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giovedì 1 ottobre 2009

“Muse” di Tonino Vincent Caputo (Luca Pensa editore). Recensione di Vito Antonio Conte

Nello scorso mese di giugno, Luca Pensa Editore (ch'è anche il mio Editore) ha dato alle stampe, proseguendo in un apprezzabile “lavoro” iniziato diversi anni addietro, cioè pubblicare poesia, l'ultima raccolta di versi di Tonino Vincent Caputo (“Muse”, Collana AlfaOmega, pagine 82, € 12,00). Caputo, nativo di Ascoli Satriano (FG) e magliese d'adozione, mi ha chiesto, tramite l'Editore, di prefarre l'opera citata. Non credo molto agli “interventi” fuori testo nel testo, anche se diversi ne ho fatti, altre volte li ho richiesti. Non credo alle pre-fazioni, post-fazioni e varie quando sono prezzolate e/o rientrano in mere operazioni di marketing. Siccome non mi hanno pagato per farlo, né era pensabile che una mia “nota” potesse far vendere foss'anche una copia in più del libro, ho letto la raccolta e, verificata quella che mi è sembrata essere una scrittura sincera (...), ho accettato di scrivere quella che ho chiamato “Se la musa tocca il cuore...”. Ve la ripropongo qui di seguito, dando un po' di “visibilità” al libro perché credo che l'Autore lo meriti. Non ho mai incontrato di persona Tonino Vincent Caputo; qualcosa di lui, comunque, so. Senza presunzione. So (o credo di sapere) che ama i luoghi di confine, quelli dove l'incerto è di casa, dove non crescono i mondi assurdi costruiti dall'uomo, dove l'uomo ha ancora una possibilità di salvezza, dove la solitudine è compagna e ti tiene la mano intanto che le assenze emergono e s'annullano nel d'intorno (ch'è regno della Natura), dove una voce arriva leggera e ridesta ricordi, dove è facile perdersi senza smarrirsi, dove la spietata curva del tempo è amica, dove il vento è suono d'armonia, dove luce e buio s'inseguono senza confondersi, dove stare per sempre sarebbe facile. Se non fosse che, in modo viscerale, anche il resto gli appartiene e, in qualche modo, al resto appartiene lui. Caputo ama starsene ai margini di quel resto. Osservare e nutrire pensieri. Caputo non può far altro che fermare tempo e pensieri con le parole. Per sentirsi vivo. Per far sentire ch'è vivo. Per dirla quella sua vita. Non sa, Caputo (schernendosi), se il suo dire l'esistenza in versi è poesia. Preferisce, umilmente, che siano gli altri a dirlo. Nemmeno io so se i suoi versi sono poesia. Poco importa. Quel che davvero conta è che (sia che le parole assumano liricità alte, sia che diventino invettiva, sia che esprimano altro...) nei versi di Caputo non alberga mistificazione alcuna. Chissà, conoscendolo potrei mutare il mio sentire, ma il mio istinto e la lettura di questo libro mi dicono (senza arroganza) che Caputo è uomo che guarda dritto in faccia chi gli sta di fronte e, soprattutto, dice quel che pensa, senza riserve, a costo di giocarsi qualche rapporto, ché i rapporti importanti sono quelli autentici, dove forma e sostanza coincidono. I versi di questa raccolta raccontano questo, testimoniano dei fallimenti e delle gioie di un uomo, delle sue aspirazioni, delle sconfitte e dei sogni rimasti intonsi nonostante i giorni e le nefandezze del quotidiano stare in questa Terra, delle speranze ancora coltivate e delle piccole felicità che -se le riconosci- sono dietro l'angolo, narrano di chi c'è ancora e del ricordo di chi è altrove. E dell'amore. Di quello andato. Di quello che sarebbe potuto essere e non è stato. Di quello espresso. Di quello conservato dentro. Di quello taciuto. E di quell'amore che non può tacersi, che pulsa irresistibilmente dentro, tanto da esplodere, deflagrando in parole. Parole che danno vita eterna a questi versi. Qui, aggiungo che -scrivendo queste poche righe- pensavo, in particolare, a una poesia che chiude così: “Un giorno qualcuno forse / ti parlerà di me, lusingandomi / usando parole / fino ad ora a noi sconosciute. / Ma allora figlia mia / non ci sarò più, / e tu gli risponderai / che avresti preferito / un padre ad un poeta”.

Il volume può essere richiesto alla mail penspol@alice.it

domenica 20 settembre 2009

LA VITA NON È UN GIOCO - QUEL CHE RESTA DELLA POLVERE DI VITO ANTONIO CONTE, letto da Silla Hicks (Luca Pensa editore)

















No, non è un gioco, questo quadernetto che davvero spero non ce ne siano 188 copie soltanto sparse per il mondo, perché la vita non è un gioco, l’amore non è un gioco, e nemmeno il dolore che si prova a respirare ogni giorno. Piuttosto, è un labirinto, quel maledetto castello dei destini incrociati in cui tutti prima o poi ci siamo persi, senza che nessun corpo dei Marines si ricordasse di venire a salvarci e spesso senza nemmeno la speranza, come i Russi dentro al teatro ostaggio dei Ceceni, la loro rassegnata mancanza di attesa della cavalleria più straziante dello schianto degli aerei contro le torri. Tutti ci siamo addormentati in un treno vuoto su un binario morto, per svegliarci e scoprire che non c’era nessun posto dove andare, e vaffanculo se era il nostro letto e la nostra stanza e tutto il resto, vaffanculo se era estate o inverno, eravamo noi, fermi lì, eravamo noi e attorno non c’era più niente, nemmeno il ricordo di una ragazza cui avevamo lasciato un foglietto azzurro con i versi di qualcuno, a farci compagnia. E certo che, cazzo, altre volte era servito, rileggere quelle righe e ricordare l’emozione di quei cocci di tempo in cui era sembrato possibile, perché se c’è una cosa che sta dentro all’amore è la speranza, e anche se non era amore c’assomigliava, e si trascinava come un aquilone una coda di speranze, di sogni adolescenti e di euforia, e vaffanculo se è durato un pomeriggio, se è svanito prima che potessimo imprimerci il colore di occhi e capelli: a vita non lo scorderemo, il suo odore. E a ciascuna abbiamo dato quello che potevamo, per quello che eravamo in quell’istante, e pazienza se era solo qualche brandello di quello che saremmo stati, se la vita avesse avuto un senso. Se non ci portassimo i nostri errori nello zaino, e una ferita purulenta che ci fa tremare di febbre sotto al sole di questo agosto che non vuol finire, che l’unica volta che ho fatto il bagno era notte, ed ero così ubriaco da non ricordarmi più nemmeno come si nuota a stile, e mi sono solo lasciato galleggiare, per chilometri, cetaceo morente che lotta per non spiaggiarsi, gli occhi sbarrati nell’acqua nera, e poi tornare indietro ed odiare il mondo che esisteva ancora. Avrei fatto qualsiasi cosa per cancellare l’incancellabile, la gomma in inglese si chiama eraser, perché cancella, to erase, appunto vuol dire cancellare, ma non ci sono gomme in una vita – in tante vite – che vorremmo riscrivere. In cui stiamo inchiodati a sputare bestemmie nel vento.
In cui siamo a pezzi, broken into a thousand pieces, rotti in mille pezzi, e nessuno può ricomporli, o – il che è uguale – chi potrebbe non vuole. E la musica fa male come aghi dentro agli occhi, lancinante come il ricordo, e neanche perdere la memoria servirebbe, il dolore è nell’aria che respiriamo, e senza non potremmo esistere. Così, ci abituiamo e lo teniamo per la mano, questo blues che gronda sangue marcio e assieme fiori, senza il quale di noi non rimarrebbe niente, perché il resto – il lavoro, i soldi, i libri e i film, tutti i traguardi che abbiamo provato a tagliare e quelli che ci sono sfuggiti – è squallido palliativo, serve solo a riempire il tempo che hai vuotato. E non possiamo non accorgercene, illuderci che basti, girarci dall’altra parte, rimetterci a dormire, come se non fossi mai esistita, come se questo ammasso di cose bastasse ad essere il mondo. No, davvero non è un gioco, questo quadernetto che condensa quel che rimane della polvere che è stato il giorno, Ishiguro consapevole o meno, con dentro quel pensiero triste che si balla che è stato il tango di Borges. E davvero spero che non ce ne siano solo 188 copie, quando che ne stanno 188 mila di cazzate che lasciano tutto come l’hanno trovato, Mc bestseller del cazzo con dentro il vuoto di Newton, ma su questo ho sempre detto come la penso, perciò sono accanito sostenitore dello streaming, the pirate bay (per adesso, purtroppo, fenomeno limitato alla musica) come metafora di quello che dovrebbe essere il mondo.
Se anche fosse, comunque, e non vi riuscisse di trovarlo, questo libricino che peraltro contiene testi a fronte in due lingue (spagnolo e inglese, disgraziatamente manca proprio il mio tedesco) e illustrazioni che hanno di Manara, fatevi vivi. In ufficio da mia sorella c’è una fotocopiatrice, male che vada, le chiederò un favore.

martedì 11 agosto 2009

Torpedo, vol. 1 (Edizioni BD). Di Vito Antonio Conte

Sto pensando di raccogliere i brevi racconti che ho scritto nel tempo, sparsi un po' dovunque, per una serie di coincidenze che non credo possano interessarvi e che, comunque, ora non dirò. C'è che -adesso- mi piace (anche) leggere testi brevi (poesia, storie... magari a fumetti), come quelle di “Torpedo” (Volume 1, Edizioni BD, 2007, pag. 141, € 15,00). Torpedo è il nome di battaglia di Luca Torelli, personaggio creato da Jordi Bernet, disegnatore professionista sin dall'età di quindici anni, autore spagnolo che (unanimemente) è quello che meglio ha evocato le atmosfere del cinema noir, non disdegnando incursioni nel fumetto umoristico (“Chiara di Notte”) e noto anche per aver disegnato (per Bonelli) il “Texone”, “L'uomo di Atlanta”. Le vicende di Torpedo sono state disegnate anche da Alex Toth, uno dei giganti del fumetto, specializzato in adattamenti di film e serie televisive (una delle sue opere più famose è “Zorro”). Le storie di questo fumetto sono sceneggiate da Enrique Sànchez Abulì. Luca Torpedo è uno di quegli uomini che tra il bene e il male ha scelto il male perché la scelta, nel tempo e nel luogo in cui vive, è pressoché obbligata. Le tavole di questo fumetto, infatti, raccontano storie frequentate da una masnada di delinquenti e criminali di ogni taglia, infami, affaristi (grandi e piccoli), puttane e poliziotti corrotti, che girano (armati) per i bassifondi di New York nella seconda metà degli anni trenta. Questa giungla fumosa e sporca di rar'altra umanità è dominata dal nostro killer di professione, tale diventato per reazione ai soprusi subiti da ragazzino da parte di un poliziotto che presto diventerà la sua prima vittima (senza mandante). Mi viene in mente quando, quasi nudo sul lettino ortopedico di un'altra parte di mondo, per risolvere un problema di sciatica post agonistica, lei mi chiese che lavoro facessi e io le risposi: il killer! Non vi racconto il resto, vi dico soltanto che smise di parlare: usò la bocca per far altro. Ma nemmeno di questo vi dirò. Una carognata direte. Niente in confronto alle avventure di Torpedo. Sentite questo incipit: “Se l'avessi fatta secca, ora non bacerei le sue labbra carnose... né mi spupazzerei il suo corpo. Le ho detto che sono uno sbirro, e lei l'ha bevuta. Caso vuole che io sia l'esatto contrario... Quelli che mi conoscono e che non l'hanno ancora pagato con la vita mi chiamano Luca... Luca "Torpedo". Il lavoro mi era stato commissionato da tale Bergson. Mille bigliettoni. Per una cifra simile ammazzerei anche mio padre, pace all'anima sua. Ma non mia madre, poveretta, che era una santa. Mi disse dove e quando l'avrei incontrata. Era una bomba, tipo quelle dei film. Fu molto puntuale. Il che non è poco, trattandosi di una femmina. Era uno schianto. Mirai al volto e pensai ai mille verdoni. Solitamente funziona. Ma feci cilecca, non mi era mai successo. Invece di ammazzarla, la seguii. La abbordai e...”. Il bello del fumetto è che puoi mettere la tua immaginazione di lettore di fronte a quella del disegnatore. Le parole lasciano più spazio alle proprie immagini. Ma quando le immagini già ci sono, allora puoi dilettarti a giocare mettendo a confronto quelle che pensi e che sono evocate dal testo con quelle del disegnatore: possono sovrapporsi; più spesso divergono. In ogni caso, quelle del fumetto (di qualunque fumetto) raramente aderiscono (diversamente dal cinema, in cui alle immagini si aggiunge l'animazione) alla realtà, per quanto reale possa essere la storia narrata. È la magia del fumetto. Dopo, quando chiudi il libro, rimane sempre un nonsoché di sospensione tra l'onirico e la realtà. E mi piace. Mi piace moltissimo. Ch'è l'unica vita possibile. Tornando a Torpedo c'è da aggiungere che, al di là delle facili intuizioni sul tipo con cui si ha a che fare, come tutti i duri per necessità, fa fuori altrettanti tipacci di cui nessuno sentirà la mancanza e, comunque, lungi dall'essere un qualsivoglia eroe, Luca Torelli (italiano emigrato in America) colpisce per l'ironia con cui si muove nella vita e nella morte e, ancor più, per la capacità di sorridere di se stesso. Storie pesanti narrate con leggerezza. Lettura consigliata dai quattordici ai quarantotto anni. Io sto al limite e, infatti, passo a leggere altro. Vi farò sapere.

martedì 28 luglio 2009

IERATICO POIETICO (BESA) IL 30 LUGLIO AL LIDO LE DUNE DI PORTO CESAREO

Il 30 luglio alle ore 21,30 presentazione del volume “Ieratico Poietico” presso il lido Le Dune Via dei Bacini, 89, di Porto Cesareo (Lecce) nell'ambito della rassegna "Autori sotto le stelle". Introduce Vito Antonio Conte.

Ieratico poetico (Besa editrice) è sviluppato in tre movimenti dove si alternano l’accumulazione e la riflessione, il lirismo e la prosa, italiano e inglese, autobiografismo e citazionismo. Il primo e più corposo movimento, Flumen, dirige il corso del poema in gran parte degli esiti successivi. Ne è messa in luce un’umanità (in)dolente («fottere gli stranieri / fottere i dispersi / fottere i disadattati»), come dolenti sono le mura del paesaggio cittadino che fa da sfondo («dove i piccioni smerdano / gli archi grandiosi») e dolente è il canto po(i)etico dell’autore («quanta fatica / ogni giorno / evitare gli abissi / barattare parole / mentre il giorno / vacilla / sui miei occhi / imploranti / misericordia»). Fiumi di citazioni letterarie, filosofiche, musicali e cinematografiche (si parte con Charlie Chaplin per finire a Vin Diesel) costituiscono la nervatura del poema che anche per questa caratteristica è necessario definire iper-moderno. Allo stesso modo interessante è la ripresa ciclica all’interno del poema di quello che il poeta stesso, nell’ultima pagina del libretto, definisce «un discorso di denuncia del mercato dello spettacolo, del trionfo della macchina, sentendo l’invenzione poetica come documento etico». Una denuncia che appare evidente nella ‘trama’ del poema e che tende ad assumere i tratti di un discorso ancor più vasto, che fa ricorso alla storia del Novecento, alla crisi della società post-industriale, riprodotta baustellianamente con le immagini della crisi dell’individuo, nei bar, in casa, per strada, in gruppo, in treno, ovunque gli sia possibile «protestare... che il viaggio è troppo lungo». Ha scritto Luciano Pagano nell’introduzione, dal titolo “Una canzone di città”, al poema di Stefano Donno: «Rispetto ai maledetti del secolo scorso Stefano Donno ha un vantaggio, quello di poter mascherare e nascondere il suo ego dietro un affastellarsi di immagini che non ha più il suo referente nei papiri inceneriti di una biblioteca alessandrina, bensì in una wikipedia infinita nella quale tutti i linguaggi e tutte le nozioni si trasformano nei colori di una palette personale. Questi versi regalano ordine alla visione di un mondo caotico, malgrado la dichiarazione di non intento al poetare di altro, “sguardi / in un cesso di locale / che arrivano a testa bassa / tra codici sorgenti”».

mercoledì 3 giugno 2009

Seconda lettura di Vito Antonio Conte su "I Bruchi" di Giovanni Bernardini (Manni)

Avevo letto qualcosa di Giovanni Bernardini su antologie e altro. Poi “Provincia difficile”, un vecchio libro del 1969, trovato in un banchetto di libri usati. L'ho conosciuto personalmente l'anno scorso, davanti al bel camino acceso della “Serrizùla”, quando si sradicò dai suoi tanti malanni fisici, da lui stesso elencati a mò di esorcismo, e ci concesse una parte di sé, leggendoci -tra l'altro- un suo racconto pubblicato su “L'Albero”, la storica rivista di Girolami Comi. Devo conservarne una copia autografata da qualche parte, tra le infinite carte che conservo quasi maniacalmente. Tante carte. Troppe. Nonostante il mio periodico selezionare, eliminare, disfarmi. C'è che dovrei -come pure mi è già accaduto di fare- liberarmi di tutto. Carte, libri, quaderni, zibaldoni, agende, copie, fotocopie, oggetti e chincaglieria d'ogni tipo e andare via. Dovrei andare via. Vorrei andare via. Sparire, perdermi, ricominciare. Forse. C'è che qualcosa in un modo qualunque è morta. C'è che è viva più che mai. Dovrei andare altrove. Disfarmi di questa vita e andare via. Questa vita che amo. Qualche giorno addietro, ho finito di leggere l'ultimo libro di Giovanni Bernardini, “I bruchi ovvero Il ragazzo in fondo al mare”, edito da Manni. Ho detto l'ultimo: credo di sbagliare: Mimma mi dice che n'è stato appena pubblicato un altro. Mi dice anche il titolo, ma non lo ricordo. E non ho voglia di cercarlo. Adesso, dopo una funzione religiosa in swahili per un grande uomo, con canti che mi hanno aperto il cuore, già spezzato di suo e d'altro, ascolterò la voce di lei e non aggiungerò niente (...), dirò qualcosa, invece, su “I bruchi”. Titolo che mi piace poco. Molto di più mi piace il sottotitolo “Il ragazzo in fondo al mare”. È un romanzo schizoide e razionale, è schizzato e naturale, è folle e meditato, è vecchio e nuovo, è patologico e sano, è antico e moderno. È tutto. È niente. È memoria che vuole affogare la memoria. È memoria che vuol ricordare la memoria. È un atto dovuto a se stesso. È un atto doveroso verso qualcun altro. È un atto voce del verbo dare. Rendere, meglio, a sé e agli altri. Ma, soprattutto, è una scrittura fuori dagli schemi, fuori da ogni schema, fuori da qualsiasi possibile schema. E non chiedetemi di spiegare ciò che dico. So ch'è così. Lo sento. È istinto il mio. Potrei cercare le ragioni per quanto dico, ve le potrei indicare. Potrei farlo. Ma oggi non è cosa. E non lo sarà più. Ché di questo libro parlo oggi e mai più. Fidatevi di quel che dico. Fidatevi di me. Non ho mai raccontato fandonie. Per questo, anche quando capita che sto male, vivo bene. Questo libro è fuori, scritto da uno ch'è fuori, come si può essere soltanto quando non si deve rendere più conto a nessuno, tranne a Uno, ma con quell'Uno hai rapporti talmente chiari che non ci potranno mai essere equivoci, né fraintesi, ché ci si conosce bene ormai. Questo libro è fuori, scritto da uno ch'è fuori, come si può essere soltanto quando sei ultraottuagenario e somigli a un novenne: ne hai viste tante e tali che non te ne può fottere più di niente di quel che per una vita forse t'ha intristito, t'ha fatto male, t'ha dato scazzo, t'ha angosciato, t'ha addolorato... E le cose della vita continuano a toccarti, eccome se ti toccano, ma dentro c'è la forza di un bambino, quell'incoscienza così saggia che te la fa dire tutta esattamente siccome è, come vuoi ed è la parte migliore che c'è. C'è il talento e anni e anni di studi di ricerche di conoscenze di esperienze di sofferenze di gioie di soddisfazioni. Poi c'è qualcosa che ha spazzato via tutto: tabula rasa. Tutto dimenticato. Rimangono gli strumenti. E quel talento. Gli strumenti per dare forma al talento, fermandolo in una creazione d'arte. E il divertimento: quello impareggiabile irraggiungibile e ineguagliabile di un bambino. E allora il linguaggio (a tratti anche ricercato, aulico e barocco) è così fresco confidenziale ed essenziale che ti fa arrivare dritto alle viscere temi d'una pesantezza inaudita con la leggerezza pari al dire di mio figlio Federico quando mi racconta le ultime notizie scolastiche o calcistiche (e Federico a giorni avrà nove anni). Un dire meraviglioso, fiabesco, disarmante, ingenuo e vero. Così “Il ragazzo in fondo al mare” è la metafora che svela la cecità di un'epoca, l'ignoranza del passato, l'illusione del ventennio, con i suoi sogni e i suoi incubi, la vita e la morte, l'anacronismo di un impero e la grande disfatta, lo scintillìo dell'apparenza e le nubi funeree dei tanti crimini: quelli di tutte le guerre, del primo regime totalitarista (nato e coniato in Italia) e di tutti quelli successivi, d'ogni colore e in ogni angolo del mondo. “I bruchi” sono la causa e l'effetto dei fasti e del disfacimento prodotti dal fascismo, sono la patologia di quel sistema politico, sono lo schifo sotteso ai proclami, sono i risultati del grande imbroglio, sono le brutture e le storture d'ogni politica che pensa a sé e non ai governati, sono quel che porta la “guerra guerreggiata”; “Il ragazzo in fondo al mare” è il naufrago di quel periodo! È quel che resta in tutti quelli che grazie all'accettazione di sé, vuoi per fatto genetico vuoi per scelta vuoi per entrambe, non hanno mai smesso di guardare all'altro e l'hanno guardato sempre e comunque al di là d'ogni parvenza... Quella del ventennio, del primo totalitarismo (termine inesistente prima), è stato il primo esempio di politica fatta utilizzando i mass-media (fotografia e radio), è storia di cui si continua a parlare in tutti i modi possibili: attualmente c'è un quotidiano (se non erro) che regala dei diari di Mussolini (mai menzionato nel libro...) o qualcosa del genere. Se ne parla troppo? Se ne parla male? Se ne parla bene? Sarebbe meglio non parlarne più? Non appartengo alla schiera di quelli che sostengono che se di qualcosa non si parla significa cancellarne l'esistenza. E, quindi, nel caso dell'argomento in parola, è bene. E nemmeno alla schiera di quelli che di qualcosa di cui non si parla e si dovrebbe bisogna parlarne a tutti i costi pur di affermarne l'esistenza. E, dunque, in generale, non parlarne è male. In realtà non appartengo a schiera alcuna. Sono un uomo libero che dice e scrive quel che pensa (dopo aver contato sino al numero necessario) e che crede fermamente che ognuno possa dire ciò che vuole (nei limiti del lecito e del legittimo...) intorno a ciò che gli pare. Sta a me, come a ognuno di voi, far debito e appropriato uso di critica e decidere da quale parte stare. Senza scomodare il Male e il Bene. Io sto dalla parte di Giovanni Bernardini, ma non del Bernardini de “I bruchi”, non dalla parte della fobia, ma del Bernardini de “Il ragazzo in fondo al mare”, dalla parte della follia, di quella ch'è prossima alla salvezza (o, per dirla con l'Autore, della pazzia che confina con la saggezza). Io sto dalla parte dello zio un po' scemo, quello che con i gessetti colorati disegnava sui muri il ragazzo in fondo al mare abbracciato a una sirena e sotto scriveva AMORE.

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sabato 30 maggio 2009

Scritto sul corpo di Jeanette Winterson (Oscar Mondadori). Rec. di Vito Antonio Conte

“Perché è la perdita la misura dell'amore?”: questa domanda, ma potrebbe pur'essere una constatazione (e tante altre cose), è anche l'incipit di una storia densissima, una storia che non è una storia, una storia ch'è tante storie, una storia che leggo non per scelta e nemmeno casualmente, ma per dono di chi l'ha letta (quasi) per caso (frutto d'un altro dono) e ha visto l'immagine di sé riflessa dentro... Una storia che non mi prende, non so perché (o, forse, sì). Ma mi fa pensare. Non so perché si scrive una storia così (o, forse, sì). So perché la leggo: voglio vedere anch'io quell'immagine. Da una prospettiva differente. È una storia dell'amore, non d'amore, ma dell'amore, una storia dell'amore universale, non “la” storia dell'amore universale, ma “una” storia dell'amore universale, dell'amore che non si può dire, di quello difficile da raccontare, che cerchi di renderlo in una storia ma quella (volente o nolente) svicola via, non ne vuole sapere di aderire a quel che è, per quanto attingi dappertutto e i richiami si moltiplicano all'infinito, ma quel tutto non s'incastra, non dice niente, anzi diverge, s'allontana da quel che è e che vorresti fotografare, ma sulla carta -piuttosto che una finitezza- rimangono soltanto tratti sfumati, ché non ci sono parole e qualunque espediente è inadeguato per disegnarla e darle il pur minimo contorno. Non si può definire l'infinito. Lo si può intuire. Forse. Lo si può ascoltare. Lo si può sentire. E condividere. A volte. Ché non puoi dire di tutte le altre storie per far capire la diversità di questa storia, ché non puoi narrare del mondo, dei cieli, delle terre, dei mari, dell'oltre, degli uomini, delle donne, di tutti gli uomini che hai conosciuto, di tutte le donne che hai conosciuto, per spiegare quanto è raro quest'amore! E non basta invocare la bellezza delle stagioni per dipingere la bellezza di quest'amore e non c'è da guardarsi intorno e dentro e altrove per far comprendere quel che sai e quanto ti sfugge per colorare l'improvviso ch'è fragore assordante e quiete indicibile di quest'amore che arriva senza annuncio che ti coglie come scossa d'alta tensione quando compare lei. Lei che già sapeva lei che ti amava già senza saperlo lei che non osava confessarlo neanche a se stessa e che ha avuto l'ardire di dirlo a te lei che non voleva ma che non poteva far tacere quell'amore lei che adesso lo vuole con ogni parte di sé lei che intanto ti era scoppiata dentro spezzato il cuore impazzito ogni atomo frantumata l'essenza e non servono più virgole inutili i punti non c'è bisogno di parentesi nessun segno grafico accapo per niente nessuna interpunzione alcunché che possa in un modo qualunque staccare parole dalle parole respiro dal respiro voce dalla voce pelle dalla pelle anima dall'anima fiato dal fiato labbra dalle labbra natura dalla natura occhi dagli occhi capelli dai capelli carne dalla carne sorriso dal sorriso non si può frenare la piena di un fiume non puoi ripararti dal monsone lui spira tagliente da terra verso l'oceano e dall'oceano verso terra neppure il millenario albero cavo può accoglierti ché questo amore tracima e ti porta con sé non puoi liberarti dalla costanza smisurata dell'aliseo non c'è tregua nel vento dell'amore non c'è ortodossia nella forza degli elementi che possa mutarne il corso non c'è temporale senza devastazione non esistono argini quando la pioggia diventa torrenziale ma anche quell'acqua può essere calda nel gelo dell'inverno più inverno se lasci straripare quell'amore sì che rompa ogni terrena costruzione e non puoi fuggirlo non puoi limitarlo non puoi costringerlo un amore così quando arriva se arriva non conosce leggi un amore così quando arriva se arriva non ha ragione un amore così quando arriva se arriva ignora qualsiasi forma è contenuto assoluto è galoppo di cavalli selvaggi lunghe criniere in faccia ai confini noti scalpitìo assordante e polvere che s'alza fin quando chi governa quell'impeto maestoso unico tra simili riceve un segno proprio quel segno esattamente quel segno e lo trasmette agli altri inarrestabili per il resto che s'acquietano a guardare oltre quella fatalità un amore così è fulmine che genera luce è fuoco che avvampa e divampa è dolore incandescente è fiamma che cauterizza la ferita è gioia lancinante è andare incontro al sole senza motivo stringersi le mani sfiorarsi di baci mordersi il morso graffiare il gatto godendo l'irto pelo e fusa e fusa e fusa è andare così incontro al sole e penetrare tra le ciglia scovando colori mai visti è perdersi nelle infinitesime goccioline di nebbia di una città sconosciuta nel mentre su quel ponte sopra un altro corso umido hai perduto il senso e sai che potrebbe crollare ad ogni istante anche se il tuo peso è leggero come di nuvola araba ma insostenibile come di piombo notturno a Gaza un amore così è tutte le latitudini che hai toccato ed è soprattutto i poli che mai ti è stato dato di avvicinare e chissà forse un giorno chissà forse una notte di luna e di stelle chissà avresti potuto ma ti è mancato qualcosa e l'hai perduto hai perduto quell'amore hai perduto lui hai perduto lei non importa chi non importa uomo o donna ché era proprio quell'amore l'unico amore precisamente quell'amore ed è quell'assenza non il dolore ma quell'assenza che non sopporti non la sopporti proprio non la sopporti più ché l'hai detto l'hai detto bene l'hai detto senza scampo nonostante i troppi manuali che c'è un abisso tra il dolore e l'assenza ché l'assenza è vuoto e “il dolore finisce... ma il vuoto non viene mai colmato”. E puoi scrivere che “L'amore è la sola cosa più forte del desiderio e l'unica vera ragione per resistere alle tentazioni”, puoi far dire a Louise “Non ti lascerò più andar via” e inventarti che “Quello che si rischia è misura di quel che si vale” e (dopo di me, prima di me o insieme a me, cosa importa?) “Vorrei sentire ancora la tua voce”, ma poi – te lo devo dire Jeanette- tu non sai cos'è la felicità, perché l'altro sei tu! Questo ho pensato fortemente a un certo punto. Senza cercare nulla su di te... Poi però so che hai giocato, un gioco brutale e bellissimo, come quell'amore: maledizione e miracolo. Come l'ultima immagine che regali, Jeanette Winterson, in questo libro, “Scritto sul corpo” (Oscar Mondadori, €? Non lo so, ve l'ho detto, è un regalo!), “La storia comincia qui, in questa stanza spoglia. Le pareti stanno esplodendo... Oltre la porta c'è il fiume, ci sono le strade; lì saremo noi. Quando usciamo, possiamo portare il mondo con noi, e prendere il sole sottobraccio. Ora sbrigati, si sta facendo tardi. Non so se questo è un lieto fine, ma eccoci nella piena libertà dei campi”. E chiunque tu sia, donna o uomo, non importa, non importa perché -come aveva giurato- lei (Louise) è ancora con te. E se, come te, “non credo alla letteratura che diventa vita”, sono convinto che la realtà spesso supera la fantasia e, a volte, l'anticipa... Poi inizio a leggere anche “Il sesso delle ciliegie”, sempre di Jeanette Winterson, e nelle prime pagine, tra l'altro, incontro questo pensiero: “Ogni viaggio ne cela un altro nella sua rotta: il sentiero che non è stato seguito e l'angolo dimenticato”. E mi piace. Mi prende. Subito. Continuo ad andare... con te e con quest'altra immagine di te, con te che sei parte di questa scrittura, con te che sei parte di quest'amore.

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Scritto sul corpo di Winterson Jeanette
2000, 210 p., 8 ed.
Editore Mondadori (collana Piccola biblioteca oscar)

martedì 12 maggio 2009

Il giorno prima della felicità di Erri De Luca (Feltirnelli). Rec. di Vito Antonio Conte

“Ora scrivo le pagine sul quaderno a righe mentre la nave punta all'altro capo del mondo. Intorno si muove o sta fermo l'oceano. Dicono che stanotte passiamo l'equatore”. Tanto del molto che ha pubblicato Erri De Luca ho letto. Ne ho scritto già in un pezzo dello scorso anno per un quotidiano del Salento. Non mi ripeterò. Ché replicare, come ho diffusamente lasciare trasparire, non mi è mai piaciuto. In questa domenica in cui il sole si mischia a pioggerella sottile e gelata, a un ciclamino rosso d'amore, alle note de “I Giorni” di Ludovico Einaudi, alla rilettura di un post (commenti inclusi) su un blog di quasi un anno addietro, lascio l'ultima pagina dell'ultimo libro di De Luca per il meriggio (che ancora meriggio non è nonostante i mandorli già biancheggianti di nuovo), dopo un'ottima spigola al sale pasteggiata con un buon vino. Lo faccio apposta, ché -lo so- sarà dolce la fine di questo libro. Dolce come un dessert alla fine di un pasto frugale essenziale e giusto. “Il giorno prima della felicità” (Feltrinelli, € 13,00) è l'ennesima scrittura di Erri De Luca, un romanzo breve di cui non può dirsi ch'è un racconto lungo, una narrazione di una vita lungo più vite, attraverso più epoche, toccando luoghi e storie, penetrando il segreto di più uomini, disvelando le storie che piacciono a me, quelle minime e straordinarie mai scritte nei libri di storia, lasciando misteri appena accennati pronti a schiudersi in altre scritture, mescolando pensieri e fatti pienamente vissuti e soltanto sfiorati. Un capolavoro! L'incipit lascia spazio alla casualità: “Scoprii il nascondiglio perché c'era finito il pallone” e il caso è padrone assoluto del seguito: tutto accade (apparentemente) perché qualcos'altro che non appartiene a chi vive quel momento è accaduto o non si è verificato. E, come sempre, una scelta di fare o non fare, s'inserisce pienamente nel disegno che qualcuno che non abita questa terra ha tratteggiato. L'ultima volta che ho scritto di un libro (“I Bruchi” di Giovanni Bernardini), ho scritto di guerra, di fascismo e... d'ignoranza (ché in quel libro anche di ciò si narrava). Questo libro (e, se volete, è un altro caso) tocca (in maniera totalmente diversa) gli stessi argomenti: la seconda guerra mondiale, il nazismo, la liberazione di Napoli a opera dei napoletani (“Quando spuntano sei persone, tutte in una volta, allora si vince”), prima ancora degli americani... E l'amore: il primo, l'unico, quello per cui vale la pena dare il proprio sangue, per scatenare il pianto, ché soltanto le lacrime possono liberare dalla pazzia. È la storia di un bambino (cui De Luca affida l'Io narrante), nato senza genitori, che cresce durante la guerra, che impara il mondo dal mondo di Don Gaetano e dai libri usati di Don Raimondo, che diventa uomo quando incontra la natura che l'aiuta a scoprire la sua natura. Che s'innamora di una bambina che vede attraverso i vetri di una finestra e che poi ritroverà da maggiorenne; meglio: dalla quale verrà ritrovato e che gli chiederà (senza parlare) il sangue dopo aver donato a lui il suo sangue, quello del primo amore, in un patto che sarà spezzato soltanto dal coltello che reciderà un'altra vita e, con essa, ogni legàme con un passato di tristezze infinite e cieli senz'altro colore che non fosse quello degli scantinati dove ripararsi dai bombardamenti e dall'idiozia dell'ignoranza (una volta ancora!) che sempre ha messo e continua a mettere l'uomo contro l'uomo. La guerra: quel respirare a fatica dove ogni regola è capovolta, dove la natura è capovolta, dove qualunque dio è buono per essere pregato o bestemmiato, quasi come quando guerra non c'è... “Insieme al buono cresceva il peggio. Una brava persona si metteva a prestare a usura, una ragazza di buona famiglia si metteva a fare la puttana per i tedeschi. Uno che aveva il titolo di guappo era il primo a scappare al ricovero. I tedeschi e i fascisti erano più incanagliti perché la guerra si metteva male. Lo sbarco di Salerno era riuscito. Facevano saltare le fabbriche, saccheggiavano i magazzini per lasciare vuoto. La città negli ultimi giorni di settembre faceva paura per la fame e il sonno in faccia alle persone. Chi teneva qualcosa mangiava di nascosto. I tedeschi fecero una sceneggiata: forzarono un negozio, poi invitarono la gente a saccheggiarlo. Sulla folla che si era buttata a prendere la roba spararono in aria e ripresero la scena dentro una pellicola. Serviva alla loro propaganda: il soldato tedesco interviene a impedire il saccheggio. Sono fatti successi, guagliò, proprio in una di queste belle giornate di settembre”. Poi, in ogni guerra, c'è chi vince e c'è chi perde. E non sempre la vittoria è dei giusti. Chi faceva la puttana per i tedeschi, ha continuato a farla per gli americani. E non parlo solo di femmine (se metafora vuole). Non sempre vince la libertà. E cosa dire di tutti quelli che nella stessa guerra sono stati dalla parte dei tedeschi e dei fascisti e quando per loro stava per finire male sono passati dalla parte degli americani? Non lo so? Meglio: lo so, ma non riesco, non riesco proprio a dare giudizi. Specialmente su qualcosa che non ho vissuto. Troppo facile dire a posteriori qualunque cosa. Troppo facile parlare... Oggi tutti parlano, c'è libertà d'espressione (grazie a dio!). Difficile è dire e fare quando non c'è libertà. C'è che la libertà, anche quando è dato acquisito (in particolare quando è costata la pelle a altri), bisogna rispettarla ogni giorno, per ri-conquistarla. E la libertà diventa niente se niente hai fatto per meritarla. “La libertà uno se la deve guadagnare e difendere. La felicità no, quella è un regalo, non dipende se uno fa bene il portiere e para i rigori”. Già, la felicità... “il più speciale dolore, una fitta agli occhi e uno squaglio di cioccolata in bocca”. Ho avuto paura di dire la mia felicità. Ho cercato di farlo. Ho reso cenni della sua grandiosità. Questo ho fatto. Il miracolo è cosa rara. Raccontare è ripetere il miracolo. Il miracolo s'è ripetuto. La paura continua a abitare in me ogni volta che la grazia mi tocca e mi chiedo: la felicità è cosa da dire? “Sì e nessun coraggio sarà bello come questa paura”. Riporto frasi e mi accorgo che, mai come “Il giorno prima della felicità”, questo libro sarebbe da trascrivere tutt'intero, ché ogni pagina contiene dei righi, un dialogo, un pensiero, qualcosa, almeno una parola che può spiegare un senso, piegare un dolore, dare una ragione, dire di un errore, farti toccare un sogno, cullare una speranza, annegare in un ricordo, salvarti da una deriva... per questo (e per molto altro) ho parlato di capolavoro, ma soprattutto perché si vede che De Luca è riuscito a penetrare nella formula (magari tradotta dall'aramaico e combinata con le esistenze che ha saputo ascoltare, vedendole poi attraverso la sua, intanto che su qualche vetta alpina la neve ha dato quel nitore alle cose, felicità compresa, che pochi sentono e vedono, rendendole uniche e irripetibili) che fa di uno scrittore uno scrittore immortale: quella formula che generosamente svela (ché tra conoscere e vivere ci passa l'Orient Express), regalandocela: “Lo scrittore dev'essere più piccolo della materia che racconta. Si deve vedere che la storia gli scappa da tutte le parti e che lui ne raccoglie solo un poco. Chi legge ha il gusto di quell'abbondanza che trabocca oltre lo scrittore”. E quel che c'è oltre si può soltanto intuire, ché risiede al di là del limite visibile tra l'azzurro abbacinante del cielo e la vastità sconvolgente del deserto. Puoi fare unicamente una cosa per avvinarlo: muoverti lentamente coltivando pazienza. Con ogni mezzo, meglio se a piedi, ma che viaggio sia. E, prima o poi, affrontare quello vero. “I viaggi sono quelli per mare con le navi, non coi treni. L'orizzonte dev'essere vuoto e deve staccare il cielo dall'acqua. Ci dev'essere niente intorno e sopra deve pesare l'immenso, allora è viaggio”. Questo libro è un viaggio senza fine: sai dove comincia, le tappe sono scritte da qualche parte, a un certo punto arriverà la felicità, forse lo capirai il giorno prima sì da poterla accogliere, ma la fine non dipende da te. “Dicono che stanotte passiamo l'equatore”.

Il giorno prima della felicità di De Luca Erri
2009, 133 p., brossura, Editore Feltrinelli


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martedì 28 aprile 2009

La ViCeVita, treni e viaggi in treno, di Valerio Magrelli, collana Contromano, Editori Laterza. Recensione di Vito Antonio Conte

...quella sera Anna, a un certo punto, mentr'ero distratto (il mio corpo era lì, nella libreria Palmieri, tre gradini sotto il piano stradale, con i presenti, ma mentalmente stavo nonsodove), disse qualcosa e me ne accorsi perché udii scandire il mio nome (meglio i due nomi e il cognome). Ripresa l'attenzione, vidi gli astanti davanti a me spostarsi a destra e a sinistra, come liquida scena biblica, sì da formare una sorta di corridoio umano, traverso, dove mi ritrovai nudo di fronte al Poeta, intanto che Anna seguitava a parlare dicendo qualcosa che, ancora attonito, non comprendevo, ma che aveva a che fare col mio ultimo libriccino che -diceva Anna, questo lo afferrai- era esposto in vetrina (bontà sua) affianco al libro che quella sera si presentava: “La vicevita Treni e viaggi in treno” di Valerio Magrelli (Editori Laterza, nella -già definita da chi scrive- ottima Collana “Contromano”, pagine 105, € 9,00). Sentivo ancora la voce di Anna rimbombare nel semi-interrato e nella mia testa: potevo intervenire dicendo qualcosa, magari regalando la mia plaquette al Poeta... Arrossii e, mentre goccioline di sudore m'imperlavano la fronte, non avendo nulla di intelligente a portata di lingua e non volendo tediare nessuno (com'altri aveva già fatto), dissi soltanto qualche scomposta parola che avrebbe dovuto evidenziare i miei apprezzamenti per la Libraia, per il Poeta e punto, ché la mia giornata era stata difficile all'inverosimile. Non so se (oltre alla scena del mio imbarazzo palesata al pubblico) lo scopo fu raggiunto (continuo ancora a dubitarne), ma quel lampo d'interloquio rivelò a me stesso ch'ero in viaggio... Adesso so che era stata la voce di Magrelli la causa della mia momentanea assenza, una bell'assenza: ero stato letteralmente rapito dal ritmo delle sue parole mentre riportava un episodio inerente a un congresso (cui si recava in treno) e ci deliziava con il suo scritto ripreso da un traduttore (Guillaume Colletet, stanco di fare il traduttore) e “ta-tàm / ta-tàm / ta-tàm / ta-tàm”, intanto che rendeva la “scansione indimenticabile, inesorabile, inconfondibile” del treno in marcia, io mi trovavo su quel (o un altro) treno... Il libro compendia una raccolta di prose brevi, divise in quattro sezioni: Infanzia del treno, Solitudini, Una comunità ferroviaria e La vicevita (che dà il titolo all'ultima pubblicazione di Magrelli). Scrive l'Autore, in una nota che precede le sezioni, “Chi sta in treno, è segno che vuole andare da qualche parte, e lo fa sempre e solo in vista di qualcos'altro. Il suo scopo, cioè, risiede altrove: l'unico a fare eccezione è il personale viaggiante. La nostra vita pullula di queste attività strumentali e vicarie, nel corso delle quali, più che vivere, aspettiamo di vivere, o per meglio dire, viviamo in attesa di altro. Possono essere atroci come la burocrazia e la malattia (intesa come ), oppure neutre, come appunto il viaggio. Sono i momenti in cui facciamo da veicolo a noi stessi. È ciò che chiamerei: la vicevita”. Quello che scrive Magrelli è vero solo in parte. Il viaggio, a prescindere dal mezzo utilizzato (che, a considerarlo, la parentesi diventerebbe molto più corposa), è sì -quasi sempre- strumento, mezzo, intervallo spazio-temporale, tra una vita e un'altra vita. Meglio tra vivere in un luogo e, dopo il viaggio, dopo il movimento, compiuto il tragitto, fermarsi e continuare a vivere in un altro luogo. O anche chiudere un vissuto in un luogo e aprire una nuova vita in un altro luogo. Ma, pur senza sviluppare oltre questo concetto, non sempre è così. Ché, per restare nelle atmosfere proprie del libro di Magrelli, anche il treno può essere vera e propria vita e non vicevita. Anzi, a volte, in treno possono accadere pezzi di vita irripetibili nella... vita. Quel che vado dicendo è, all'evidenza, frutto di personale esperienza e, dunque, non contiene oggettività alcuna. Eppure, credo che il treno, più che un inciso della vita, possa costituire un autentico pezzo di vita. Perlomeno quando è frutto di piena volitività. Penso agli spaccati ferroviari presenti nei miei testi. Ma, soprattutto, penso a quell'altra volta in cui presi la littorina della Sud-Est, senza alcuna destinazione, senza compagnia e senz'alcun'altra necessità che non fosse quella di “godermi” quell'andare. Il Piacere dell'andare. E mi sovvengono altri versi: “in treno t'ho baciata / la prima volta / in treno / ho barattato altri baci / in treno ho sentito / correre via la vita / e l'ho fermata / in treno / ho trovato parole / introvabili altrove / ho perduto Pavese / e ho voluto dimenticare libri / in treno / parlo ancora di te”. Ché, pur essendo racconti, la scrittura contenuta in questo libro è segno poetico ed è facile perdersi nei tanti luoghi e nei momenti del viandante-scrittore. Se il mio viaggio non fosse stato interrotto come vi ho detto, probabilmente non ne avrei colto il motivo. Coincidenza? Forse. Anche se Magrelli non crede alle coincidenze e, se ci crede, le considera inutili: “Questo è il segreto delle coincidenze: in genere non servono a nulla. Si caricano di senso, come l'onda, montano, si accavallano, minacciano, per poi svanire, come me nel sonno”. Si può non essere d'accordo, ma come lo scrive bene Magrelli! Frammenti che chiunque abbia preso il treno sol'anche una volta, leggendo questo libro, ritroverà e non potrà fare a meno di pensare che accadimenti apparentemente banali acquistano, nella scrittura di Magrelli, senso. D'altra parte, non sta (forse e anche) nel cogliere e nel saper dare significato a quel che generalmente è insignificante la grandezza della letteratura?

fonte PN quotidiano

sabato 4 aprile 2009

Blues Tango's di Vito Antonio Conte


E se le ombre non fossero più materia
del tuo corpo
cercherò le tue labbra
in piccoli fogli di carta
E se la materia non potesse più dar vita
a nessuna ombra
libererò la mia anima
prigioniera del tuo abbraccio
E se la tua assenza
fosse più vicina del mio sonno
non ti chiederò più nulla
per sfuggire alla parola fine

Vito Antonio Conte, Quel che resta della polvere, Luca Pensa editore, gennaio 09. tiratura limitata di 188 copie

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