivato al pettine. E l'emancipazione professionale è una fiction milionaria su un mitologico regista porno degli anni Ottanta, che forse non è mai esistito. Comico, caustico, eccessivo, irresistibile, La futura classe dirigente è l'attraversamento della linea d'ombra nell'era della demenzialità istituzionalizzata e della volgarità al potere. Ma anche l'analisi amara e impietosa di un paese attraverso la messa alla berlina della sua «santa trinità»: la famiglia, il sesso, la televisione.
Peppe Fiore (Napoli, 1981) vive e lavora a Roma. Ha pubblicato due raccolte di racconti, L’attesa di un figlio nella vita di un giovane padre, oggi (Coniglio Editore 2005) e Cagnanza e padronanza (Gaffi 2008).
mercoledì 20 maggio 2009
Start: h. 18.00
libreria Mondadori via Piave, 18 - Roma
con l'autore interviene Paolo Di Paolo
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mercoledì 6 maggio 2009
La futura classe dirigente di Peppe Fiore (Minimum Fax) alla Libreria Mondadori di via Piave a Roma
Angeli e demoni: il film, il libro
Angeli e demoni di Dan Brown, edito in italia da Mondadori, (39 milioni di copie vendute nel mondo), anche se è stato pubblicato successivamente a Il codice da Vinci, in realtà risale ad alcuni anni prima. Da questi due titoli sono stati tratti i due film omonimi, che hanno letteralmente sbancato i botteghini di mezzo mondo (alla regia Ron Hioward il pel di carota di Happy Days). Nel film di quest’anno, a giorni nelle sale cinematografiche italiane, pare che Tom Hanks, secondo fonti ANSA, abbia ricevuto un cachet record di 35 milioni di dollari. Robert Langdon, ordinario di simbologia mistica e religiosa ad Harvard, viene cooptato da Maximilian Kohler, direttore del CERN a Ginevra (Svizzera), per esprimere il suo parere su un ambigramma ritrovato sul cadavere di Leonardo Vetra, scienziato dell’istituto di chiara fama internazionale. Il professore di Harvard scoprirà che l'omicidio è stato commesso dagli Illuminati, una setta segreta occulta e fedele ai soli dogmi della ragione e della scienza, creduta non operativa da tempi immemorabili. Sul luogo del delitto giunge anche Vittoria Vetra, figlia adottiva dello scienziato, con cui stava lavorando ad un progetto segreto. La scienziata, dopo numerose insistenze, rivela a Langdon e al direttore dell’Istituto, la natura dei suoi studi: insieme al padre è riuscita a creare una quantità ingente di antimateria, una fonte di energia così potente da dover essere compattata in appositi contenitori creati da lei stessa. Ad un rapido inventario fatto nel magazzino dell’Istituto, scoprono che il contenitore contenente la quantità più grande di antimateria è stato trafugato dallo stesso assassino dello scienziato. Intanto nella Città del Vaticano con la morte del Pontefice, è stata subito disposta la riunione del conclave, per eleggere il nuovo vicario di Cristo in terra. Ma a poche ore dall'inizio dell'evento i quattro successori più “gettonati” al soglio pontificio risultato dispersi. Intanto una videocamera del circuito interno della sorveglianza vaticana, mostra un congegno misterioso legato ad un conto alla rovescia. Il congegno è il contenitore più grande dell'antimateria, trafugato nel magazzino del CERN. Langdon e la scienziata riescono ad incontrare il camerlengo Carlo Ventresca, la massima autorità della Chiesa Cattolica: spiegata la situazione al prelato, si ritrovano a dover fronteggiare un’inquietante emergenza: l'assassino in una chiamata telefonica al camerlengo, rivendica non solo il furto a nome degli Illuminati , ma annuncia di voler uccidere ognuno dei quattro cardinali allo scoccare di ogni ora, in una chiesa del cosiddetto Cammino dell'Illuminazione, il percorso iniziatico nascosto tra i monumenti di Roma che permetteva di entrare a far parte della setta. Tutto il resto è una vera e propria corsa contro il tempo a furia di colpi di scena da grande colossal d’azione, e ingegnosi trucchi enigmistici e simbologie simil-esoterico-occultistiche. Ora se ci si dovesse soffermare sulle indicazioni storiche citate nel libro e poi nel film, se si dovesse tentare di fare dei riscontri obiettivi sulle fonti utilizzate da Dan Brown nei suoi libri, si potrebbe con certezza affermare che in ambito di storia delle religioni, storia, e simbologia mistica e magica Dan Brown ne capisce meno di uno studente di Liceo. Tuttavia non posso negare che si tratta di due veri e propri capolavori, destinati ad essere dei long seller, e che bisogna leggere senza farsi troppe seghe mentali, o tentando di confutare le posizioni di Brown. I libri in questione vanno presi per quello che sono: puro, semplice, onesto, accattivante intrattenimento. Impensabile non averli nella propria biblioteca
Angeli e Demoni (il film) – regia di Ron Howard del 2009, con Tom Hanks, Ayelet Zurer, Ewan McGregor, Stellan Skarsgård, David Pasquesi, Cosimo Fusco, Armin Mueller-Stahl, Carmen Argenziano, Ursula Brooks, Pierfrancesco Favino. Prodotto in USA. Durata: 140 minuti. Distribuito in Italia da Sony Pictures Releasing Italia a partire dal 13.05.2009.
la Trama
Il professor Langdon è alle prese con l'indagine su un misterioso ed efferato omicidio che sembra essere collegato agli Illuminati, un'antica confraternita segreta che rappresenta anche la più potente organizzazione sotto copertura della storia. Per gli Illuminati il nemico più disprezzato da sempre è la Chiesa cattolica. Gli indizi portano Langdon a Roma, dove con l'aiuto della scienziata Vittoria Vetra, figlia della vittima, proverà a scongiurare il pericolo dell'esplosione di una bomba piazzata dagli Illuminati in Vaticano. Attraverso una caccia senza soste, Langdon e Vetra saranno chiamati a districarsi tra indizi risalenti a quattrocento anni prima, composti da una serie di simboli antichi che sembrano rappresentare l'unica speranza di sopravvivenza per la Chiesa
Il libro del giorno: La fantasia del reale. Esopo e la favola (Diabasis) a cura di Nicola S. Barbieri, Annamaria Contini
Accompagnata dai colorati quadri di Francesco Fontanesi, e dalle storiche incisioni che illustrano alcune delle più note favole di Esopo, il volume ne propone un'originalissima rilettura. Proprio per restituire unicità e importanza alla favola, il testo intreccia un dialogo a più voci con interventi di pedagogisti e di esperti di letteratura per l'infanzia. Il risultato è un percorso ricco e stimolante, che si interroga sul perché la favola sia oggi, nella letteratura per bambini, così marginalizzata. Contro gli stereotipi che sempre impoveriscono il senso, la ricerca qui condotta propone nuove e più articolate possibilità di significato della favola, dei suoi connotati "morali", e della sua originalità narrativa, sempre gradita ai bambini, anche a quelli di oggi nell'era di internet.
Nicola S. Barbieri, ricercatore in Storia della pedagogia, insegna presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Modena e Reggio Emilia. Si occupa di pedagogia statunitense, di storia dell'educazione fisica, di letteratura per l'infanzia (Andersen e Kipling). Tra i suoi volumi: Filosofia analitica dell'educazione e analisi del discorso pedagogico (2001), Dalla ginnastica antica allo sport contemporaneo (2002), Letteratura per l'infanzia (2008).
Annamaria Contini, ricercatrice in Estetica, insegna presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Modena e Reggio Emilia. Si è occupata dell'estetica otto-novecentesca e dei suoi rapporti con l'etica e la biologia. Attualmente, sta affrontando problemi che riconnettono la dimensione estetica a quella educativa. Fra i suoi lavori: La Biblioteca di Proust (1988), Jean-Marie Guyau. Estétique et philosophie de la vie (2001), Marcel Proust. Tempo, metafora, conoscenza (2006).
casa editrice Diabasis: http://www.diabasis.it/Database/diabasis/diabasis.nsf/
"La favola non conduce in un mondo incantato come fa la fiaba, ma può farci vedere in maniera diversa la realtà le cose, stimolando in noi e nei bambini una facoltà dicui oggi abbiamo tutti un grande bisogno: la fantasia del reale. Di questo si parla nel volume La fantasia del reale. Esopo e la favola curato per Diabasis da Nicola S. Barbieri e Annamaria Contini. Volume chenasce da una giornata di studi tenuta il 13 ottobr 2006 all'Università di Modena e Reggio Emilia, in cui ci si è avvicinati con molteplicità di sguardi a questo particolare genere letterario educativo"
Giuseppe Caliceti
da Il manifesto del 6/05/09 p. 12
La fantasia del reale. Esopo e la favola, a cura di Nicola S. Barbieri, Annnamaria Contini, Diabasis
Nicola S. Barbieri, ricercatore in Storia della pedagogia, insegna presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Modena e Reggio Emilia. Si occupa di pedagogia statunitense, di storia dell'educazione fisica, di letteratura per l'infanzia (Andersen e Kipling). Tra i suoi volumi: Filosofia analitica dell'educazione e analisi del discorso pedagogico (2001), Dalla ginnastica antica allo sport contemporaneo (2002), Letteratura per l'infanzia (2008).
Annamaria Contini, ricercatrice in Estetica, insegna presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell'Università di Modena e Reggio Emilia. Si è occupata dell'estetica otto-novecentesca e dei suoi rapporti con l'etica e la biologia. Attualmente, sta affrontando problemi che riconnettono la dimensione estetica a quella educativa. Fra i suoi lavori: La Biblioteca di Proust (1988), Jean-Marie Guyau. Estétique et philosophie de la vie (2001), Marcel Proust. Tempo, metafora, conoscenza (2006).
casa editrice Diabasis: http://www.diabasis.it/Database/diabasis/diabasis.nsf/
"La favola non conduce in un mondo incantato come fa la fiaba, ma può farci vedere in maniera diversa la realtà le cose, stimolando in noi e nei bambini una facoltà dicui oggi abbiamo tutti un grande bisogno: la fantasia del reale. Di questo si parla nel volume La fantasia del reale. Esopo e la favola curato per Diabasis da Nicola S. Barbieri e Annamaria Contini. Volume chenasce da una giornata di studi tenuta il 13 ottobr 2006 all'Università di Modena e Reggio Emilia, in cui ci si è avvicinati con molteplicità di sguardi a questo particolare genere letterario educativo"
Giuseppe Caliceti
da Il manifesto del 6/05/09 p. 12
La fantasia del reale. Esopo e la favola, a cura di Nicola S. Barbieri, Annnamaria Contini, Diabasis
Angelo Ricci, Notte di nebbia in pianura (Manni editore) alla Fiera del Libro di Torino 09
Come una fotografia che improvvisamente si anima, in uno spazio e in un tempo preciso, scorrono storie di vita in presa diretta con personaggi che agiscono e interagiscono in una disperata e desolata assenza di motivazioni, nel trionfo della banalità.
Sabato 16 Maggio 2009, alle ore 16, presso lo stand della Regione Puglia (Padiglione 2, J 158) parlerò di "Notte di nebbia in pianura" assieme a Giorgio Luzzi, poeta, narratore e critico letterario de "L'Indice".
Sabato 16 Maggio 2009, alle ore 16, presso lo stand della Regione Puglia (Padiglione 2, J 158) parlerò di "Notte di nebbia in pianura" assieme a Giorgio Luzzi, poeta, narratore e critico letterario de "L'Indice".
martedì 5 maggio 2009
IL SENTIERO DEL BOSCO INCANTATO di LUIGI PRUNETI (LA GAIA SCIENZA EDITRICE). REC. DI SILLA HICKS
Anni fa, prima che la mia vita finisse e cominciasse tutto questo, andammo al cinema a vedere 23, innocuo filmetto estivo confezionato su uno degli apparentemente più scarni racconti di Stephen “it” King.
Non c’è molto da dire sulla trama né sull’atmosfera allucinatoria, livida e claustrofobica, in cui Donnie Darko echeggia insieme a Spider (che è un compitino, ok, ma del mio adorato Cronenberg) e persino al telefilm Numbers: ruota tutto attorno a questo numero, il 23, che il protagonista trova praticamente ovunque, una persecuzione onnipresente cui non riesce a sfuggire.
Apparentemente, niente di che: eppure, nei giorni successivi, cominciai anch’io a notare il susseguirsi di 23 nelle cose più banali della mia, di vita: d’un tratto, era come se fosse davvero ovunque, nelle cifre – sommate a due a due- della targa della mia motrice, in quelle – moltiplicate per due, prima di sommarle a tre a tre - della mia patente, persino nelle date –opportunamente elaborate -che mi significavano qualcosa.
Senza volerlo, mi stavo convincendo che questo numero incombesse davvero –opportunamente mimetizzato - sul mondo: ormai certo che non fosse possibile che la frequenza con cui si presentava a tradimento fosse casuale, telefonai addirittura a mia sorella, che è un matematico, per cercare nella sua amicizia coi numeri primi un qualche sostegno alle mie ipotesi.
Era la prima volta – ed è stata anche l’ultima – in cui i suoi numeri dialogavano con me: voglio dire, io i compiti di matematica, a scuola, li copiavo. So a stento le tabelline e i giochi tipo sudoku hanno per me lo stesso grado di difficoltà della scalata dell’Annapurna, ma ero così preso dalle mie indagini sulla presenza del 23 da pensarci di continuo, di ricavarlo persino dalle cifre del prezzo del gasolio in autogrill, o dalla partita IVA sullo scontrino del caffè, arrivando a moltiplicare le soste per cercare conferme.
Gentilmente, Ilaria non rise. Aspettò che finissi, e mi dimostrò, in due parole, che qualsiasi numero può sembrare onnipresente se siamo noi a cercarlo, perché, di fatto, scomponiamo le cifre di tutto quello che troviamo fino a che non lo scoviamo, utilizzando qualsiasi espediente per costruire l’algoritmo necessario con tutti i mezzi a disposizione: e tanto più ci convinciamo, quanto più il gioco diventa facile, perché è la nostra mente a continuare a giocare, di nascosto, e a servirci il risultato ammantato di meraviglia, anche, affinché possiamo restare al sicuro, aggrappati alla nostra teoria, che pure non ha altro fondamento che quello che noi abbiamo deciso di darle.
Fu così che la mia liaison con il numero 23 finì bruscamente, e con essa ogni mia velleità di vedere nei numeri altro che prezzi o limiti di velocità. Non capirò mai niente di matematica.
Ma da quei giorni mi è rimasto l’insegnamento a partire dall’ipotesi, senza manipolarla per potersi scegliere il finale.
Fatti i debiti distinguo, mi sembra che la rilettura in chiave esoterica di miti, leggende, letteratura e fumetti abbia molto in comune con la mia ricerca di allora del numero 23 nella quotidianità della mia vita.
Voglio dire: molto di quello che l’uomo produce con le parole ha sicuramente a che fare con la sua evoluzione, e ogni progresso viene fuori da un percorso.
Esistono generi interi che parlano di questo, dal bildungroman, che significa letteralmente racconto di formazione, a Siddharta.
Tutto è cammino, tutto è ricerca. Di cosa, poi, questo sì che è vario.
Diventare adulti è un percorso di iniziazione: nella foresta per Kunta Kinte, sulle autostrade per me e altri, attraverso i tre regni dell’aldilà per Dante, le 7 fatiche per Ercole e qualche mese in una caserma-anticamera dell’inferno del Vietnam per i ragazzi di Full Metal Jacket.
Qualsiasi sia l’ambientazione, la sostanza non cambia: affrontando le necessarie prove si diventa grandi, e si conquista il diritto a sedere a tavola con gli adulti.
O a far parte di un gruppo, perché si è superato il test d’ingresso: questo vale per le confraternite universitarie, per il Rotary, per la Yakuza, per il MENSA, e per ogni altro circolo chiuso, che selezioni i suoi membri in base a qualche caratteristica che li renda “speciali”e quindi degni di farne parte.
Che caratteristica sia, ancora, questo sì che varia.
Nell’epoca antica, il mondo degli dei e degli eroi, erano il coraggio e la forza fisica ad avere valore.
Oggi come oggi, che un AK47 uccide uguale, anche nelle mani innocentemente incoscienti di un bambino di sei anni, ovviamente le regole di ingaggio sono cambiate. Ma la sostanza, quella no: tutti credono di essere unici, di avere qualcosa che li renda migliori di altri. I circoli non sono che espressione di questo. Quelli magici, in particolare.
È quantomeno consolatorio cercare rifugio nell’immateriale, per riscattarsi da una vita concretamente grigia (che ci sia qualcuno che ci specula, è un discorso a parte), e in fondo non è cosa diversa che trasformarsi in avatar su second life: in un caso e nell’altro, si esce da questa dimensione. Che sia l’unica che io credo esista, questo è un problema mio.
Ma arrivare a vedere simboli esoterici in tutto o quasi quello che è stato scritto o disegnato finora, è davvero come il mio cercare il numero 23 negli scontrini degli autogrill: è voler scovare, a tutti i costi, quello che cerchiamo.
Sicuramente esistono autori che hanno usato simbologie esoteriche, ma perché appartenevano al loro background, alla loro epoca e al loro modo immaginifico di raccontare. Ciascuno di noi scrive per i libri che ha letto e i film che ha visto, ha un suo Pantheon, e lo tiene per la mano.
Pentacoli, rosacroce, …tutto può starci, ma addirittura vedere nei guantoni del primo Mickey Mouse un riferimento subliminale alla massoneria vi prego no, e giù le mani dai Puffi, che siano metafora del mondo ok, ma il Grande Puffo –Gran Maestro per via del cappello rosso è davvero come il 23 nascosto nel mio codice fiscale.
Preferisco continuare a pensare che questi gnometti blu, un po’ folletti, un po’ condominio di ringhiera siano solo quello che sembrano, un fumetto/cartone animato per bambini, con il solito schema dei buoni che vincono e del cattivo che resta beffato, il pasticcione Gargamella che più che un alchimista è un maghetto da strapazzo, perfino simpatico per tutte le bastonate che sistematicamente prende: se proprio vogliamo trovarci un substrato ideologico, il villaggio dei Puffi è un’edulcorata Utòpia, il comunismo della città del sole in salsa mcdonald, le punte smussate per non ferire nessuno.
Ma basta così, niente cosmologia agnostica né altre tortuose interpretazioni che assomigliano a sciarade per iniziati, e intendo l’ultimo termine nel senso di gente abituata a riconoscerle, magari perché compra ogni mercoledì la settimana enigmistica.
Il senso del Codice Da Vinci è l’amore feroce di un figlio per il padre che si è scelto, ed è lo stesso del Frankestein della Shelley, che piange sulla zattera per quel padre che non gli ha mai dato un nome.
Il resto, il criptex, il collage di cadaveri, Maddalena e Gesù e la chiave di volta, la vita dopo la morte, sono contorno, attirano i curiosi e fanno vendere, va bene, ma non è quello il vero mistero.
L’unica simbologia, per quanto faccia male, resta la disperazione del rifiuto, del diverso troppo bianco o troppo pieno di cicatrici, del suo cuore che grida l’urgenza di un abbraccio che nessuno ha il coraggio di dargli, del suo pianto che nessuno ha voglia né tempo di ascoltare.
Bisogna essere iniziati davvero (alla tragedia della specie umana) per sentirlo, attraverso il rumore dei simboli del niente, della fuga, dei giochi di lettere e numeri e carte.
Ma una volta che ci si riesce, è fatta.
Perché si resta capaci di sentirlo. E si smette di avere paura.
(IL SENTIERO DEL BOSCO INCANTATO – APPUNTI SULL’ESOTERICO NELLA LETTERATURA. LUIGI PRUNETI, LA GAIA SCIENZA EDITRICE, 2009, BARI) - LA LEZIONE 23
Non c’è molto da dire sulla trama né sull’atmosfera allucinatoria, livida e claustrofobica, in cui Donnie Darko echeggia insieme a Spider (che è un compitino, ok, ma del mio adorato Cronenberg) e persino al telefilm Numbers: ruota tutto attorno a questo numero, il 23, che il protagonista trova praticamente ovunque, una persecuzione onnipresente cui non riesce a sfuggire.
Apparentemente, niente di che: eppure, nei giorni successivi, cominciai anch’io a notare il susseguirsi di 23 nelle cose più banali della mia, di vita: d’un tratto, era come se fosse davvero ovunque, nelle cifre – sommate a due a due- della targa della mia motrice, in quelle – moltiplicate per due, prima di sommarle a tre a tre - della mia patente, persino nelle date –opportunamente elaborate -che mi significavano qualcosa.
Senza volerlo, mi stavo convincendo che questo numero incombesse davvero –opportunamente mimetizzato - sul mondo: ormai certo che non fosse possibile che la frequenza con cui si presentava a tradimento fosse casuale, telefonai addirittura a mia sorella, che è un matematico, per cercare nella sua amicizia coi numeri primi un qualche sostegno alle mie ipotesi.
Era la prima volta – ed è stata anche l’ultima – in cui i suoi numeri dialogavano con me: voglio dire, io i compiti di matematica, a scuola, li copiavo. So a stento le tabelline e i giochi tipo sudoku hanno per me lo stesso grado di difficoltà della scalata dell’Annapurna, ma ero così preso dalle mie indagini sulla presenza del 23 da pensarci di continuo, di ricavarlo persino dalle cifre del prezzo del gasolio in autogrill, o dalla partita IVA sullo scontrino del caffè, arrivando a moltiplicare le soste per cercare conferme.
Gentilmente, Ilaria non rise. Aspettò che finissi, e mi dimostrò, in due parole, che qualsiasi numero può sembrare onnipresente se siamo noi a cercarlo, perché, di fatto, scomponiamo le cifre di tutto quello che troviamo fino a che non lo scoviamo, utilizzando qualsiasi espediente per costruire l’algoritmo necessario con tutti i mezzi a disposizione: e tanto più ci convinciamo, quanto più il gioco diventa facile, perché è la nostra mente a continuare a giocare, di nascosto, e a servirci il risultato ammantato di meraviglia, anche, affinché possiamo restare al sicuro, aggrappati alla nostra teoria, che pure non ha altro fondamento che quello che noi abbiamo deciso di darle.
Fu così che la mia liaison con il numero 23 finì bruscamente, e con essa ogni mia velleità di vedere nei numeri altro che prezzi o limiti di velocità. Non capirò mai niente di matematica.
Ma da quei giorni mi è rimasto l’insegnamento a partire dall’ipotesi, senza manipolarla per potersi scegliere il finale.
Fatti i debiti distinguo, mi sembra che la rilettura in chiave esoterica di miti, leggende, letteratura e fumetti abbia molto in comune con la mia ricerca di allora del numero 23 nella quotidianità della mia vita.
Voglio dire: molto di quello che l’uomo produce con le parole ha sicuramente a che fare con la sua evoluzione, e ogni progresso viene fuori da un percorso.
Esistono generi interi che parlano di questo, dal bildungroman, che significa letteralmente racconto di formazione, a Siddharta.
Tutto è cammino, tutto è ricerca. Di cosa, poi, questo sì che è vario.
Diventare adulti è un percorso di iniziazione: nella foresta per Kunta Kinte, sulle autostrade per me e altri, attraverso i tre regni dell’aldilà per Dante, le 7 fatiche per Ercole e qualche mese in una caserma-anticamera dell’inferno del Vietnam per i ragazzi di Full Metal Jacket.
Qualsiasi sia l’ambientazione, la sostanza non cambia: affrontando le necessarie prove si diventa grandi, e si conquista il diritto a sedere a tavola con gli adulti.
O a far parte di un gruppo, perché si è superato il test d’ingresso: questo vale per le confraternite universitarie, per il Rotary, per la Yakuza, per il MENSA, e per ogni altro circolo chiuso, che selezioni i suoi membri in base a qualche caratteristica che li renda “speciali”e quindi degni di farne parte.
Che caratteristica sia, ancora, questo sì che varia.
Nell’epoca antica, il mondo degli dei e degli eroi, erano il coraggio e la forza fisica ad avere valore.
Oggi come oggi, che un AK47 uccide uguale, anche nelle mani innocentemente incoscienti di un bambino di sei anni, ovviamente le regole di ingaggio sono cambiate. Ma la sostanza, quella no: tutti credono di essere unici, di avere qualcosa che li renda migliori di altri. I circoli non sono che espressione di questo. Quelli magici, in particolare.
È quantomeno consolatorio cercare rifugio nell’immateriale, per riscattarsi da una vita concretamente grigia (che ci sia qualcuno che ci specula, è un discorso a parte), e in fondo non è cosa diversa che trasformarsi in avatar su second life: in un caso e nell’altro, si esce da questa dimensione. Che sia l’unica che io credo esista, questo è un problema mio.
Ma arrivare a vedere simboli esoterici in tutto o quasi quello che è stato scritto o disegnato finora, è davvero come il mio cercare il numero 23 negli scontrini degli autogrill: è voler scovare, a tutti i costi, quello che cerchiamo.
Sicuramente esistono autori che hanno usato simbologie esoteriche, ma perché appartenevano al loro background, alla loro epoca e al loro modo immaginifico di raccontare. Ciascuno di noi scrive per i libri che ha letto e i film che ha visto, ha un suo Pantheon, e lo tiene per la mano.
Pentacoli, rosacroce, …tutto può starci, ma addirittura vedere nei guantoni del primo Mickey Mouse un riferimento subliminale alla massoneria vi prego no, e giù le mani dai Puffi, che siano metafora del mondo ok, ma il Grande Puffo –Gran Maestro per via del cappello rosso è davvero come il 23 nascosto nel mio codice fiscale.
Preferisco continuare a pensare che questi gnometti blu, un po’ folletti, un po’ condominio di ringhiera siano solo quello che sembrano, un fumetto/cartone animato per bambini, con il solito schema dei buoni che vincono e del cattivo che resta beffato, il pasticcione Gargamella che più che un alchimista è un maghetto da strapazzo, perfino simpatico per tutte le bastonate che sistematicamente prende: se proprio vogliamo trovarci un substrato ideologico, il villaggio dei Puffi è un’edulcorata Utòpia, il comunismo della città del sole in salsa mcdonald, le punte smussate per non ferire nessuno.
Ma basta così, niente cosmologia agnostica né altre tortuose interpretazioni che assomigliano a sciarade per iniziati, e intendo l’ultimo termine nel senso di gente abituata a riconoscerle, magari perché compra ogni mercoledì la settimana enigmistica.
Il senso del Codice Da Vinci è l’amore feroce di un figlio per il padre che si è scelto, ed è lo stesso del Frankestein della Shelley, che piange sulla zattera per quel padre che non gli ha mai dato un nome.
Il resto, il criptex, il collage di cadaveri, Maddalena e Gesù e la chiave di volta, la vita dopo la morte, sono contorno, attirano i curiosi e fanno vendere, va bene, ma non è quello il vero mistero.
L’unica simbologia, per quanto faccia male, resta la disperazione del rifiuto, del diverso troppo bianco o troppo pieno di cicatrici, del suo cuore che grida l’urgenza di un abbraccio che nessuno ha il coraggio di dargli, del suo pianto che nessuno ha voglia né tempo di ascoltare.
Bisogna essere iniziati davvero (alla tragedia della specie umana) per sentirlo, attraverso il rumore dei simboli del niente, della fuga, dei giochi di lettere e numeri e carte.
Ma una volta che ci si riesce, è fatta.
Perché si resta capaci di sentirlo. E si smette di avere paura.
(IL SENTIERO DEL BOSCO INCANTATO – APPUNTI SULL’ESOTERICO NELLA LETTERATURA. LUIGI PRUNETI, LA GAIA SCIENZA EDITRICE, 2009, BARI) - LA LEZIONE 23
Piante Carnivore di Giuseppe Petrilli
Giuseppe Petrilli dipinge la passione perché è la passione che lo spinge a dipingere.
Una passione irrefrenabile, quasi dolorosa. Qualcosa che inebria i sensi e coinvolge la testa e il cuore. Giuseppe Petrilli dipinge le donne con pennellate sensoriali che attraversano la tela e toccano le corde del desiderio. L’erotismo trasuda dalle sue illustrazioni attraverso particolari che catalizzano la mente. Labbra rosse, occhi graffianti, piedi fasciati da calze velate o avvolti in scarpe dal tacco altissimo, una posa provocante che lascia intuire un gioco di seduzione. E così i dettagli scatenano l’immaginario sibaritico acceso dall’uso magistrale del colore. Colore violento, mai scontato che si abbina spesso a un bianco e nero elegante e accende i particolari in una danza sensuale, così come accende gli sfondi creando inquadrature fotografiche, citazioni cinematografiche.
Se l’arte di Giuseppe Petrilli fosse un film sarebbe pulp come quelli di Tarantino, ammaliante violenza visiva da togliere il fiato. Se fosse un libro sarebbe scritto da Kerouac, magari al ritmo di un blues. Lo stesso blues che suona questo artista versatile e provocatorio. Musica ispirata dal diavolo blu, direttamente dalle emozioni.
Ma nella sua arte c’è anche tanta ironia, voglia di vivere l’eros come sublimazione della gioia di vivere, curiosità che solletica i sensi. La formazione da autodidatta gli ha permesso di mantenere la freschezza e la curiosità tipiche di un’anima irrequieta. Un’anima nell’incessante ricerca di una vibrazione, di un colore, un segno, una forma. Lasciatevi trasportare.
Barbara Baraldi
http://www.myspace.com/occhidicristallo
Piante Carnivore di Giuseppe Petrilli
Da giovedì 14 maggio 2009 a domenica 14 giugno 2009
PIAZZA CASTELLO Cafè Restaurant
via N. Tondi, 33 - San Severo, Italy
Telefono: 0881600481
E-mail: info@petrilliartworx.it
Una passione irrefrenabile, quasi dolorosa. Qualcosa che inebria i sensi e coinvolge la testa e il cuore. Giuseppe Petrilli dipinge le donne con pennellate sensoriali che attraversano la tela e toccano le corde del desiderio. L’erotismo trasuda dalle sue illustrazioni attraverso particolari che catalizzano la mente. Labbra rosse, occhi graffianti, piedi fasciati da calze velate o avvolti in scarpe dal tacco altissimo, una posa provocante che lascia intuire un gioco di seduzione. E così i dettagli scatenano l’immaginario sibaritico acceso dall’uso magistrale del colore. Colore violento, mai scontato che si abbina spesso a un bianco e nero elegante e accende i particolari in una danza sensuale, così come accende gli sfondi creando inquadrature fotografiche, citazioni cinematografiche.
Se l’arte di Giuseppe Petrilli fosse un film sarebbe pulp come quelli di Tarantino, ammaliante violenza visiva da togliere il fiato. Se fosse un libro sarebbe scritto da Kerouac, magari al ritmo di un blues. Lo stesso blues che suona questo artista versatile e provocatorio. Musica ispirata dal diavolo blu, direttamente dalle emozioni.
Ma nella sua arte c’è anche tanta ironia, voglia di vivere l’eros come sublimazione della gioia di vivere, curiosità che solletica i sensi. La formazione da autodidatta gli ha permesso di mantenere la freschezza e la curiosità tipiche di un’anima irrequieta. Un’anima nell’incessante ricerca di una vibrazione, di un colore, un segno, una forma. Lasciatevi trasportare.
Barbara Baraldi
http://www.myspace.com/occhidicristallo
Piante Carnivore di Giuseppe Petrilli
Da giovedì 14 maggio 2009 a domenica 14 giugno 2009
PIAZZA CASTELLO Cafè Restaurant
via N. Tondi, 33 - San Severo, Italy
Telefono: 0881600481
E-mail: info@petrilliartworx.it
Il libro del giorno: JAMES FREY, Buongiorno Los Angeles (Tea)
Scrittore tra i più acclamati, controversi e originali dell’America di oggi, James Frey non ha scelto soltanto un personaggio o una storia per il suo primo romanzo, ha scelto un’intera città: El Pueblo de Nuestra Señora la Reina de Los Angeles de Porciúncula. Oggi, semplicemente, Los Angeles. Immane distesa di auto e individui, serbatoio infinito di illusioni e sogni infranti, immagine esplosa di una società, miraggio che si accende ogni giorno come un’insegna al neon, Los Angeles lancia il suo richiamo a tutte le anime perdute, perché vengano a consumare le loro storie nel suo abbraccio capiente. Come Amberton, il grande attore viziato, la cui passione segreta per ciò che non può avere potrebbe distruggergli la carriera; oppure Joe, il vecchio homeless alcolista e filosofo di Venice Beach, che per salvare una drogata rischia di morire nel gabinetto pubblico dove si è installato; o la coppia di giovani scappati da un buco di provincia dell’Ohio con duemila dollari e troppe cicatrici; o ancora Esperanza, che è americana perché sua madre l’ha partorita quindici metri dopo aver oltrepassato il confine messicano, e che per un solo momento di umiliazione rischia di perdere tutto. Frey li segue, ce li fa vedere da vicino e intanto allarga la nostra visuale ad altri personaggi e alla città, a perdita d’occhio, fino a che improvvisamente ci rendiamo conto di essere davanti a un Paese intero, a una cultura, a un momento storico.
casa editrice Tea: http://www.tealibri.it/index.asp
"Una tempesta di parole, un rapido susseguirsi di minuziosi e ripetitivi gesti quotidiani e improvvise esplosioni emotive. Un incantevole linguaggio parlato che fa a pezzi le strettoie della norma grammaticale"
Marco Philopat
da Xl di Repubblica, n. 45, 05/09, p. 183
JAMES FREY, Buongiorno Los Angeles
Trad. di B. Amato
Narrativa TEA - pp. 560;
A giorni in libreria
casa editrice Tea: http://www.tealibri.it/index.asp
"Una tempesta di parole, un rapido susseguirsi di minuziosi e ripetitivi gesti quotidiani e improvvise esplosioni emotive. Un incantevole linguaggio parlato che fa a pezzi le strettoie della norma grammaticale"
Marco Philopat
da Xl di Repubblica, n. 45, 05/09, p. 183
JAMES FREY, Buongiorno Los Angeles
Trad. di B. Amato
Narrativa TEA - pp. 560;
A giorni in libreria
lunedì 4 maggio 2009
ASTRID NIPPOLDT, BÖSE GEHÖLZE (Boschi Malvagi)
The Gallery Apart propone nella sua sede di via della Barchetta 11 l’ultimo lavoro di Astrid Nippoldt, una nuova serie di fotografie in bianco e nero dal titolo Boese Gehoelze (Boschi malvagi), cui si affiancano alcuni acquerelli e disegni a matita ispirati allo stesso tema. L’artista tedesca torna a Roma a distanza di tre anni dalla sua prima personale italiana, quando presentò la trilogia video “Grutas” presso la Fondazione Adriano Olivetti, successivamente esposta, fra l’altro, presso la Kunsthalle di Brema e nell’importante collettiva “Made in Germany” ospitata dallo Sprengel Museum, dalla Kestner Gesellschaft e dalla Kunstverein di Hannover.
Il progetto “Boschi malvagi” prende le mosse dall’osservazione dei fenomeni naturali del cinema e della fotografia. Il punto di partenza di Astrid Nippoldt è quel breve e delicato momento in cui la natura diventa protagonista principale. Le particolari condizioni di luce e la modulazione della prospettiva e del fuoco assegnano alla natura la funzione di schermo su cui proiettare visioni emotive e persino sopranaturali. Ciascuna immagine si carica di riflessi storici e culturali ed individua nel bosco il luogo dove collocare le proprie immagini interiori o dove ambientare scene di crimini. L’uso del bianco e nero esalta la neutralità scenografica del bosco che così si predispone ad accogliere storie prive di limiti narrativi proprio perché senza tempo. Gli acquerelli di Astrid Nippoldt, che spesso fanno da contrappunto ai lavori video e fotografici dell’artista, evocano già nella scelta della tecnica una leggerezza ed una capacità di astrazione dal contesto che risultano particolarmente adatti a commentare il versante fotografico del progetto Boschi malvagi.
MOSTRA: ASTRID NIPPOLDT, BÖSE GEHÖLZE (Boschi Malvagi)
LUOGO: The Gallery Apart – Via della Barchetta, 11 – 00186 Roma
INAUGURAZIONE: venerdì 8 maggio 2009 - ore 18,30
DURATA MOSTRA: 8 maggio – 10 luglio 2009 – mar/sab ore 16-20 e su appuntamento
INFORMAZIONI: tel/fax 06 68809863
info@thegalleryapart.it
www.thegalleryapart.it
Il progetto “Boschi malvagi” prende le mosse dall’osservazione dei fenomeni naturali del cinema e della fotografia. Il punto di partenza di Astrid Nippoldt è quel breve e delicato momento in cui la natura diventa protagonista principale. Le particolari condizioni di luce e la modulazione della prospettiva e del fuoco assegnano alla natura la funzione di schermo su cui proiettare visioni emotive e persino sopranaturali. Ciascuna immagine si carica di riflessi storici e culturali ed individua nel bosco il luogo dove collocare le proprie immagini interiori o dove ambientare scene di crimini. L’uso del bianco e nero esalta la neutralità scenografica del bosco che così si predispone ad accogliere storie prive di limiti narrativi proprio perché senza tempo. Gli acquerelli di Astrid Nippoldt, che spesso fanno da contrappunto ai lavori video e fotografici dell’artista, evocano già nella scelta della tecnica una leggerezza ed una capacità di astrazione dal contesto che risultano particolarmente adatti a commentare il versante fotografico del progetto Boschi malvagi.
MOSTRA: ASTRID NIPPOLDT, BÖSE GEHÖLZE (Boschi Malvagi)
LUOGO: The Gallery Apart – Via della Barchetta, 11 – 00186 Roma
INAUGURAZIONE: venerdì 8 maggio 2009 - ore 18,30
DURATA MOSTRA: 8 maggio – 10 luglio 2009 – mar/sab ore 16-20 e su appuntamento
INFORMAZIONI: tel/fax 06 68809863
info@thegalleryapart.it
www.thegalleryapart.it
Su John Fante. Intervento di Vito Antonio Conte
E... poi me ne sto in letargo per lunghi momenti. Mai quanto vorrei. Davvero. Come l'orso nella tana intanto che fuori l'inclemenza del tempo fa il suo. Così vorrei. Mi accontento di lunghi momenti. E faccio cose indicibili. E bellissime. Qualche tempo fa (questa posso dirla) ho rispolverato la mia (scarna) collezione di LP, vecchi vinili 33 giri, e tra questi: Teddy Pendergrass, Tiny Bradshaw, Randy Crawford, Count Basie, Jim Croce, Teddy Wilson, Paolo Conte, George Thorogood, Led Zeppelin e... King Crimson: “The Compact King Crimson”: un album doppio che raccoglie il meglio di questo gruppo e che allora non ho potuto ri-ascoltare perché il mio piatto-stereo l'avevo portato da tempo in campagna e, comunque, è (tutt'ora) privo di “puntina”... ho ordinato il CD dove ci sono i pezzi che amo di più: “In The Court Of The Crimson King”; adesso lo ascolto a go-go. Un'altra volta ho tirato giù tutti i libri della mia biblioteca: migliaia... In fine, ho ridisposto (secondo un ordine diverso da quello precedente) volume dopo volume nelle librerie fin quasi all'alba... Ogni tanto penso di liberarmi di ogni cosa. Talvolta l'ho fatto. Quella volta dei libri, pensavo: e se vendessi l'intera biblioteca al tizio romano di Ponte Milvio? Poi me ne sto in letargo per lunghi momenti, mai quanto vorrei. Alla lettera “effe” c'è ancora Fante, John Fante... Ho letto i libri di John ché me l'ha consigliato Charles. Posso leggere mille e mille poesie di altrettanti poeti, ma quando rileggo un solo verso di Bukowski, ogni volta, mi dico: questa è la poesia che amo di più. Il resto è tale. Residuo. Capite perché quando Bukowski dice che tra i pochi che val la pena di leggere c'è Fante, gli credo. Se Fante “circola” ancora è soprattutto merito di Hank (tra l'altro, lo ha citato in “Donne” e gli ha dedicato una raccolta di poesie). Di “Dago Red” (Einaudi, Stile Libero) ricordo (chissà perché) l'ultimo racconto, “Ave Maria”, e sul libro non c'è traccia del passaggio dei miei occhi e delle mie dita. D'altro sì. A pagina 231 di “Chiedi alla polvere” (Einaudi, Stile Libero) c'è scritto: “7 giugno '05, ore 13:59, se / qualcuno / parla / male / della / mia / poesia / c'è...”, che non so più perché l'ho scritto. A pagina 238 di “Aspetta primavera, Bandini” (Einaudi, Stile Libero) è annotata una data e un'ora: “23 agosto 2005, ore 10:50”. A pagina 228 di “La confraternita dell'uva” (Einaudi, Stile Libero), secondo altri “La confraternita del Chianti”, c'è soltanto una data annotata a matita: “2.9.2005”. A pagina 154 di “Sogni di Bunker Hill” (Einaudi, Stile Libero), con una biro a inchiostro azzurro, ho annotato, tutto a lettere: “è il quattro settembre duemilacinque, c'è un cielo nuvolo e triste, neppure un alito di vento, alle diciotto e trentasei il fumo della mia sigaretta ruba l'aria residua, la mia bmw ha problemi di carburazione (forse il ciclere di minimo?), il sudore appiccicato sul viso, più tardi a Sud (ancora), verso le Centopietre...”. Pagina 152 di “Full of Life” della Collana Tascabili di Fazi Editore era bianca: sopra c'ho scritto: “16.9.2005, John bella storia, sei (non eri) forte... davvero (...)”. A pagina 206 di “A Ovest di Roma” (Fazi Editore, Collana Tascabili), dopo l'ultimo rigo del romanzo (“Era l'alba quando tornammo a casa”), è scritto (sempre di mio pugno) “24.X.2006”. Nient'altro. Appena dopo l'inizio di questa primavera ho finito di leggere “Un Anno Terribile” (Fazi Editore, Collana Tascabili, pagine 142, € 7,74) e in nessuna pagina è annotato alcunché: dirò qualcosa adesso. Qualcosa in più delle -a dir poco- lapidarie notazioni sui libri su citati. Sempre meno di quanto hanno già notato Gianni Amelio, Emanuele Trevi, Vinicio Capossela, Niccolò Ammaniti, Domenico Starnone, Fernanda Pivano, Alessandro Baricco, Sandro Veronesi e altri ancora. Sempre meno. Ché, lo sapete, a parte tutto, mi piace sottrarre. Non vi dirò, quindi, che Fante è considerato tra i maggiori scrittori del Novecento americano, né che di lui e della sua scrittura si sono occupati, a diverso titolo, critici, artisti, scrittori e laureandi, i quali ultimi hanno speso la loro passione per le sue opere trasfondendola nelle loro tesi di laurea. Vi dirò, invece, di questo romanzo breve, inedito finché Fante è vissuto e pubblicato postumo per volere di sua moglie Joyce. Intanto c'è una bella copertina: “New Kids in the Neighborhood” (1967) di Norman Rockwell: tre ragazzi, due maschi e una femmina, davanti alla grossa ruota posteriore sinistra di un grande furgone (postale?) color avorio e, con loro, un cane seduto che rievoca un altro titolo fantiano: “Il mio cane Stupido”. Uno dei tre ragazzi è abbigliato da giocatore di baseball. E non è un caso. Tutta la storia di “Un anno terribile”, infatti, ruota intorno al diciassettenne Dom Molise e al suo Braccio mancino. Un ragazzo di umilissime origini che sogna di diventare un giocatore professionista di baseball, nonostante tutto il mondo, dal microcosmo in cui vive a quello che ancora ignora e che un giorno (sogna) non potrà fare a meno di parlare di lui tanto diventerà famoso, gli giri contro. Lo si comprende subito dall'incipit del romanzo: “Era duro, l'inverno del 1933. Quella sera, arrancando verso casa attraverso fiamme di gelo, con le dita dei piedi che mi bruciavano, le orecchie che andavano a fuoco, e la neve che mi turbinava intorno come un nugolo di suore furibonde, mi fermai di colpo. Era giunto il momento di tirare le somme. Con la pioggia o col sereno c'erano delle forze al mondo che cercavano di distruggermi” (mi ricorda qualcosa che non dirò per non citarmi addosso). Dom Molise è un lanciatore e non c'è avversità che possa distoglierlo dal sogno del baseball, non v'è umiliazione che possa ferirlo fino a far annichilire quel desiderio, non esiste condizione -per quanto miserrima- che possa far naufragare quell'illusione. Non il padre muratore disoccupato da mesi, non la madre ferita dall'assenza del marito, non la nonna e il suo dialetto abbruzzese sputato contro ogni cosa di quella giovane America, non i fratelli molto più concreti di lui, non la povertà amplificata dal tenore di vita del suo ricco miglior amico, non l'amore non corrisposto e irriso per Dorothy, non l'apparizione della Vergine Maria... “Il Braccio mi dava la forza di andare avanti, il mio dolce braccio sinistro, quello più vicino al cuore. La neve non poteva fargli male e il vento non poteva ferirlo perché lo tenevo ricoperto di Balsamo Sloan, una bottiglietta che avevo sempre in tasca. Ero intriso di quel fetore, a volte venivo mandato fuori dalla classe per andarmi a lavar via quell'acuto odore di pino, ma io uscivo a testa alta, senza vergogna, ben conscio del mio destino, corazzato contro i sogghigni dei ragazzi e i nasi tappati delle ragazze. Avevo un'andatura grandiosa in quei giorni, il portamento di un pistolero, la scioltezza del mancino classico, con la spalla sinistra leggermente calata, Il Braccio mollemente dondolante, come un serpente – il mio braccio, il mio benedetto, santo braccio che mi era stato dato da Dio, e se anche il Signore mi aveva creato figlio di un povero muratore, mi aveva però fatto un gran regalo quando aveva fissato sui cardini della clavicola quella centrifuga”. Questo libro (che Fante non volle pubblicare perché pur ritenendo il “materiale attraente” non stimava la storia “importante”), come tutti i libri di Fante, disvela un'altra parte della sua vita e, una volta ancora, l'odio-rancore-amore verso il padre e la sua famiglia d'origine. Questo libro è l'ennesima ricerca della storia di una saga famigliare, cui non è celata nessuna sfumatura, ma nel quale -anzi- si rinvengono pezzi che s'inseriscono perfettamente nel grande puzzle della scrittura di Fante e ne completano un'epopea. Chi vuol saperne di più della vita e della leggenda di John Fante legga (anche) la particolareggiata biografia scritta da Stephen Cooper “Una vita piena” (per i tipi di Marcos y Marcos, 2001, pagine 327, € 18,08). Adesso lascerei scorrere “I talk to the wind” ...poi me ne starei in letargo per lunghi momenti, mai quanto vorrei. Ma voglio dirvi un altro paio di cose: la prima: “e piansi per mio padre e tutti i padri, e anche per i figli, perché eravamo vivi in quell'epoca, per me stesso, perché sarei dovuto andare subito in California, e non avevo scelta, avrei dovuto farcela”. La seconda: mi accade, da un po' di tempo, di associare l'aggettivo “terrìbile” alle cose più importanti e più belle di questa esistenza e... non so cos'è (o, forse, sì); e chissà perché mi viene in mente che un giorno del 1980 Hank (Bukowski) andò a trovare John in ospedale (già minato dalla malattia che lo avrebbe progressivamente reso cieco, privato -per amputazione- delle gambe e portato altrove...) e (riferendosi a Camilla Lopez, splendido personaggio di “Chiedi alla polvere”) gli chiese: , Fante gli rispose: . Li vedo ancora ridere di gusto insieme. Circa tre anni dopo, l'otto maggio millenovecentottantatre, alle tre del meriggio, John si confuse con le rondini nel cielo che odorava di primavera. Qui, la primavera (ormai, mi dicono) porta soltanto rondoni. Io continuo a vedere le rondini.
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Il libro del giorno: Grotteschi e arabeschi di Vitaliano Trevisan (Einaudi)
Dall'incontro fra Vitaliano Trevisan e l'universo di Poe nasce uno sguardo limpidamente classico e insieme feroce, capace di narrare l'autentico orrore. Che si tratti di una famiglia oscena e di una madre moribonda che sa nascondere segreti - il più atroce dei quali solo al lettore sarà svelato - o di un uomo che vuol raschiare via dalla casa ogni traccia della donna che l'abitava, o del più spietato ritratto di artista italiano contemporaneo che possiate immaginare. In questo libro la lingua dello scrittore vicentino raggiunge un equilibrio e una originalità nuovi proprio mentre l'autore fa un salto all'indietro di due secoli e dichiara di ispirarsi al maestro del racconto: Edgar Allan Poe.
casa editrice Einaudi: www.einaudi.it
" (...) una scrittura davvero straordinaria, in cui periodi brevi e brevissimi si alternano ad altri ricchi di subordinate, l'invettiva si sposa con i toni pacati e riflessivi, l'iterazione ossessiva lascia il posto alla necessità citazionistica, al riferimento ad altri universi letterari ripresi e ricontestualizzati per raccontare in modo nuovo un mondo insensato e feroce"
Felice Piemontese
da Il Mattino di Napoli, p. 14, del 4/05/2009
Grotteschi e arabeschi di Vitaliano Trevisan
95 p., brossura
Editore Einaudi (collana Einaudi. Stile libero big)
casa editrice Einaudi: www.einaudi.it
" (...) una scrittura davvero straordinaria, in cui periodi brevi e brevissimi si alternano ad altri ricchi di subordinate, l'invettiva si sposa con i toni pacati e riflessivi, l'iterazione ossessiva lascia il posto alla necessità citazionistica, al riferimento ad altri universi letterari ripresi e ricontestualizzati per raccontare in modo nuovo un mondo insensato e feroce"
Felice Piemontese
da Il Mattino di Napoli, p. 14, del 4/05/2009
Grotteschi e arabeschi di Vitaliano Trevisan
95 p., brossura
Editore Einaudi (collana Einaudi. Stile libero big)
domenica 3 maggio 2009
La musica sveglia il tempo di Daniel Barenboim (Feltrinelli). Rec. di Maria Beatrice Protino
Si tratta di un libro singolare, che lo stesso autore definisce per musicisti e per non-musicisti: “Piuttosto un libro per le menti curiose di scoprire le corrispondenze fra musica e vita, e la saggezza che diventa comprensibile all’orecchio pensante (…) Sono convinto che sviluppare l’intelligenza dell’orecchio sia una necessità fondamentale”.
Edito da Feltrinelli nel 2007, è un libro in cui l’autore, se nella prima parte fa una riflessione sull’esperienza musicale, nella seconda passa all’esame degli assunti citati attraversando la filosofia spinoziana, per poi soffermarsi sul racconto della straordinaria esperienza dell’orchestra West-Eastern Divan - da lui stesso fondata - che raccoglie musicisti provenienti da Israele, dalla Palestina e da altri paesi arabi: orchestra che, come sottolinea lo stesso autore, si fa prova tangibile di come la cultura favorisca i contatti fra le persone e le avvicini, promuovendone i processi di inclusione e di reciproco rispetto.
B. inizia col dare la definizione della parola musica, e si affida alla precisione e all’obiettività di Ferruccio Busoni - il grande pianista e compositore italiano vissuto a cavallo fra il 1800 e il 1900 che la definì appunto “aria sonora” -, nella consapevolezza che parlare davvero di musica sia in realtà “impossibile”, ma che “tentare l’impossibile mi comunica una sensazione di energia che trovo assai attraente”. Anzi, il suo tentativo è addirittura quello di porre in stretta correlazione “l’inesprimibile contenuto della musica con l’inesprimibile contenuto della vita”, come per trovare nell’idea della musica un modello per la società.
Affascinante la riflessione sul fenomeno fisico del suono e sulla metafora della vita che B. riesce a cogliere. Scrive: “Ecco subito una delle maggiori difficoltà che incontriamo nel cercare di definire la musica: essa si esprime attraverso il suono, ma esso in sé non è ancora musica, ma solo il mezzo tramite cui ci viene trasmesso il messaggio della musica, ovvero il suo contenuto”. Il suono è una realtà che, osservata obiettivamente, “scompare appena cessa: è effimero (…) e svanisce nel silenzio”. Dunque, la stretta correlazione tra suono e silenzio: “la prima nota non rappresenta l’inizio, ma proviene dal silenzio che la precede. (…) Quindi, l’ultima nota deve essere collegata al silenzio che la segue. Sotto questo aspetto, la musica è lo specchio della vita: entrambe cominciano dal nulla e finiscono nel nulla.” Questo implicherà, a sua volta, una riflessione successiva ancora più intensa: “Nel mondo dei suoni, neanche la morte è necessariamente definitiva”, nel senso che cede il suo posto alla nota successiva. Questo fenomeno, che chiamiamo con l’espressione italiana legato, “in musica garantisce l’espressività dell’esecuzione ed è data dal collegamento fra le note, tale per cui s’impedisce a una nota di sviluppare il suo io naturale, ovvero di diventare tanto importante da mettere in ombra la nota precedente. Ogni nota deve essere consapevole di sé ma anche dei propri limiti”. E poi, anche questa volta, un parallelo con la vita: “Le stesse regole che si applicano agli individui nella società, si applicano anche alle note musicali. Per l’uomo è necessario contribuire alla società in maniera individuale; ciò fa sì che l’intero sia maggiore della somma delle parti. Individualismo e collettivismo non devono essere reciprocamente esclusivi: insieme riescono a potenziare l’esperienza umana”.
B. sottolinea la forza, il potere della musica, capace di rivolgersi a tutte le sfaccettature dell’essere umano: alla parte animale, emotiva, intellettuale e spirituale. Come accade, infatti, fra le note di un pentagramma, anche le questioni personali, sociali e politiche non sono indipendenti fra loro, ma anzi, si influenzano a vicenda: “pensiero logico ed emozioni intuitive devono coesistere costantemente. La musica insegna che tutto è collegato”.
Daniel Barenboim (Buenos Aires, 1942) a sette anni dà il suo primo concerto ufficiale nella sua città. Nel 1952 si trasferisce con la famiglia in Israele. A dieci anni debutta come pianista a Vienna e a Roma, poi a Parigi e a Londra e New York nel 1957, sotto la direzione di Leopold Stokowski. Da allora iniziano le sue regolari tournée in Europa, negli Stati Uniti, in Sud America, in Australia e in Estremo Oriente. La sua carriera è piena di riconoscimenti e successi: è stato Direttore musicale dell’Orchestre de Paris, Direttore musicale della Chicago Symphony Orchestra, sino al riconoscimento di Direttore principale a vita della Staatskapelle di Berlino. Nel 1999 fonda, insieme a Edward Said, la West-Eastern Divan orchestra, formata da giovani musicisti d’Israele e dei Paesi Arabi.
Nel 2007 è stato onorato in Giappone del Praemium Imperiale per la Cultura e le Arti e nominato Ambasciatore delle Nazioni Unite per la Pace dal Segretario generale Ban Ki Moon.
La musica sveglia il tempo di Barenboim Daniel
185 p., brossura, Feltrinelli
Curatore Cheah E.
Traduttore Noulian L.
Edito da Feltrinelli nel 2007, è un libro in cui l’autore, se nella prima parte fa una riflessione sull’esperienza musicale, nella seconda passa all’esame degli assunti citati attraversando la filosofia spinoziana, per poi soffermarsi sul racconto della straordinaria esperienza dell’orchestra West-Eastern Divan - da lui stesso fondata - che raccoglie musicisti provenienti da Israele, dalla Palestina e da altri paesi arabi: orchestra che, come sottolinea lo stesso autore, si fa prova tangibile di come la cultura favorisca i contatti fra le persone e le avvicini, promuovendone i processi di inclusione e di reciproco rispetto.
B. inizia col dare la definizione della parola musica, e si affida alla precisione e all’obiettività di Ferruccio Busoni - il grande pianista e compositore italiano vissuto a cavallo fra il 1800 e il 1900 che la definì appunto “aria sonora” -, nella consapevolezza che parlare davvero di musica sia in realtà “impossibile”, ma che “tentare l’impossibile mi comunica una sensazione di energia che trovo assai attraente”. Anzi, il suo tentativo è addirittura quello di porre in stretta correlazione “l’inesprimibile contenuto della musica con l’inesprimibile contenuto della vita”, come per trovare nell’idea della musica un modello per la società.
Affascinante la riflessione sul fenomeno fisico del suono e sulla metafora della vita che B. riesce a cogliere. Scrive: “Ecco subito una delle maggiori difficoltà che incontriamo nel cercare di definire la musica: essa si esprime attraverso il suono, ma esso in sé non è ancora musica, ma solo il mezzo tramite cui ci viene trasmesso il messaggio della musica, ovvero il suo contenuto”. Il suono è una realtà che, osservata obiettivamente, “scompare appena cessa: è effimero (…) e svanisce nel silenzio”. Dunque, la stretta correlazione tra suono e silenzio: “la prima nota non rappresenta l’inizio, ma proviene dal silenzio che la precede. (…) Quindi, l’ultima nota deve essere collegata al silenzio che la segue. Sotto questo aspetto, la musica è lo specchio della vita: entrambe cominciano dal nulla e finiscono nel nulla.” Questo implicherà, a sua volta, una riflessione successiva ancora più intensa: “Nel mondo dei suoni, neanche la morte è necessariamente definitiva”, nel senso che cede il suo posto alla nota successiva. Questo fenomeno, che chiamiamo con l’espressione italiana legato, “in musica garantisce l’espressività dell’esecuzione ed è data dal collegamento fra le note, tale per cui s’impedisce a una nota di sviluppare il suo io naturale, ovvero di diventare tanto importante da mettere in ombra la nota precedente. Ogni nota deve essere consapevole di sé ma anche dei propri limiti”. E poi, anche questa volta, un parallelo con la vita: “Le stesse regole che si applicano agli individui nella società, si applicano anche alle note musicali. Per l’uomo è necessario contribuire alla società in maniera individuale; ciò fa sì che l’intero sia maggiore della somma delle parti. Individualismo e collettivismo non devono essere reciprocamente esclusivi: insieme riescono a potenziare l’esperienza umana”.
B. sottolinea la forza, il potere della musica, capace di rivolgersi a tutte le sfaccettature dell’essere umano: alla parte animale, emotiva, intellettuale e spirituale. Come accade, infatti, fra le note di un pentagramma, anche le questioni personali, sociali e politiche non sono indipendenti fra loro, ma anzi, si influenzano a vicenda: “pensiero logico ed emozioni intuitive devono coesistere costantemente. La musica insegna che tutto è collegato”.
Daniel Barenboim (Buenos Aires, 1942) a sette anni dà il suo primo concerto ufficiale nella sua città. Nel 1952 si trasferisce con la famiglia in Israele. A dieci anni debutta come pianista a Vienna e a Roma, poi a Parigi e a Londra e New York nel 1957, sotto la direzione di Leopold Stokowski. Da allora iniziano le sue regolari tournée in Europa, negli Stati Uniti, in Sud America, in Australia e in Estremo Oriente. La sua carriera è piena di riconoscimenti e successi: è stato Direttore musicale dell’Orchestre de Paris, Direttore musicale della Chicago Symphony Orchestra, sino al riconoscimento di Direttore principale a vita della Staatskapelle di Berlino. Nel 1999 fonda, insieme a Edward Said, la West-Eastern Divan orchestra, formata da giovani musicisti d’Israele e dei Paesi Arabi.
Nel 2007 è stato onorato in Giappone del Praemium Imperiale per la Cultura e le Arti e nominato Ambasciatore delle Nazioni Unite per la Pace dal Segretario generale Ban Ki Moon.
La musica sveglia il tempo di Barenboim Daniel
185 p., brossura, Feltrinelli
Curatore Cheah E.
Traduttore Noulian L.
Il libro del giorno: I racconti del parrucchiere di Elvira Seminara (Alberto Gaffi editore)
C'è la ragazza che si sposa quel giorno e fa la Grande-Messa-in-Piega, seduta accanto a lei un'altra che si fa suora e accorcia i capelli per mettere il velo. C'è il trans poeta che si fa biondo e la professoressa innamorata che sogna sotto il casco. C'è l'immigrata che vende la treccia e la parrucchiera migrante, la matta smemorata e la figlia del detenuto. C'è tutta la vita in transito, dentro il salone del parrucchiere, perché il taglio di capelli è un'antica liturgia, un rito sciamano che ci fa sentire nuovi e rinnovati, un esorcismo contro l'età e la paura di invecchiare.
casa editrice Alberto Gaffi: http://www.gaffi.it/
"Storie che, sotto la superficie di eventi spesso non rilevanti, ma immensi nell'agire del mondo interno dei personaggi, rivelano la forma del desiderio, la violenza dell'illusione, l'abbandono al sogno, ancorchè spesso vano"
Craig Martucci
da Il Domenicale del Sole 24 Ore n. 120, del 3/05/09 p. 36
I racconti del parrucchiere di Seminara Elvira, 180 p., brossura
Editore Gaffi Editore in Roma (collana Evasioni)
casa editrice Alberto Gaffi: http://www.gaffi.it/
"Storie che, sotto la superficie di eventi spesso non rilevanti, ma immensi nell'agire del mondo interno dei personaggi, rivelano la forma del desiderio, la violenza dell'illusione, l'abbandono al sogno, ancorchè spesso vano"
Craig Martucci
da Il Domenicale del Sole 24 Ore n. 120, del 3/05/09 p. 36
I racconti del parrucchiere di Seminara Elvira, 180 p., brossura
Editore Gaffi Editore in Roma (collana Evasioni)
sabato 2 maggio 2009
Il libro del giorno: Il campo di cipolle di Wambaugh Joseph (Einaudi)
Los Angeles, 9 marzo 1963. Campbell e Hettinger, due agenti di pattuglia che lavorano da poco in coppia fermano un'auto sospetta. A bordo due delinquenti di piccolo cabotaggio con una lunga storia di reati e carcere alle spalle. I due criminali disarmano i poliziotti, li rapiscono e, dopo un lungo tragitto in auto sulle freeways intorno a Los Angeles, li portano in un campo di cipolle. Ed è nella polvere di una sterrata di campagna, nell'odore pungente delle cipolle, che si consuma la tragedia, tanto più atroce quanto più assurda: Campbell viene ucciso a colpi di pistola. Hettinger riesce a scappare. Nel giro di poche ore, i colpevoli vengono catturati, ma il finale della loro storia è ancora lontano e tutt'altro che consolatorio. Inizialmente condannati a morte, i due assassini affronteranno una serie di processi che, a vent'anni dall'omicidio, li porterà alla scarcerazione. Quanto a Hettinger, lascerà la polizia e trascorrerà tutta la vita in una spirale di dolore, rimorso e autodistruzione. Wambaugh racconta una vicenda vera e terribile da ex poliziotto, scrittore e profondo conoscitore della psicologia umana. Il risultato è una riflessione dolente sulle imperfezioni e i fallimenti della giustizia, e sul retaggio di sofferenze e crudeltà che accompagna ogni fatto di sangue, segnando l'esistenza dei colpevoli come delle vittime in modo irreparabile.
casa editrice Einaudi: www.einaudi.it
"Il libro è una riflessione sulla giustizia che non sempre funziona come dovrebbe e su come ogni fatto di sangue segna l'esistenza dei colpevoli e delle vittime in modo irreparabile. Una vera chicca l'introduzione di James Ellroy, ch vale già da sola un salto in libreria"
Dario Goffredo
da CoolClub n. 52, aprile 2009, p.48
Il campo di cipolle di Wambaugh Joseph
Traduttore Oddera B.
Editore Einaudi (collana Einaudi. Stile libero. Noir)
casa editrice Einaudi: www.einaudi.it
"Il libro è una riflessione sulla giustizia che non sempre funziona come dovrebbe e su come ogni fatto di sangue segna l'esistenza dei colpevoli e delle vittime in modo irreparabile. Una vera chicca l'introduzione di James Ellroy, ch vale già da sola un salto in libreria"
Dario Goffredo
da CoolClub n. 52, aprile 2009, p.48
Il campo di cipolle di Wambaugh Joseph
Traduttore Oddera B.
Editore Einaudi (collana Einaudi. Stile libero. Noir)
AUTOBIOGRAFIA DI UN PICCHIATORE FASCISTA (Minimum Fax) A BOLOGNA
La testimonianza bruciante di un ragazzo che sceglie di dare la propria vita per la violenza politica e l'omicidio. Una ricostruzione minuziosa del carattere e dello sviluppo del neofascismo italiano. Il romanzo dal vero dell'eversione nera, tra campi paramilitari, traffici di esplosivi, corruzione delle istituzioni. Fino alla conversione esistenziale e culturale attraverso l'esperienza del carcere, che porterà l'omicida a diventare un sociologo di fama internazionale. "Autobiografia di un picchiatore fascista" di Giulio Salierno, a trent'anni dalla sua prima uscita, è ancora un libro unico, la storia commovente di un uomo che è riuscito, parlando di sé, a scrivere un pezzo fondamentale dell'autobiografia della nostra martoriata Italia. E a profetizzare come una vera rivoluzione non sarebbe passata per la contrapposizione delle armi, ma per la difesa dei diritti dei più deboli: i poveri, gli ignoranti, i diseredati, i detenuti.
Libreria Irnerio e l’Associazione Culturale Papillon-Rebibbia Onlus
presentano
"Autobiografia di un picchiatore fascista" di Giulio Salierno (Minimum Fax)
Intervengono
l'Ass. Papillon Valerio Guizzardi
la giornalista de Il Manifesto e scrittrice Geraldina Colotti
e lo scrittore Stefano Tassinari
mercoledì 13 maggio 2009 h. 18,00
Libreria Irnerio, Via Irnerio, 27 - Bologna, Italy
Libreria Irnerio e l’Associazione Culturale Papillon-Rebibbia Onlus
presentano
"Autobiografia di un picchiatore fascista" di Giulio Salierno (Minimum Fax)
Intervengono
l'Ass. Papillon Valerio Guizzardi
la giornalista de Il Manifesto e scrittrice Geraldina Colotti
e lo scrittore Stefano Tassinari
mercoledì 13 maggio 2009 h. 18,00
Libreria Irnerio, Via Irnerio, 27 - Bologna, Italy
Maggio, le rose, i libri, i segni, la musica al Fondo Verri di Lecce
Giovedi 7 dalle ore 20.30
Paolo Vincenti racconta “Danze Moderne (I tempi cambiano)
A seguire Luca Ciarla, violino solo
Gli anni ottanta sono i ‘protagonisti’ in “Danze Moderne (I tempi cambiano)”. Scrive Antonio Lupo che quella di Paolo Vincenti è una “scrittura "liquida". Fatta di “una creatività che prende vita nello spazio multiforme della pagina, l’autore tiene abilmente insieme suggestioni di matrice diversa, in un cocktail di rimandi e di citazioni, di passaggi da un codice espressivo all’altro. (…) La storia individuale "di rabbia, di amore, di odio e di altre trasgressioni", tessuta sullo sfondo di collettivi scenari massmediali, viene raccontata "in compagnia" dei cantautori più amati. Quasi un testo parallelo e/o "a supporto", costituiscono infatti i richiami dei versi delle canzoni di Ligabue alternati a quelli di Francesco De Gregori, di Francesco Guccini o di Roberto Vecchioni. Una colonna sonora che lega il piano esistenziale a quello generazionale.
Violinista, pianista e compositore, Luca Ciarla è un artista eclettico e originale. Suona musica classica, jazz e musica popolare, dando vita a composizioni che inevitabilmente riflettono la varietà del suo bagaglio artistico. Luca si è esibito in Cina, Inghilterra, Messico, Slovenia, Svizzera e negli Stati Uniti. Nato a Termoli nel 1970, ha iniziato a suonare il violino e il pianoforte all'età di otto anni. Giovanissimo si iscrive al Conservatorio Lorenzo Perosi di Campobasso, avvicinandosi alla musica classica e cominciando ad esplorare le sonorità del jazz. Negli ultimi anni Luca ha suonato con musicisti quali Luciano Biondini, Daniele Sepe, Walter Paoli, Daniele Scannapieco, Simone Zanchini, Lello Pareti, Maurizio Rolli, Max Ionata, Danilo Rea, Samuele Garofoli, Marco Salcito, Renzo Ruggieri, Maurizio Minardi, Nicola Angelucci, Blaine Whittaker, Sylvain Gagnon, Anthony Fernandes, Giampaolo Ascolese, Antonio Franciosa, Marco Siniscalco, Marina Rei, Mimmo Locasciulli ed altri ancora.
Venerdi 8, dalle ore 20.30
Rocco Aprile racconta “Il funerale e i fiori di campo”, edito da i libri di Icaro
intervengono Silvano Palamà
Rocco Aprile è nato nel 1929 a Calimera, nel Salento. Figura essenziale del movimento di riscoperta delle tradizioni greco-salentine e di salvaguardia della lingua grika, è tra i fondatori del Circolo Culturale Ghetonìa. Dopo la riedizione de “Il sole e il sale”, che ‘i libri di Icaro’ hanno curato nel 2006, Rocco Aprile, è tornato alla scrittura, regalandoci questo nuovo romanzo che continua la narrazione del primo accompagnandoci sulla soglia del Salento contemporaneo.
Il protagonista è Rocco: gli studi a Bari, le passioni, le amicizie, i sodalizi intellettuali e “poetici”. E ancora il Salento, con le prime trasformazioni del dopoguerra e l’arrivo di un tempo migliore, l’annuncio del cambiamento di pari passo con il crescere, l’avanzare di una coscienza e di una conoscenza della qualità territoriale. La Lambretta di Rina e la Mercedes di Anita prendono il posto della bicicletta, e gli amori divengono scelte.
Sabato 9, dalle ore 19.30
Vernissage della mostra “Ventagli nell'aria” di Mimma Sambati (in allestimento sino a domenica 17)
Scrive Vito Antonio Conte di Mimma Sambati: “Avevo conosciuto Mimma (Sambati) in un'altra vita. Altri tempi per tutti. Per me ch'ero altrove, per motivi universitari e per lei che viveva alcuni grandi amori, tra cui quello per la pittura e, più in generale, per l'arte. Quest'ultimo vissuto appieno per la fortuna che ha avuto di conoscere Antonio Verri, condividendone passaggi d'esistenza. Il primo perchè, mentre muoveva i primi passi presso la locale Accademia d'Arte, ha vissuto il fulgore dirompente e l'esilio liquido, fatto di mare e di vino portoghese (ma non solo), del vichingo leccese Edoardo (De Candia)”. Come per la sua poesia - l'esordio poetico di “Ho costruito un castello di pioggia” lo firma con il nome di Genny Meraviglia – anche la pittura è traversata da una sensibilità che accoglie il “femminile” la particolarità di quel sentire coniugandolo al di là dell’essere donna, come valore, modo, filtro alla vita utile alla vita stessa con le derive, le malinconie, le mancanze. Valori tutti di differenza, di un'altra Storia, di un altro esserci.
Domenica 10, dalle ore 20.30
Marthia Carrozzo legge da “Pelle alla pelle. Dimore di mare e solo sensi” raccolta edita da Lieto Colle con Margherita Macrì musiche di Claudio Prima e Emanuele Coluccia
Scrive Stefano Donno della nuova raccolta di versi di Marthia Carrozzo: “E’ un canto sottile, ammaliante, dolcissimo a volte, altre forte come un’onda impetuosa di mare, o come il nostro vento di tramontana, che sa raccogliere in grembo colori, odori, umori, amori, in un modo che il suo vissuto diventi tracciato biografico di un sentire universale, sublimandosi in un’estasi per versi dove la Poesia, e in questo caso dandole la P maiuscola la connotiamo in tutta la sua sacralità, trova la sua dimora più consona, ideale per far fiorire in più di qualche occasione una prosa poetica delicatissima, dove oggetti, eventi, sensazioni, il narrare stesso non sono solo narcisismo della parola, ma ricerca di verità, continui resoconti del proprio vissuto, per poi divenire pausa e silenzio, trampolino di slanci per gettarsi nel mondo, viverlo, gustarlo. Tracciati di pelle e gola, e sudore, riempiono le pagine di Pelle alla pelle, perennemente in bilico tra il senso dell’oblio e la ricerca di un’identità corporea, sciolta e ricomposta incessantemente dalla parola, quasi in un’estasi orgasmica che brucia i ricordi, gli attimi, i non-detti…”
Venerdi 15 dalle ore 20.30
Antonio Scarcella racconta “Ipotesi su Ulisse” di Antonio Mercurio
A seguire “Il complesso d'inferiorità” presenta “Senti nella nebbia il dire è la messa in Croce”
L’Odissea non è, come molti credono, un romanzo d’avventure né una celebrazione del “ritorno” a Itaca (il nostos) come altri pensano. E’ un libro sapienziale, così come lo è la Bibbia per gli Ebrei e per i Cristiani.
Ulisse è l’archetipo principale dell’essere umano ed è una vera stupidità il fatto che sia conosciuto dai più per la sua astuzia e per i suoi inganni e non per la sua saggezza e per il suo coraggio con cui trasforma sé e gli altri che stanno rinchiusi nella loro solitudine narcisistica.
Steven Hawking, il più grande scienziato di oggi, s’interroga da anni sul perché dell’esistenza di questo universo e non sa che la risposta che la scienza non potrà mai dare l’aveva già data Omero quasi tremila anni fa.
Sabato 16 dalle ore 20.30
Vito Bruno racconta il suo “Il ragazzo che credeva in Dio”, edito da Fazi, intervengono Mauro Marino
A seguire Gianluca Longo, concerto di mandole per “Il mandolino storie di uomini e suoni nel Salento”.
Con un ritmo incalzante e una scrittura limpida ed evocativa, “Il ragazzo che credeva in Dio” racconta il viaggio di Carmine tra i gironi di una città allo sbando, nel disperato tentativo di sottrarre Alena al suo destino e di ritrovare un senso alla propria vita. Un romanzo in forma di indagine-confessione sull'azzardo della fede, sullo smarrimento, sull'amore, sulle ragioni della speranza. Attorno, un coro di personaggi alle prese con la quotidiana lotta per la sopravvivenza in una Taranto torrida e inquinata: Pietro, operaio al siderurgico con il padre malato di cancro; Nino, adolescente di buona famiglia adescato dalla malavita locale; Cataldo, figlio di un povero pescatore con il sogno del pallone come riscatto sociale; Sandra, ex compagna di scuola nonché primo e unico amore di Carmine. Da Vito Bruno finalista al Premio Campiello 2000, editorialista del Corriere del Mezzogiorno, un romanzo che ricostruisce la delicata psicologia dell'uomo di fede contemporaneo, costretto a confrontarsi con una realtà spesso troppo dura e difficilmente giustificabile anche dal punto di vista religioso.
Gianluca Longo è musicista e musicoterapista, suona il mandolino, il mandoloncello, la mandola, la cetra corsa, la chitarra classica, la chitarra battente e il tamburello a cornice. La passione per le sonorità tradizionali della sua terra nasce grazie ai continui stimoli ricevuti dalla famiglia e dalle persone anziane a lui vicine. La madre è poetessa e cantrice di canti e "cunti" tipici della tradizione; il nonno, noto barbiere-mandolinista del paese, trasmette al nipote la tecnica e la passione per il mandolino. Da questo nasce la ricerca e il libro “Il mandolino storie di uomini e suoni nel Salento”.
Venerdì 22 dalle ore 20.30
Lino Angiuli presenta “Puglia in versi. I luoghi della poesia, la poesia dei luoghi” edito da Gelso Rosso, intervengono Maurizio Nocera, Antonio Errico, Pierluigi Mele, Piero Rapanà.
A seguire “Da qualche parte Sandra” con Claudio Prima, Emanuele Coluccia e Sandra Caiulo
Puglia, una e trina, costruita di Parole. Di sospensioni, di vertigini che salgono le cime dei campanili e caracollano nell'infinito della polvere di tufo. Che sanno il soffoco della pianura, la carezza e l'abbaglio del mare.
Una Puglia cruda, amara dove “La migrazione del tempo collima con un canto sfibrato, l'aria è irrespirabile, (e) si va verso un futuro di privazione” così la leggiamo nell'Abbecedario dei migranti di Vittorino Curci dove Gamal “ha conosciuto una tristezza nuova”.
Una Puglia una e trina, mai scontata, mai prigioniera di cartoline o dei doveri del marketing territoriale. La Puglia dei poeti, di chi, nell'essenza sa, la necessità del canto!
Molti i nomi. Quelli a noi più vicini: Vittore Fiore, i due Vittorio: Bodini e Pagano, Girolamo Comi, Aldo Bello, Maurizio Nocera, Antonio Errico, Pierluigi Mele.
Sabato 23 dalle ore 20.30
Gino Pisanò presenta la poesia di Umberto Valletta
Fernando Rausa legge dal suo “Terra mara e nicchiarica” edito da Manni
Umberto Valletta scrive: “Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui”. Secondo Giovanni Invitto un caso di intellettuale-artista “fuori le righe” per il suo modo di esistere, perché per lui l’arte è connaturata all’esistenza. Questo è un bene, ma, per la maggior parte dei casi, lo si paga sulla pelle, sulla vita. E sulla professione. “Umberto aveva già risposto, “da architetto e da poeta”, che è inutile essere artisti se si deve vivere da impiegati. E’ l’architetto che coniuga bellezza e razionalità. Ed è il poeta che ingentilisce la movida salentina donando fiori-poesie come i gigli di pietra del nostro barocco”.
Fernando Rausa attribuiva alla poesia l’alto compito di indicare la possibilità di un mondo più libero, più giusto, più umano. Una voce fuori dal coro il poeta dialettale Fernando Rausa (1926-1977). Il punto di osservazione privilegiato del poeta rimane il paese natale di Poggiardo vissuto come nucleo primitivo solidale il quale, però, invece di rappresentare un luogo di serenità e di convivenza possibile, ha finito col provocare ingiustizie e dolori. Su tutti il dramma doloroso e straziante dell’emigrazione all’estero. Nel momento in cui il padre è costretto, per trovare lavoro, ad abbandonare i propri figli, non solo si è rotta drammaticamente l’unità familiare ma anche la continuità sociale fra vita e lavoro. Intorno a questo triste fenomeno l’autore costruisce la profonda delusione della quale è impregnata la poesia, che rimane comunque l’ultima speranza di riscatto e di rinnovamento. Scrive Donato Valli: “Fernando Rausa attribuiva alla poesia l’alto compito di indicare la possibilità di un mondo più libero, più giusto, più umano. Egli non fa sorridere, non intende portare allegria ai suoi lettori, come in genere fanno i poeti dialettali popolari a lui contemporanei. Pone problemi. Per sé e, soprattutto, per la società. Sente, insomma, il suo essere poeta come un impegno morale, teso a sconfiggere le ingiustizie e a purificare la società da ogni menzogna, da ogni sopruso.
Venerdì 29 dalle ore 20.30
Giuse Alemanno racconta il suo “Le vicende notevoli di Don Fefè, nobile sciupafemmine grandissimo figlio di mammaggiusta, e del suo fidato servitore Ciccillo” edito per i libri di Icaro
intervengono Elisabetta Liguori, Antonio Errico e Piero Rapanà.
Giuse Alemanno è nato a Copertino, vive ed opera a Manduria. In “Le vicende notevoli di Don Fefè, nobile sciupafemmine grandissimo figlio di mammaggiusta, e del suo fidato servitore Ciccillo” edito per i libri di Icaro c’è una nuova lingua, suona di dialetto. Inventata, come il cosmo che racconta. Un titolo lungo, con un sapore fortemente e volutamente retrò. C’è il cinema che disegna, nel pensiero dell’autore, la figura di Don Fefè, “cuor contento e panza piena”. Don Felice, il nome vero, nobile di Cipièrnola, incontrastato padrone di Palazzo Rizzo Torregiani Cìmboli, in un Sud dove in corpo scorre il rosso intenso del Primitivo e l’indolenza meridiana delle voglie.
L’inizio di una saga che potrebbe avere come interprete il Mastroianni di “Divorzio all’italiana”. Impomatato, con la retina a tenere i capelli ed il baffo in tiro. Con gli occhi semichiusi, il lungo bocchino e le voglie mai dome.
Domenica 31 maggio dalle ore 20.30
La poesia e i poeti
Irene Leo legge dal suo “Sudapest” edito nei Poet/bar di Besa
Ilaria Solazzo legge dal suo “Gocce nel deserto” edizioni Mancarella
Rita Rucco legge dal suo “Sensi di Versi” edizioni il Filo
Fernando Rausa legge dal suo “Terra mara e nicchiarica” edito da Manni
Maggio, le rose, i libri, i segni, la musica
da giovedì 7 maggio 2009 a domenica 31 maggio 2009
Fondo verri, s. maria del paradiso - Lecce
Telefono: 0832304522
E-mail: fondoverri@tiscali.it
Paolo Vincenti racconta “Danze Moderne (I tempi cambiano)
A seguire Luca Ciarla, violino solo
Gli anni ottanta sono i ‘protagonisti’ in “Danze Moderne (I tempi cambiano)”. Scrive Antonio Lupo che quella di Paolo Vincenti è una “scrittura "liquida". Fatta di “una creatività che prende vita nello spazio multiforme della pagina, l’autore tiene abilmente insieme suggestioni di matrice diversa, in un cocktail di rimandi e di citazioni, di passaggi da un codice espressivo all’altro. (…) La storia individuale "di rabbia, di amore, di odio e di altre trasgressioni", tessuta sullo sfondo di collettivi scenari massmediali, viene raccontata "in compagnia" dei cantautori più amati. Quasi un testo parallelo e/o "a supporto", costituiscono infatti i richiami dei versi delle canzoni di Ligabue alternati a quelli di Francesco De Gregori, di Francesco Guccini o di Roberto Vecchioni. Una colonna sonora che lega il piano esistenziale a quello generazionale.
Violinista, pianista e compositore, Luca Ciarla è un artista eclettico e originale. Suona musica classica, jazz e musica popolare, dando vita a composizioni che inevitabilmente riflettono la varietà del suo bagaglio artistico. Luca si è esibito in Cina, Inghilterra, Messico, Slovenia, Svizzera e negli Stati Uniti. Nato a Termoli nel 1970, ha iniziato a suonare il violino e il pianoforte all'età di otto anni. Giovanissimo si iscrive al Conservatorio Lorenzo Perosi di Campobasso, avvicinandosi alla musica classica e cominciando ad esplorare le sonorità del jazz. Negli ultimi anni Luca ha suonato con musicisti quali Luciano Biondini, Daniele Sepe, Walter Paoli, Daniele Scannapieco, Simone Zanchini, Lello Pareti, Maurizio Rolli, Max Ionata, Danilo Rea, Samuele Garofoli, Marco Salcito, Renzo Ruggieri, Maurizio Minardi, Nicola Angelucci, Blaine Whittaker, Sylvain Gagnon, Anthony Fernandes, Giampaolo Ascolese, Antonio Franciosa, Marco Siniscalco, Marina Rei, Mimmo Locasciulli ed altri ancora.
Venerdi 8, dalle ore 20.30
Rocco Aprile racconta “Il funerale e i fiori di campo”, edito da i libri di Icaro
intervengono Silvano Palamà
Rocco Aprile è nato nel 1929 a Calimera, nel Salento. Figura essenziale del movimento di riscoperta delle tradizioni greco-salentine e di salvaguardia della lingua grika, è tra i fondatori del Circolo Culturale Ghetonìa. Dopo la riedizione de “Il sole e il sale”, che ‘i libri di Icaro’ hanno curato nel 2006, Rocco Aprile, è tornato alla scrittura, regalandoci questo nuovo romanzo che continua la narrazione del primo accompagnandoci sulla soglia del Salento contemporaneo.
Il protagonista è Rocco: gli studi a Bari, le passioni, le amicizie, i sodalizi intellettuali e “poetici”. E ancora il Salento, con le prime trasformazioni del dopoguerra e l’arrivo di un tempo migliore, l’annuncio del cambiamento di pari passo con il crescere, l’avanzare di una coscienza e di una conoscenza della qualità territoriale. La Lambretta di Rina e la Mercedes di Anita prendono il posto della bicicletta, e gli amori divengono scelte.
Sabato 9, dalle ore 19.30
Vernissage della mostra “Ventagli nell'aria” di Mimma Sambati (in allestimento sino a domenica 17)
Scrive Vito Antonio Conte di Mimma Sambati: “Avevo conosciuto Mimma (Sambati) in un'altra vita. Altri tempi per tutti. Per me ch'ero altrove, per motivi universitari e per lei che viveva alcuni grandi amori, tra cui quello per la pittura e, più in generale, per l'arte. Quest'ultimo vissuto appieno per la fortuna che ha avuto di conoscere Antonio Verri, condividendone passaggi d'esistenza. Il primo perchè, mentre muoveva i primi passi presso la locale Accademia d'Arte, ha vissuto il fulgore dirompente e l'esilio liquido, fatto di mare e di vino portoghese (ma non solo), del vichingo leccese Edoardo (De Candia)”. Come per la sua poesia - l'esordio poetico di “Ho costruito un castello di pioggia” lo firma con il nome di Genny Meraviglia – anche la pittura è traversata da una sensibilità che accoglie il “femminile” la particolarità di quel sentire coniugandolo al di là dell’essere donna, come valore, modo, filtro alla vita utile alla vita stessa con le derive, le malinconie, le mancanze. Valori tutti di differenza, di un'altra Storia, di un altro esserci.
Domenica 10, dalle ore 20.30
Marthia Carrozzo legge da “Pelle alla pelle. Dimore di mare e solo sensi” raccolta edita da Lieto Colle con Margherita Macrì musiche di Claudio Prima e Emanuele Coluccia
Scrive Stefano Donno della nuova raccolta di versi di Marthia Carrozzo: “E’ un canto sottile, ammaliante, dolcissimo a volte, altre forte come un’onda impetuosa di mare, o come il nostro vento di tramontana, che sa raccogliere in grembo colori, odori, umori, amori, in un modo che il suo vissuto diventi tracciato biografico di un sentire universale, sublimandosi in un’estasi per versi dove la Poesia, e in questo caso dandole la P maiuscola la connotiamo in tutta la sua sacralità, trova la sua dimora più consona, ideale per far fiorire in più di qualche occasione una prosa poetica delicatissima, dove oggetti, eventi, sensazioni, il narrare stesso non sono solo narcisismo della parola, ma ricerca di verità, continui resoconti del proprio vissuto, per poi divenire pausa e silenzio, trampolino di slanci per gettarsi nel mondo, viverlo, gustarlo. Tracciati di pelle e gola, e sudore, riempiono le pagine di Pelle alla pelle, perennemente in bilico tra il senso dell’oblio e la ricerca di un’identità corporea, sciolta e ricomposta incessantemente dalla parola, quasi in un’estasi orgasmica che brucia i ricordi, gli attimi, i non-detti…”
Venerdi 15 dalle ore 20.30
Antonio Scarcella racconta “Ipotesi su Ulisse” di Antonio Mercurio
A seguire “Il complesso d'inferiorità” presenta “Senti nella nebbia il dire è la messa in Croce”
L’Odissea non è, come molti credono, un romanzo d’avventure né una celebrazione del “ritorno” a Itaca (il nostos) come altri pensano. E’ un libro sapienziale, così come lo è la Bibbia per gli Ebrei e per i Cristiani.
Ulisse è l’archetipo principale dell’essere umano ed è una vera stupidità il fatto che sia conosciuto dai più per la sua astuzia e per i suoi inganni e non per la sua saggezza e per il suo coraggio con cui trasforma sé e gli altri che stanno rinchiusi nella loro solitudine narcisistica.
Steven Hawking, il più grande scienziato di oggi, s’interroga da anni sul perché dell’esistenza di questo universo e non sa che la risposta che la scienza non potrà mai dare l’aveva già data Omero quasi tremila anni fa.
Sabato 16 dalle ore 20.30
Vito Bruno racconta il suo “Il ragazzo che credeva in Dio”, edito da Fazi, intervengono Mauro Marino
A seguire Gianluca Longo, concerto di mandole per “Il mandolino storie di uomini e suoni nel Salento”.
Con un ritmo incalzante e una scrittura limpida ed evocativa, “Il ragazzo che credeva in Dio” racconta il viaggio di Carmine tra i gironi di una città allo sbando, nel disperato tentativo di sottrarre Alena al suo destino e di ritrovare un senso alla propria vita. Un romanzo in forma di indagine-confessione sull'azzardo della fede, sullo smarrimento, sull'amore, sulle ragioni della speranza. Attorno, un coro di personaggi alle prese con la quotidiana lotta per la sopravvivenza in una Taranto torrida e inquinata: Pietro, operaio al siderurgico con il padre malato di cancro; Nino, adolescente di buona famiglia adescato dalla malavita locale; Cataldo, figlio di un povero pescatore con il sogno del pallone come riscatto sociale; Sandra, ex compagna di scuola nonché primo e unico amore di Carmine. Da Vito Bruno finalista al Premio Campiello 2000, editorialista del Corriere del Mezzogiorno, un romanzo che ricostruisce la delicata psicologia dell'uomo di fede contemporaneo, costretto a confrontarsi con una realtà spesso troppo dura e difficilmente giustificabile anche dal punto di vista religioso.
Gianluca Longo è musicista e musicoterapista, suona il mandolino, il mandoloncello, la mandola, la cetra corsa, la chitarra classica, la chitarra battente e il tamburello a cornice. La passione per le sonorità tradizionali della sua terra nasce grazie ai continui stimoli ricevuti dalla famiglia e dalle persone anziane a lui vicine. La madre è poetessa e cantrice di canti e "cunti" tipici della tradizione; il nonno, noto barbiere-mandolinista del paese, trasmette al nipote la tecnica e la passione per il mandolino. Da questo nasce la ricerca e il libro “Il mandolino storie di uomini e suoni nel Salento”.
Venerdì 22 dalle ore 20.30
Lino Angiuli presenta “Puglia in versi. I luoghi della poesia, la poesia dei luoghi” edito da Gelso Rosso, intervengono Maurizio Nocera, Antonio Errico, Pierluigi Mele, Piero Rapanà.
A seguire “Da qualche parte Sandra” con Claudio Prima, Emanuele Coluccia e Sandra Caiulo
Puglia, una e trina, costruita di Parole. Di sospensioni, di vertigini che salgono le cime dei campanili e caracollano nell'infinito della polvere di tufo. Che sanno il soffoco della pianura, la carezza e l'abbaglio del mare.
Una Puglia cruda, amara dove “La migrazione del tempo collima con un canto sfibrato, l'aria è irrespirabile, (e) si va verso un futuro di privazione” così la leggiamo nell'Abbecedario dei migranti di Vittorino Curci dove Gamal “ha conosciuto una tristezza nuova”.
Una Puglia una e trina, mai scontata, mai prigioniera di cartoline o dei doveri del marketing territoriale. La Puglia dei poeti, di chi, nell'essenza sa, la necessità del canto!
Molti i nomi. Quelli a noi più vicini: Vittore Fiore, i due Vittorio: Bodini e Pagano, Girolamo Comi, Aldo Bello, Maurizio Nocera, Antonio Errico, Pierluigi Mele.
Sabato 23 dalle ore 20.30
Gino Pisanò presenta la poesia di Umberto Valletta
Fernando Rausa legge dal suo “Terra mara e nicchiarica” edito da Manni
Umberto Valletta scrive: “Venuta la sera, mi ritorno a casa ed entro nel mio scrittoio; e in sull’uscio mi spoglio quella veste cotidiana, piena di fango e di loto, e mi metto panni reali e curiali; e rivestito condecentemente, entro nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio e ch’io nacqui per lui”. Secondo Giovanni Invitto un caso di intellettuale-artista “fuori le righe” per il suo modo di esistere, perché per lui l’arte è connaturata all’esistenza. Questo è un bene, ma, per la maggior parte dei casi, lo si paga sulla pelle, sulla vita. E sulla professione. “Umberto aveva già risposto, “da architetto e da poeta”, che è inutile essere artisti se si deve vivere da impiegati. E’ l’architetto che coniuga bellezza e razionalità. Ed è il poeta che ingentilisce la movida salentina donando fiori-poesie come i gigli di pietra del nostro barocco”.
Fernando Rausa attribuiva alla poesia l’alto compito di indicare la possibilità di un mondo più libero, più giusto, più umano. Una voce fuori dal coro il poeta dialettale Fernando Rausa (1926-1977). Il punto di osservazione privilegiato del poeta rimane il paese natale di Poggiardo vissuto come nucleo primitivo solidale il quale, però, invece di rappresentare un luogo di serenità e di convivenza possibile, ha finito col provocare ingiustizie e dolori. Su tutti il dramma doloroso e straziante dell’emigrazione all’estero. Nel momento in cui il padre è costretto, per trovare lavoro, ad abbandonare i propri figli, non solo si è rotta drammaticamente l’unità familiare ma anche la continuità sociale fra vita e lavoro. Intorno a questo triste fenomeno l’autore costruisce la profonda delusione della quale è impregnata la poesia, che rimane comunque l’ultima speranza di riscatto e di rinnovamento. Scrive Donato Valli: “Fernando Rausa attribuiva alla poesia l’alto compito di indicare la possibilità di un mondo più libero, più giusto, più umano. Egli non fa sorridere, non intende portare allegria ai suoi lettori, come in genere fanno i poeti dialettali popolari a lui contemporanei. Pone problemi. Per sé e, soprattutto, per la società. Sente, insomma, il suo essere poeta come un impegno morale, teso a sconfiggere le ingiustizie e a purificare la società da ogni menzogna, da ogni sopruso.
Venerdì 29 dalle ore 20.30
Giuse Alemanno racconta il suo “Le vicende notevoli di Don Fefè, nobile sciupafemmine grandissimo figlio di mammaggiusta, e del suo fidato servitore Ciccillo” edito per i libri di Icaro
intervengono Elisabetta Liguori, Antonio Errico e Piero Rapanà.
Giuse Alemanno è nato a Copertino, vive ed opera a Manduria. In “Le vicende notevoli di Don Fefè, nobile sciupafemmine grandissimo figlio di mammaggiusta, e del suo fidato servitore Ciccillo” edito per i libri di Icaro c’è una nuova lingua, suona di dialetto. Inventata, come il cosmo che racconta. Un titolo lungo, con un sapore fortemente e volutamente retrò. C’è il cinema che disegna, nel pensiero dell’autore, la figura di Don Fefè, “cuor contento e panza piena”. Don Felice, il nome vero, nobile di Cipièrnola, incontrastato padrone di Palazzo Rizzo Torregiani Cìmboli, in un Sud dove in corpo scorre il rosso intenso del Primitivo e l’indolenza meridiana delle voglie.
L’inizio di una saga che potrebbe avere come interprete il Mastroianni di “Divorzio all’italiana”. Impomatato, con la retina a tenere i capelli ed il baffo in tiro. Con gli occhi semichiusi, il lungo bocchino e le voglie mai dome.
Domenica 31 maggio dalle ore 20.30
La poesia e i poeti
Irene Leo legge dal suo “Sudapest” edito nei Poet/bar di Besa
Ilaria Solazzo legge dal suo “Gocce nel deserto” edizioni Mancarella
Rita Rucco legge dal suo “Sensi di Versi” edizioni il Filo
Fernando Rausa legge dal suo “Terra mara e nicchiarica” edito da Manni
Maggio, le rose, i libri, i segni, la musica
da giovedì 7 maggio 2009 a domenica 31 maggio 2009
Fondo verri, s. maria del paradiso - Lecce
Telefono: 0832304522
E-mail: fondoverri@tiscali.it
venerdì 1 maggio 2009
L’arte contemporanea e il suo metodo di Demetrio Paparoni (Neri Pozza). Recensione di Maria Beatrice Protino
“L'arte contemporanea ha smesso di essere avanguardia e ha operato un radicale ritorno all'ordine? Gli artisti più noti della scena attuale sono espressione della cultura ufficiale? La figura del critico è scomparsa, schiacciata tra quella del mercante e quella del curatore?” Sono questi alcuni dei temi trattati da Demetrio Paparoni – tra i maggiori critici d’arte italiani – nel libro edito da Neri Pozza Editore nel 2005 e dedicato ad un attento esame sulle caratteristiche dell’arte attuale e su com’è cambiata la dinamica ideologica nell’arte nel corso del Novecento.
Paparoni parla di un caustico “richiamo all’ordine” come caratteristica fondamentale dell’arte di oggi, ancora legata all’estetica e alla poetica, o addirittura alle ideologie progressiste delle cd. avanguardie storiche – simbolismo, cubismo, astrattismo, dadaismo, surrealismo - affermatesi tra Ottocento e Novecento, nonostante si tenti di negarne espressamente o meno i presupposti. Se, infatti, le avanguardie storiche rifiutavano la tradizione e la cultura ufficiali, l’arte attuale sembra compiere il percorso opposto, in tal modo negando a se stessa quel ruolo invece magistrale che dovrebbe esserle connaturato, cioè farsi espressione della società contemporanea.
Scrive P.: “L’arte attuale esprime il sociale e le scoperte che hanno caratterizzato l’inizio del secolo scorso: la consapevolezza dell’esistenza dell’inconscio, i sistemi ideologici e le grandi rivoluzioni scientifiche e politiche di cui ancora oggi rimane traccia. Non esprime, invece, quanto meno non in modo radicale, le rivoluzioni del nostro tempo, prime fra tutte la cibernetica e Internet, la cui conseguenza più evidente sul piano sociale e politico è nel rafforzamento della perversità dei processi di globalizzazione, cioè la diffusione su scala planetaria dell’ideologia del capitalismo di mercato, dei principi della democrazia occidentale e delle merci”.
Al contrario, se le avanguardie del primo Novecento si rapportavano a una élite culturale votata alla sperimentazione, quelle attuali si rivolgono alle masse e da esse rimangono schiacciate. Certo, il livello culturale delle classi medie è elevato, ma il possesso e la comprensione dell’arte spesso costituiscono il raggiungimento di uno status symbol: “Il ricatto delle avanguardie secondo cui chi non capisce è ignorante gioca a sfavore dell’arte nuova perché, piuttosto che indurre alla sua comprensione, “alimenta le mistificazioni”. Molti dei protagonisti dell’arte attuale sono divenuti popolari grazie ai media, per cui appaiono in tv, in programmi di gossip, occupano le pagine di rotocalchi, dalle loro opere si ottengono gadget. “La conseguenza è che gli artisti tra i più interessanti sulla scena internazionale degli ultimi decenni, come Matthew Barney, Damien Hirst, Maurizio Cattelan (…) di fatto sono espressione della cultura ufficiale”. Basta qualche esempio: “Robert Gober affascina perché ci ha incantato il surrealismo e abbiamo assimilato le opere di René Magritte; Maurizio Cattelan per il suo riprendere in chiave attuale le strategie di Filippo Tommaso Marinetti; (…) John Currin per il richiamo al classicismo sempre presente nell’opera di Picasso.”
Si pensi, invece, ad opere come quelle di Paul Cézanne (in particolare Le Mont Saint-Victoire, Les Grandes Baigneuses) o di Pablo Picasso (Les demoisselles d’Avignon) o di Umberto Boccioni (Forme uniche della continuità nello spazio) che, sottolinea P., non rappresentano semplicemente la Rivoluzione industriale in forma simbolica o metaforica, o la scoperta dell’inconscio, la rivolta verso i valori borghesi o ancora altro, ma sono molto di più: “In esse si avvertiva la cesura verso il passato, la tensione dello strappo, la mentalità nuova che sostituisce la vecchia. Utilizzando linguaggi e forme che si identificavano con la modernità, con le tensioni che scuotevano la società di allora”.
Oggi, l’artista si fa invece imprenditore, imprenditore di se stesso, in quanto ha assimilato ormai la mentalità del nostro tempo, che lo ha reso narcisista e ha legato il suo fare arte ad un concetto di autostima estraneo, invece, agli artisti delle avanguardie del Novecento: in una società a capitalismo avanzato il valore economico di una merce diventa unità di misura per valutarne la qualità, per cui “il denaro ha diritto di vita e di morte sull’arte”. Questo lega l’artista ad un rapporto di dipendenza col potere economico, per lui rappresentato magari dal gallerista o dal collezionista e, più in generale, dal sistema del libero mercato: “L’idea che il valore delle cose si misuri in soldi implica che più l’opera d’arte costa (e viene glorificata nei maggiori musei) più il suo messaggio risulterà incisivo”.
La conclusione cui giunge P. consta nell’auspicare il superamento di questa finzione, tale per cui l’artista contemporaneo possa recuperare quella dignità tanto forte ed essenziale, tipica dei protagonisti delle avanguardie storiche.
Demetrio Paparoni (Siracusa 1954) vive a Milano. Critico d'arte, saggista e curatore di mostre, è autore di libri teorici sull'arte contemporanea e di monografie. Nel 1983 ha fondato la rivista d’arte “Tema Celeste”, che ha diretto fino al 2000. È stato tra l'altro commissario al padiglione italiano della Biennale di Venezia del 1993. È professore di Storia dell’Arte Contemporanea alla facoltà di Architettura di Catania.
Paparoni parla di un caustico “richiamo all’ordine” come caratteristica fondamentale dell’arte di oggi, ancora legata all’estetica e alla poetica, o addirittura alle ideologie progressiste delle cd. avanguardie storiche – simbolismo, cubismo, astrattismo, dadaismo, surrealismo - affermatesi tra Ottocento e Novecento, nonostante si tenti di negarne espressamente o meno i presupposti. Se, infatti, le avanguardie storiche rifiutavano la tradizione e la cultura ufficiali, l’arte attuale sembra compiere il percorso opposto, in tal modo negando a se stessa quel ruolo invece magistrale che dovrebbe esserle connaturato, cioè farsi espressione della società contemporanea.
Scrive P.: “L’arte attuale esprime il sociale e le scoperte che hanno caratterizzato l’inizio del secolo scorso: la consapevolezza dell’esistenza dell’inconscio, i sistemi ideologici e le grandi rivoluzioni scientifiche e politiche di cui ancora oggi rimane traccia. Non esprime, invece, quanto meno non in modo radicale, le rivoluzioni del nostro tempo, prime fra tutte la cibernetica e Internet, la cui conseguenza più evidente sul piano sociale e politico è nel rafforzamento della perversità dei processi di globalizzazione, cioè la diffusione su scala planetaria dell’ideologia del capitalismo di mercato, dei principi della democrazia occidentale e delle merci”.
Al contrario, se le avanguardie del primo Novecento si rapportavano a una élite culturale votata alla sperimentazione, quelle attuali si rivolgono alle masse e da esse rimangono schiacciate. Certo, il livello culturale delle classi medie è elevato, ma il possesso e la comprensione dell’arte spesso costituiscono il raggiungimento di uno status symbol: “Il ricatto delle avanguardie secondo cui chi non capisce è ignorante gioca a sfavore dell’arte nuova perché, piuttosto che indurre alla sua comprensione, “alimenta le mistificazioni”. Molti dei protagonisti dell’arte attuale sono divenuti popolari grazie ai media, per cui appaiono in tv, in programmi di gossip, occupano le pagine di rotocalchi, dalle loro opere si ottengono gadget. “La conseguenza è che gli artisti tra i più interessanti sulla scena internazionale degli ultimi decenni, come Matthew Barney, Damien Hirst, Maurizio Cattelan (…) di fatto sono espressione della cultura ufficiale”. Basta qualche esempio: “Robert Gober affascina perché ci ha incantato il surrealismo e abbiamo assimilato le opere di René Magritte; Maurizio Cattelan per il suo riprendere in chiave attuale le strategie di Filippo Tommaso Marinetti; (…) John Currin per il richiamo al classicismo sempre presente nell’opera di Picasso.”
Si pensi, invece, ad opere come quelle di Paul Cézanne (in particolare Le Mont Saint-Victoire, Les Grandes Baigneuses) o di Pablo Picasso (Les demoisselles d’Avignon) o di Umberto Boccioni (Forme uniche della continuità nello spazio) che, sottolinea P., non rappresentano semplicemente la Rivoluzione industriale in forma simbolica o metaforica, o la scoperta dell’inconscio, la rivolta verso i valori borghesi o ancora altro, ma sono molto di più: “In esse si avvertiva la cesura verso il passato, la tensione dello strappo, la mentalità nuova che sostituisce la vecchia. Utilizzando linguaggi e forme che si identificavano con la modernità, con le tensioni che scuotevano la società di allora”.
Oggi, l’artista si fa invece imprenditore, imprenditore di se stesso, in quanto ha assimilato ormai la mentalità del nostro tempo, che lo ha reso narcisista e ha legato il suo fare arte ad un concetto di autostima estraneo, invece, agli artisti delle avanguardie del Novecento: in una società a capitalismo avanzato il valore economico di una merce diventa unità di misura per valutarne la qualità, per cui “il denaro ha diritto di vita e di morte sull’arte”. Questo lega l’artista ad un rapporto di dipendenza col potere economico, per lui rappresentato magari dal gallerista o dal collezionista e, più in generale, dal sistema del libero mercato: “L’idea che il valore delle cose si misuri in soldi implica che più l’opera d’arte costa (e viene glorificata nei maggiori musei) più il suo messaggio risulterà incisivo”.
La conclusione cui giunge P. consta nell’auspicare il superamento di questa finzione, tale per cui l’artista contemporaneo possa recuperare quella dignità tanto forte ed essenziale, tipica dei protagonisti delle avanguardie storiche.
Demetrio Paparoni (Siracusa 1954) vive a Milano. Critico d'arte, saggista e curatore di mostre, è autore di libri teorici sull'arte contemporanea e di monografie. Nel 1983 ha fondato la rivista d’arte “Tema Celeste”, che ha diretto fino al 2000. È stato tra l'altro commissario al padiglione italiano della Biennale di Venezia del 1993. È professore di Storia dell’Arte Contemporanea alla facoltà di Architettura di Catania.
Il libro del giorno: Mr Winchell. La voce dell'America (Alet)
Michael Herr ricostruisce la vita e il tempo di Walter Winchell, il giornalista newyorkese che inventò il gossip, uno dei protagonisti della storia Usa dagli anni '30 ai '60. Come Orson Wells, il mezzo che lo rese famoso fu la radio: la sua capacità di entrare nelle vite dei personaggi della politica e dello spettacolo e di raccontarle con espressioni e aneddoti fulminanti ne fece uno degli uomini più importanti d'America, temuto dai potenti e amatissimo dal grande pubblico. Un racconto che ha il ritmo e la costruzione di un montaggio cinematografico, un libro dove sono i dialoghi a raccontare gli eventi, tra storie di alta società, gangster, ballerine, colpi di genio, amicizie e doppi giochi. Un mix affascinante di biografia e fiction, romanzo e sceneggiatura che coglie tutto il fascino di una delle grandi età dell'oro americane
Mr Winchell. La voce dell'America (Alet, pp. 189, euro 17,50)
casa editrice Alet edizioni : http://www.aletedizioni.it/
"Una piccola perla su ascesa e declino di un potente, incapace di prevedere che la sua principale massima avrebbe colpito per primo lui stesso: Nessuno ama chi non è nessuno"
Matteo Nucci
da Il Venerdì di Repubblica, n. 1102, p.75
Mr Winchell. La voce dell'America (Alet, pp. 189, euro 17,50)
casa editrice Alet edizioni : http://www.aletedizioni.it/
"Una piccola perla su ascesa e declino di un potente, incapace di prevedere che la sua principale massima avrebbe colpito per primo lui stesso: Nessuno ama chi non è nessuno"
Matteo Nucci
da Il Venerdì di Repubblica, n. 1102, p.75
giovedì 30 aprile 2009
Vecchi Tempi di Harold Pinter al Teatro Agorà 80 (Roma)
A soli tre mesi dalla scomparsa del premio Nobel Harold Pinter, l’associazione “Pegaso” porta in scena a Roma una delle sue opere più complesse, dai contenuti ambigui e velatamente audaci, per la presenza di un amore saffico e di un menage a trois mai apertamente dichiarati.
SINOSSI E NOTE DI REGIA
“Vecchi tempi” è una delle opere più complesse di H. Pinter (Premio Nobel per la letteratura). Scritta nel 1970, ha avuto pochissime rappresentazioni ed ogni critica che la riguarda non include mai un punto fermo, un'interpretazione chiara. Questo perché Pinter riesce a scavare nell'animo dei personaggi in modo così profondo da “scoprire il baratro che sta sotto le chiacchiere di tutti i giorni” (motivazione per cui è stato insignito del Nobel).
I protagonisti assoluti sono il tempo e il ricordo, che si impossessano della vita degli unici tre personaggi.
Anna e Kate sono state molto amiche quando avevano circa 20 anni. Dividevano la stessa casa e la loro giovinezza si è sviluppata vivendo alla giornata e frequentando tutti gli ambienti intellettuali di Londra; dai teatri ai concerti alle gallerie d'arte. Per Anna, Kate è un'amica da viziare e coccolare ma è anche una bellissima ragazza per la quale nutre, forse, una sorta di innamoramento. Il legame tra le due è talmente forte che Anna arriva ad immedesimarsi del tutto nell'amica, a rubarle i vestiti, la biancheria, la sua gioia di vivere, i ricordi.
Trascorrono dieci anni da questi fatti e Deeley e Kate si ritrovano nella loro casa di campagna ad attendere la visita di Anna ed è da questo momento che il testo prende il via. I tre si relazionano su diversi livelli ma alla base c'è un gioco erotico, una sensualità che da Anna si propaga verso Kate e Deeley.
Come accade nella maggioranza delle opere di Pinter, i personaggi si muovono all'interno di ambienti domestici, fumano, portano avanti dialoghi serrati che, per Anna e Deeley, rappresentano veri e propri duelli in cui il trofeo è Kate.Grande forza assumono, tra le rapide battute, i lunghi monologhi in cui emerge il cardine del testo: il ricordo. Ogni personaggio ha dei ricordi differenti, propri, pur riguardanti gli stessi fatti e ciò ci impedisce di capire cosa sia accaduto veramente. D'altronde fu lo stesso Pinter a dire che “quando ci guardiamo allo specchio stiamo in realtà guardando una serie infinita di riflessi”...(Giuliana Meli)
Dal 28 Aprile al 3 Maggio 2009 - Ore 21.15, Domenica ore 19.00
Teatro Agorà 80 – via della Penitenza 33, Roma – tel. 06 6874167
Con: Maura Bonelli (Kate), Mario Fazio (Deeley), Giuliana Meli (Anna)
Aiuto regia: Mario Fazio
LE RECENSIONI:
ELISA LORENZINI per Lungotevere.net
http://www.lungotevere.org/sezione.asp?a=27&s=5
ALESSANDRO ALFIERI per Recensito.net
http://www.recensito.net/pag.php?pag=5198
TANIA CROCE per Teatro.org
http://www.teatro.org/spettacoli/dettaglio_spettacolo.asp?id_teatro=180&id_spettacolo=13249
Il libro del giorno: L'assassino etico di David Liss (Tropea)
In un fatiscente trailer park della Florida Lem Altick vende enciclopedie porta a porta per pagarsi l'università quando una coppia di suoi potenziali clienti viene uccisa a sangue freddo davanti a lui. L'assassino, il vegetariano postmarxista Melford Kean, promette allo scomodo testimone di non fargli alcun male a patto che tenga la bocca chiusa. Ma il rischio di venire incolpato del delitto - o peggio, di diventare la prossima vittima - obbliga Lem a stringere con il killer un pericoloso patto di complicità. Chi è il carismatico "assassino etico"? Un fanatico ecoattivista? Un giustiziere sociale? Un violento sociopatico? La ricerca della verità risucchia Lem in una singolare avventura che lega spaccio di anfetamine e battaglie animaliste, un eccentrico boss della malavita che sublima nel volontariato la propria attrazione per i ragazzini e un poliziotto corrotto, goloso di bibite al cioccolato corrette al bourbon. Un allucinato ritratto della "provincia profonda" americana fa da sfondo a questa effervescente commedia nera dai provocatori contorni etici. Lungo i binari adrenalinici del thriller, un timido adolescente compie un insolito viaggio di iniziazione nel mondo degli adulti.
casa editrice: http://www.marcotropeaeditore.it/
"(...) David Liss, autore di L'assassino etico, conosce bene le leggi del thriller. A cominciare dalla prima e più importante: un capitolo deve finire sempre con un colpo di scena completamente inatteso, da saltare sulla sedia"
Antonio D'Orrico
dal Corriere della Sera Magazine n. 17 p. 98 del 30/04/09
casa editrice: http://www.marcotropeaeditore.it/
"(...) David Liss, autore di L'assassino etico, conosce bene le leggi del thriller. A cominciare dalla prima e più importante: un capitolo deve finire sempre con un colpo di scena completamente inatteso, da saltare sulla sedia"
Antonio D'Orrico
dal Corriere della Sera Magazine n. 17 p. 98 del 30/04/09
Stralune di Antonio Errico (Manni editore). Recensione di Elisabetta Liguori
Quanto c’è di noi alla fine di un viaggio? Questo sembra essere il tema principe dell’ultimo romanzo di Antonio Errico, Stralune, di recente pubblicato dalla casa editrice Manni. All’interno del viaggiare, direi, Errico è più catturato dal ritorno, che dalla partenza. Quale è la trama di questo viaggiare? Un ipotetico disertore sfuggito ad un’ipotetica guerra torna nella sua ipotetica casa ed al suo ipotetico passato, finendo per cedere all’inganno del raccontarsi, qui inteso come esito drammatico ma necessario di un qualunque percorso.
Perché questo titolo?
Un buon titolo è sempre o un’anticipazione o una conferma di quello che il testo contiene, in una sorta d’accordo preliminare tra lettore e scrittore. A mio avviso il titolo scelto da Errico per questo nuovo romanzo è una confessione appassionata, è la descrizione sincera di un occhio che scrive. Quella che l’occhio di Errico produce, infatti, non è solo poesia, né solo prosa. È voce pastosa che parla nel sonno, voce implicita, libera, fasica, simbolica. Sincerità ispirata, grondante fisicità. Del sonno ha la stessa vaghezza. La densità, l’indolenza rivelatrice, la visionarietà ombrosa che procede per fasi umorali, illuminando la notte. Da questo titolo è quindi naturale tornare al tema principale, dunque. Il tema del viaggio, dobbiamo dirlo, non può che confrontarsi con quello del tempo, da sempre caro ad Antonio Errico. Il tempo passato qui diventa soggetto attivo, attraverso il ricorso ad un ombra/personaggio. L’ombra insegue la narrazione, la stimola e la rende più profonda, consapevole e acuta. L’ombra avverte, l’ombra ripete, in un gioco sapiente di contrasti l’ombra riesce persino a far luce. L’ombra frammenta i luoghi nelle diverse voci che agitano il paese del ritorno. La madre, il padre, l’amata: queste voci si alternano stralunate; a volte prese dallo stupore, altre dallo sgomento, reagiscono come possono alla tirannia della memoria. Altro punto fondante la narrazione di Errico, infatti, è proprio la memoria, della quale il ritorno e il tempo attraversato si nutrono inevitabilmente. Memoria intesa come balsamo o come malattia? Il disertore, dopo i primi passi incerti nella notte e i primi silenzi angosciosi, comincia a domandarsi a cosa potrà mai servire il suo ritorno, cosa potrà ritrovare, salvare, restituire, sanare. È inevitabile domandarselo, per lui come per tutti, ma quello che più colpisce il lettore è che la risposta a questa domanda universale per Antonio Errico passa essenzialmente attraverso la conoscenza del proprio padre, l’osservazione della propria ombra, l’attesa dell’alba.
I propri passi ripetuti nella casa di famiglia, soprattutto quelli sembrano essere l’aituo fondamentale. Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un altro romanzo che, se pure con toni del tutto diversi, affronta lo stesso tema. Penso a “ La madre che mi manca” di Joyce Carol Oates. In questo ultimo caso è la morte violenta della madre della protagonista ad obbligarla a tornare nella casa di famiglia, a calpestare passi antichi eppure incompresi, a toccare e ritoccare le vecchie mura deserte per tentare di comprendere tutto quello che è andato perso. Perché, per capire qualcosa di sé, è necessario ritornare, ma è pur vero che tutto quanto ci riguarda intimamente, tutto ciò che condiziona il nostro modo di essere, è accaduto quando eravamo troppo distratti e vivi per rendercene conto. Se è vero che il padre è l’origine, la ragione, il perché, l’ombra, è altrettanto vero che nulla sappiamo di quel “perché”, mentre accade. Cogliere a pieno il senso e il dettaglio di quella che è stata la vita dei nostri genitori è sempre gesto a posteriori. Non semplicemente memoria, ma ricostruzione tardiva. Dove ero io quando mia madre aveva quaranta anni e le cose più importanti della nostra vita si compivano? Dove eravamo noi? Chiedersi oggi “dove sono?” equivale per tutti a chiedersi “dove ero?”. La protagonista della storia della Carol Oates, come il reduce di Errico, tornano a se stessi dopo il tempo giusto, col giusto ritardo, e lo fanno per capire e capirsi. Entrambi toccano, calpestano, osservano i vecchi luoghi come se non li conoscessero affatto. Questo stupore stralunato, quindi, accomuna due romanzi seppur diversissimi per stili, atmosfere, ricercatezza del lessico, ambientazione, ma non solo questo. Anche il successivo bisogno di dimenticare le mura del passato, il loro richiamo da sirena, al fine unico di salvare la pelle ed il cuore. E se Errico è sud, lirico, elegante, pietroso, la Oates è America, spumeggiante, ironica, glamour, ma la vera narrazione è vita che va e ritorna come spola sul telaio. Sempre e ovunque.
powered by Salento Poesia
special tank to Mauro Marino
Perché questo titolo?
Un buon titolo è sempre o un’anticipazione o una conferma di quello che il testo contiene, in una sorta d’accordo preliminare tra lettore e scrittore. A mio avviso il titolo scelto da Errico per questo nuovo romanzo è una confessione appassionata, è la descrizione sincera di un occhio che scrive. Quella che l’occhio di Errico produce, infatti, non è solo poesia, né solo prosa. È voce pastosa che parla nel sonno, voce implicita, libera, fasica, simbolica. Sincerità ispirata, grondante fisicità. Del sonno ha la stessa vaghezza. La densità, l’indolenza rivelatrice, la visionarietà ombrosa che procede per fasi umorali, illuminando la notte. Da questo titolo è quindi naturale tornare al tema principale, dunque. Il tema del viaggio, dobbiamo dirlo, non può che confrontarsi con quello del tempo, da sempre caro ad Antonio Errico. Il tempo passato qui diventa soggetto attivo, attraverso il ricorso ad un ombra/personaggio. L’ombra insegue la narrazione, la stimola e la rende più profonda, consapevole e acuta. L’ombra avverte, l’ombra ripete, in un gioco sapiente di contrasti l’ombra riesce persino a far luce. L’ombra frammenta i luoghi nelle diverse voci che agitano il paese del ritorno. La madre, il padre, l’amata: queste voci si alternano stralunate; a volte prese dallo stupore, altre dallo sgomento, reagiscono come possono alla tirannia della memoria. Altro punto fondante la narrazione di Errico, infatti, è proprio la memoria, della quale il ritorno e il tempo attraversato si nutrono inevitabilmente. Memoria intesa come balsamo o come malattia? Il disertore, dopo i primi passi incerti nella notte e i primi silenzi angosciosi, comincia a domandarsi a cosa potrà mai servire il suo ritorno, cosa potrà ritrovare, salvare, restituire, sanare. È inevitabile domandarselo, per lui come per tutti, ma quello che più colpisce il lettore è che la risposta a questa domanda universale per Antonio Errico passa essenzialmente attraverso la conoscenza del proprio padre, l’osservazione della propria ombra, l’attesa dell’alba.
I propri passi ripetuti nella casa di famiglia, soprattutto quelli sembrano essere l’aituo fondamentale. Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un altro romanzo che, se pure con toni del tutto diversi, affronta lo stesso tema. Penso a “ La madre che mi manca” di Joyce Carol Oates. In questo ultimo caso è la morte violenta della madre della protagonista ad obbligarla a tornare nella casa di famiglia, a calpestare passi antichi eppure incompresi, a toccare e ritoccare le vecchie mura deserte per tentare di comprendere tutto quello che è andato perso. Perché, per capire qualcosa di sé, è necessario ritornare, ma è pur vero che tutto quanto ci riguarda intimamente, tutto ciò che condiziona il nostro modo di essere, è accaduto quando eravamo troppo distratti e vivi per rendercene conto. Se è vero che il padre è l’origine, la ragione, il perché, l’ombra, è altrettanto vero che nulla sappiamo di quel “perché”, mentre accade. Cogliere a pieno il senso e il dettaglio di quella che è stata la vita dei nostri genitori è sempre gesto a posteriori. Non semplicemente memoria, ma ricostruzione tardiva. Dove ero io quando mia madre aveva quaranta anni e le cose più importanti della nostra vita si compivano? Dove eravamo noi? Chiedersi oggi “dove sono?” equivale per tutti a chiedersi “dove ero?”. La protagonista della storia della Carol Oates, come il reduce di Errico, tornano a se stessi dopo il tempo giusto, col giusto ritardo, e lo fanno per capire e capirsi. Entrambi toccano, calpestano, osservano i vecchi luoghi come se non li conoscessero affatto. Questo stupore stralunato, quindi, accomuna due romanzi seppur diversissimi per stili, atmosfere, ricercatezza del lessico, ambientazione, ma non solo questo. Anche il successivo bisogno di dimenticare le mura del passato, il loro richiamo da sirena, al fine unico di salvare la pelle ed il cuore. E se Errico è sud, lirico, elegante, pietroso, la Oates è America, spumeggiante, ironica, glamour, ma la vera narrazione è vita che va e ritorna come spola sul telaio. Sempre e ovunque.
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mercoledì 29 aprile 2009
“Dal Buco di una web cam”: la quinta puntata di HiPop!
Per la quinta puntata di Hi-Pop! su SalentoWeb Tv (www.salentoweb.tv) che andrà in onda giovedì 30 aprile 2009 alle 17,30, dal salotto del Caffè Letterario della Libreria Icaro in via L. Romano a Lecce, ho intervistato la giornalista Alessandra Bianco, che in fatto di Eros sia tra le pagine di un libro che in Rete, ne sa una più del diavolo! Si parlerà di luxury tech, peep culture, del nuovo PLAYBOY, di blog e web zine che si occupano di erotismo e affini, nonché di piccanti provocazioni editoriali e di bollenti spiriti. Un viaggio sul lato "caldo" della scrittura senza censura. Un avvertimento: si consiglia caldamente di vedere in coppia questa puntata!
Alcuni dei libri caldi della puntata:
Giorgio Santucci, Fem Dom, Coniglio Editore
Francesca Mazzucato, L' anarchiste, Editore Alberti
Francesca Mazzucato, Confessioni di una coppia scambista, Editore Giraldi
Anais Nin, Il delta di Venere, Editore Bompiani
Jeanette Winterson, Scritto sul corpo, Editore Mondadori
Aleksandar Prokopiev , Voyeur, Besa
Eroxè, Oxè Awards 2006, Editore Zona
Alessandra Bianco (a cura di), Carte segrete. Entra in scena l'eros
Anna Segre, Lezioni di sesso per donne sentimentali, Coniglio editore
Abel Wakaam, La Schiava, Emme K edizioni
Libera Eva, Libera Eva. Frammenti di erotismo decadente fra sogno e perversione, Scipioni Edizioni
I link più hot del momento:
http://coppiascambista2.blog.excite.it/
http://www.rossoscarlatto.net/
http://www.eroxe.it/
http://www.liberaeva.com/
http://www.playboy.it/
Info: Salento Web Tv
Indirizzo: Via Gramsci Lecce - Tel: 329.3982588
Email:info@salentoweb.tv
Alcuni dei libri caldi della puntata:
Giorgio Santucci, Fem Dom, Coniglio Editore
Francesca Mazzucato, L' anarchiste, Editore Alberti
Francesca Mazzucato, Confessioni di una coppia scambista, Editore Giraldi
Anais Nin, Il delta di Venere, Editore Bompiani
Jeanette Winterson, Scritto sul corpo, Editore Mondadori
Aleksandar Prokopiev , Voyeur, Besa
Eroxè, Oxè Awards 2006, Editore Zona
Alessandra Bianco (a cura di), Carte segrete. Entra in scena l'eros
Anna Segre, Lezioni di sesso per donne sentimentali, Coniglio editore
Abel Wakaam, La Schiava, Emme K edizioni
Libera Eva, Libera Eva. Frammenti di erotismo decadente fra sogno e perversione, Scipioni Edizioni
I link più hot del momento:
http://coppiascambista2.blog.excite.it/
http://www.rossoscarlatto.net/
http://www.eroxe.it/
http://www.liberaeva.com/
http://www.playboy.it/
Info: Salento Web Tv
Indirizzo: Via Gramsci Lecce - Tel: 329.3982588
Email:info@salentoweb.tv
LA SCUOLA DI SCRITTURA DI MINIMUM FAX presenta L’APPRENDISTA SCRITTORE
LA SCUOLA DI SCRITTURA DI MINIMUM FAX presenta
L’APPRENDISTA SCRITTORE
consigli, racconti di esperienze, percorsi seminari tematici per imparare il «mestiere» insieme ai grandi scrittori
mercoledì 6 maggio alle 17.30
presso la libreria Altroquando a Roma, via del Governo Vecchio, 82
RAFFAELE LA CAPRIA
inaugura il ciclo di seminarie presenta la nuova edizione del Laboratorio di lettura e di scrittura
a cura di Carola Susani e Giordano Meacci. Coordinano l’incontro i due docenti
LA SCUOLA DI SCRITTURA DI MINIMUM FAX
Laboratorio di lettura e di scrittura
Un laboratorio di 40 ore strutturato in due sezioni: la prima dedicata alla lettura e all’analisi delle tecniche narrative dei grandi scrittori; la seconda dedicata alla scrittura di un racconto: dalla scelta della storia fino all’editing conclusivo.
Inizio lezioni: 25 maggio 2009
Corso di scrittura (II livello)
Pensato come prosecuzione naturale del corso base per consentire agli allievi di affinare e testare il proprio talento letterario e per accompagnarli in un percorso verso la scrittura come mestiere.
Seminari tematici
Incontri e laboratori con scrittori per approfondire temi, tecniche e generi letterari specifici.
Qui tutte le info: http://www.minimumfax.com/corsi.asp?corsiID=19
Tutti i corsi offerti da minimum fax: http://www.minimumfax.com/corsi.asp?corsiID=27
Ulteriori informazioni: corsi@minimumfax.com
L’APPRENDISTA SCRITTORE
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mercoledì 6 maggio alle 17.30
presso la libreria Altroquando a Roma, via del Governo Vecchio, 82
RAFFAELE LA CAPRIA
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a cura di Carola Susani e Giordano Meacci. Coordinano l’incontro i due docenti
LA SCUOLA DI SCRITTURA DI MINIMUM FAX
Laboratorio di lettura e di scrittura
Un laboratorio di 40 ore strutturato in due sezioni: la prima dedicata alla lettura e all’analisi delle tecniche narrative dei grandi scrittori; la seconda dedicata alla scrittura di un racconto: dalla scelta della storia fino all’editing conclusivo.
Inizio lezioni: 25 maggio 2009
Corso di scrittura (II livello)
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Qui tutte le info: http://www.minimumfax.com/corsi.asp?corsiID=19
Tutti i corsi offerti da minimum fax: http://www.minimumfax.com/corsi.asp?corsiID=27
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Mario Desiati, Foto di classe (Editore Laterza). Recensione di Antonio Errico
Sono quelli perduti dietro a un sogno. Sono giovinezze passate all’improvviso. Sono forestieri nel proprio paese. Fatalisti o ribelli. Sono quelli che tornano e non trovano niente di quello che hanno lasciato, se non l’angoscia, il degrado, il Sud abbandonato ad un destino di disfacimento, di corrosione, di costante deprivazione di senso. Sono quelli di una foto di classe con la fissità degli occhi, l’immobilità del tempo, l’immutabilità dello spazio, poi cresciuti e risucchiati nel vortice generato dalle assenze, svuotati dalla consapevolezza dell’impossibilità di ogni azione, di ogni reazione nei confronti di una condizione bastarda, separati da se stessi da un baratro che spalanca distanze spaventose. Sono quelli che non hanno più conti aperti con nessuno, se non con la memoria, con i propri fantasmi che si affollano negli occhi a ricordare che il passato ha un volto dolcissimo oppure quello deforme di un demone maligno.
In “ Foto di classe” ( Laterza, 2009), Mario Desiati entra nelle loro vite. Ne decifra i destini. Ne svela le depressioni, i fallimenti, le delusioni. Qualche soddisfazione. Qualche rivincita.
Sono quelli che rappresentano una generazione che fugge o che resta in una provincia disperata e maledetta da una storia che ha trasformato la Magna Grecia in una succursale dell’inferno, quelli che prendono con se stessi l’impegno di ritornare di tanto in tanto per ubriacarsi nella bisboccia e dimenticare il motivo per cui sono andati via.
Perché c’è qualcosa – una forza misteriosa, un vincolo di sangue, un richiamo ancestrale – che li attrae verso l’origine, che ribadisce un’appartenenza, che li riporta costantemente – ossessivamente – verso il punto di partenza, li turba, li marchia come l’immagine del santo protettore della sua città che Lucio si fa tatuare sul bicipite, o come la malinconia sottile di Marianna, che si deposita dentro di lei, si stratifica, diventa ansia contratta, nudità di confessione, tenero abbandono.
Sono quelli che riescono a vivere in una condizione di lontananza rimanendo con il pensiero sprofondato nella loro infanzia, ancora frastornati da scoperte stuporose, dal calore di una mano di padre.
Questo libro di Mario Desiati è un viaggio nella coscienza di una perdita del tempo che una generazione ha avuto fino all’istante in cui quei volti e quei nomi che ne costituiscono la sintesi e il simbolo non cominciano a raccontare. Nella durata del racconto, nei minuti e nella dimensione dell’incontro, si verifica l’evento della riappropriazione, il ricongiungimento con una identità custodita nella profondità dell’essere. Chi racconta riattraversa luoghi, ritrova quell’universo di esperienza dell’età che va dalla adolescenza alla giovinezza, quella stagione terribile e meravigliosa in cui si induriscono le ossa e talvolta anche il cuore, che attribuisce ad ogni cosa che accade, ad ogni piccola felicità, ad ogni minuscolo dolore, un valore straordinario e assoluto.
Chi racconta accetta di confrontarsi anche con il rimosso. Talvolta con il rimorso. Più o meno consapevolmente sa che per ritrovare si deve anche disseppellire, a volte, che si deve sprofondare dentro di sé e scrutare lontano, fino a portare lo sguardo al limite del racconto, sulla soglia ghiacciata del silenzio.
Ecco. Questi compagni di scuola sono quelli che poi, alla fine, scelgono il silenzio. Anche Mario poi, alla fine, sceglie un silenzio impregnato di commozione malcelata. Cala il silenzio quando a conclusione del resoconto, si prende atto con lucida evidenza che della vita anteriore a quell’attimo rimane soltanto la possibilità di un ricordo rappreso, forse anche un rimpianto, più spesso un rammarico, uno smarrimento, una disperazione controllata, pacata, quieta. Una consapevolezza di ineluttabilità. In qualche caso un risentimento nei confronti di quella provincia a Sud che a tarda sera affida la sua gente ai treni che vanno verso il Nord, promettendo un benessere che qui viene negato, un’esistenza che non ha il travaglio della precarietà.
Questo è un libro che ad ogni pagina dispiega una nuova concezione e dimensione della meridionalità: non ha luoghi comuni, non ha artifici, non ha retorica. E’ concreto, essenziale, intimo e corale; a volte ha un tono inquieto, a volte rassegnato. Esattamente come sono i toni di quelli che sono rimasti o di quelli che sono andati.
Mario Desiati, Foto di classe, Editore Laterza, Collana Contromano, pp. 144
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special tank to Mauro Marino
In “ Foto di classe” ( Laterza, 2009), Mario Desiati entra nelle loro vite. Ne decifra i destini. Ne svela le depressioni, i fallimenti, le delusioni. Qualche soddisfazione. Qualche rivincita.
Sono quelli che rappresentano una generazione che fugge o che resta in una provincia disperata e maledetta da una storia che ha trasformato la Magna Grecia in una succursale dell’inferno, quelli che prendono con se stessi l’impegno di ritornare di tanto in tanto per ubriacarsi nella bisboccia e dimenticare il motivo per cui sono andati via.
Perché c’è qualcosa – una forza misteriosa, un vincolo di sangue, un richiamo ancestrale – che li attrae verso l’origine, che ribadisce un’appartenenza, che li riporta costantemente – ossessivamente – verso il punto di partenza, li turba, li marchia come l’immagine del santo protettore della sua città che Lucio si fa tatuare sul bicipite, o come la malinconia sottile di Marianna, che si deposita dentro di lei, si stratifica, diventa ansia contratta, nudità di confessione, tenero abbandono.
Sono quelli che riescono a vivere in una condizione di lontananza rimanendo con il pensiero sprofondato nella loro infanzia, ancora frastornati da scoperte stuporose, dal calore di una mano di padre.
Questo libro di Mario Desiati è un viaggio nella coscienza di una perdita del tempo che una generazione ha avuto fino all’istante in cui quei volti e quei nomi che ne costituiscono la sintesi e il simbolo non cominciano a raccontare. Nella durata del racconto, nei minuti e nella dimensione dell’incontro, si verifica l’evento della riappropriazione, il ricongiungimento con una identità custodita nella profondità dell’essere. Chi racconta riattraversa luoghi, ritrova quell’universo di esperienza dell’età che va dalla adolescenza alla giovinezza, quella stagione terribile e meravigliosa in cui si induriscono le ossa e talvolta anche il cuore, che attribuisce ad ogni cosa che accade, ad ogni piccola felicità, ad ogni minuscolo dolore, un valore straordinario e assoluto.
Chi racconta accetta di confrontarsi anche con il rimosso. Talvolta con il rimorso. Più o meno consapevolmente sa che per ritrovare si deve anche disseppellire, a volte, che si deve sprofondare dentro di sé e scrutare lontano, fino a portare lo sguardo al limite del racconto, sulla soglia ghiacciata del silenzio.
Ecco. Questi compagni di scuola sono quelli che poi, alla fine, scelgono il silenzio. Anche Mario poi, alla fine, sceglie un silenzio impregnato di commozione malcelata. Cala il silenzio quando a conclusione del resoconto, si prende atto con lucida evidenza che della vita anteriore a quell’attimo rimane soltanto la possibilità di un ricordo rappreso, forse anche un rimpianto, più spesso un rammarico, uno smarrimento, una disperazione controllata, pacata, quieta. Una consapevolezza di ineluttabilità. In qualche caso un risentimento nei confronti di quella provincia a Sud che a tarda sera affida la sua gente ai treni che vanno verso il Nord, promettendo un benessere che qui viene negato, un’esistenza che non ha il travaglio della precarietà.
Questo è un libro che ad ogni pagina dispiega una nuova concezione e dimensione della meridionalità: non ha luoghi comuni, non ha artifici, non ha retorica. E’ concreto, essenziale, intimo e corale; a volte ha un tono inquieto, a volte rassegnato. Esattamente come sono i toni di quelli che sono rimasti o di quelli che sono andati.
Mario Desiati, Foto di classe, Editore Laterza, Collana Contromano, pp. 144
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special tank to Mauro Marino
RAM_ 09 Rome Art & Music a cura di NUfactory
L’Associazione Culturale NUfactory presenta -in prima assoluta- RAM_ 09 Rome Art & Music, evento che mette in relazione artisti, musicisti e forme d’espressione diverse in un processo di interazione e scambio culturale.
Negli spazi del Teatro Palladium, sarà allestita una mostra collettiva di pittori e fotografi che, attraverso la loro arte, racconteranno i musicisti e i luoghi dedicati alla musica. Nove situazioni musicali, tra le più diverse. Dalla tradizione del Saltarello, ai nuovi box della periferia romana dove le giovani band provano i loro brani, dal rock al jazz di respiro internazionale passando per i ritmi funky suonati in strada, dalla musica medioevale alle selezioni elettroniche da club. Osservare e ascoltare Roma per capire il rapporto che la città ha con la musica.
IL VERNISSAGE - la musica si mostra
Palladium, piazza Bartolomeo Romano 8
h19.00
Tu Mazu
Germano Serafini
Damiano Tullio
Massimo Chioccia
Olga Tsarkova
Sebastian Comelli
Sara Purgatorio
Barbara Fagiolo
Fabio Gaigher
Box 23
Mario D’Angelo
Marco Rea
Chiara Fazi
Guido Gazzilli
Michele D’Aloisio
Marie Sjöberg
Sandro Cipolletti
Simone Manetti
JBRock & Diamond
Chiara Giustiniani
Francesca Lattanzi
Francesca De Angelis
Lara De Angelis
L’8 Maggio, durante il vernissage di apertura, l’osservatore non sarà posto davanti alla sola opera, ma anche e soprattutto all’interno delle atmosfere che ne hanno stimolato il processo creativo.
Sul palco del teatro Palladium si esibiranno in una grande jam session:
Gruppo Giuseppe Gianberti
J Point Trio
Alessandro Mazziotti
Nel ricco programma artistico spiccano, tra tutti i nomi presenti, collaborazioni importanti come quelle con il jazzista Paolo Fresu, tra i musicisti italiani più apprezzati all’estero, Carl Craig, icona della musica elettronica, Francesco Tristano, l’eclettico pianista che si cimenta spesso in progetti di contaminazione di musica classica ed elettronica, o le crew romane dei Colle der Fomento e dei One Love Hi Pawa.
RAM, memoria a breve termine sul ruolo che la musica ricopre a Roma. Una mostra collettiva che riunisce venticinque artisti e fotografi per raccontare gruppi e singoli musicisti, attraversando quei luoghi che sono dei punti di riferimento musicale per i romani. Nove percorsi specifici: dalla musica di strada, ad un cornershop, passando per musicisti più o meno affermati, mettendo al bando pregiudizi di generi, gusti, età e territorialità. RAM_09 indaga il rapporto tra musica e arti visive: non serve per forza la radio per scoprire qual'è oggi il sound della Capitale.
IL PARTY - il sound della capitale
Rising Love, via delle Conce 14
h 23.00
Al termine dell’evento di apertura, Ram_09 continuerà a esporsi al Rising Love mostrando la sua veste clubbing in un party che accoglierà nomi di grande richiamo della scena romana come:
Funkallisto, live
Duccio B from One Love HI Pawa
Dj Baro from Colle Der Fomento
Cyberfunk della crew di Deep Session
da venerdì 8 maggio 2009 a martedì 9 giugno 2009
Teatro Palladium - Rising Love
piazza Bartolomeo Romano 8, via delle conce, Roma
Negli spazi del Teatro Palladium, sarà allestita una mostra collettiva di pittori e fotografi che, attraverso la loro arte, racconteranno i musicisti e i luoghi dedicati alla musica. Nove situazioni musicali, tra le più diverse. Dalla tradizione del Saltarello, ai nuovi box della periferia romana dove le giovani band provano i loro brani, dal rock al jazz di respiro internazionale passando per i ritmi funky suonati in strada, dalla musica medioevale alle selezioni elettroniche da club. Osservare e ascoltare Roma per capire il rapporto che la città ha con la musica.
IL VERNISSAGE - la musica si mostra
Palladium, piazza Bartolomeo Romano 8
h19.00
Tu Mazu
Germano Serafini
Damiano Tullio
Massimo Chioccia
Olga Tsarkova
Sebastian Comelli
Sara Purgatorio
Barbara Fagiolo
Fabio Gaigher
Box 23
Mario D’Angelo
Marco Rea
Chiara Fazi
Guido Gazzilli
Michele D’Aloisio
Marie Sjöberg
Sandro Cipolletti
Simone Manetti
JBRock & Diamond
Chiara Giustiniani
Francesca Lattanzi
Francesca De Angelis
Lara De Angelis
L’8 Maggio, durante il vernissage di apertura, l’osservatore non sarà posto davanti alla sola opera, ma anche e soprattutto all’interno delle atmosfere che ne hanno stimolato il processo creativo.
Sul palco del teatro Palladium si esibiranno in una grande jam session:
Gruppo Giuseppe Gianberti
J Point Trio
Alessandro Mazziotti
Nel ricco programma artistico spiccano, tra tutti i nomi presenti, collaborazioni importanti come quelle con il jazzista Paolo Fresu, tra i musicisti italiani più apprezzati all’estero, Carl Craig, icona della musica elettronica, Francesco Tristano, l’eclettico pianista che si cimenta spesso in progetti di contaminazione di musica classica ed elettronica, o le crew romane dei Colle der Fomento e dei One Love Hi Pawa.
RAM, memoria a breve termine sul ruolo che la musica ricopre a Roma. Una mostra collettiva che riunisce venticinque artisti e fotografi per raccontare gruppi e singoli musicisti, attraversando quei luoghi che sono dei punti di riferimento musicale per i romani. Nove percorsi specifici: dalla musica di strada, ad un cornershop, passando per musicisti più o meno affermati, mettendo al bando pregiudizi di generi, gusti, età e territorialità. RAM_09 indaga il rapporto tra musica e arti visive: non serve per forza la radio per scoprire qual'è oggi il sound della Capitale.
IL PARTY - il sound della capitale
Rising Love, via delle Conce 14
h 23.00
Al termine dell’evento di apertura, Ram_09 continuerà a esporsi al Rising Love mostrando la sua veste clubbing in un party che accoglierà nomi di grande richiamo della scena romana come:
Funkallisto, live
Duccio B from One Love HI Pawa
Dj Baro from Colle Der Fomento
Cyberfunk della crew di Deep Session
da venerdì 8 maggio 2009 a martedì 9 giugno 2009
Teatro Palladium - Rising Love
piazza Bartolomeo Romano 8, via delle conce, Roma
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