È possibile considerare la follia come causa determinante del genio? Oppure il genio per manifestarsi deve avere comunque il sopravvento sulla follia? Karl Jaspers –filosofo e studioso di psicologia, psichiatria e linguaggio- presenta uno studio classico sul problema-enigma della schizofrenia in alcuni tra i più grandi artisti, tra i quali Vincent Van Gogh. La sua analisi passa dal genere al concreto, cioè analizza i tratti caratteristici delle varie personalità dal momento in cui la malattia entra nella vita dell’uomo fino a trasfigurarne l’opera, rendendola appunto arte. «Per diversi giorni sono stato completamente fuori di me.. Questa volta la crisi mi ha preso quando ero nei campi e stavo dipingendo in una giornata ventosa.. durante le crisi mi sento vile per l’angoscia e la sofferenza, più vile di quanto sarebbe sensato sentirsi.. allora non so più dove sono, la mia testa si perde», scrive Van Gogh in una lettera al fratello nel 1889.
«Conosciamo la follia in due accezioni -scrive Jaspers- come il contrario della ragione e come ciò che precede la stessa distinzione tra ragione e follia ‘. E, mentre nella prima accezione la follia ci è nota in quanto esclusione dal sistema o deroga al sistema di regole in cui la ragione consiste, proprio quelle che abbiamo inventato come rimedio all’angoscia, nella seconda la follia non è conosciuta, in quanto essa viene prima delle regole e delle deroghe e, per ciò stesso, avvertita come minaccia. Essa nasce là dove la coscienza umana si è emancipata dalla condizione divina o animale e conosce la creazione artistica come l’unica possibilità per l’uomo di non chiudersi all’abisso del caos perché –infatti- non c’è alcun mistero nel fondo oscuro di quell’abisso che, guardato dal punto di vista della ragione, chiamiamo irrazionale, ma dal quale, appunto, vengono le parole che poi sarà la stessa ragione ad ordinare. ‘Il mistero se mai è da cercare nella capacità della ragione di reggere alle forze contrastanti che la sottendono, terribili perché prive di regole». L’artista che si è fatto testimone di questa lotta sacrifica la sua mente e mette la sua parola al servizio del non-senso, precipizio dell’ordine logico, vertigine, congedo dalla ragione e il patire dell’artista, la sua catastrofe biografica si fa parola per gli uomini.
La definizione logica di questo stato mentale -ma anche fisico- è schizofrenia: la mente (phren) scissa (schizo) in due mondi, l’uno si rivede e disperde nell’altro senza che sia più possibile capire quale dei due sia il mondo vero.
V.Van Gogh nasce nel 1853 a Zundert, un paesino dell’Olanda. Non ha un carattere comune: tende ad isolarsi, è scontroso, anche se molto attaccato agli affetti familiari: «Aveva un’aria assorta, grave, malinconica, ma quando rideva allora il suo viso si rischiarava». Era molto religioso, e sino alla fine fu sostenuto dalla fede che non doveva niente alla chiesa e ai suoi dogmi: andava alla sostanza delle cose, al senso profondo dell’esistenza, spesso risultando poco gradito o non capito nelle sue prediche, che finivano per agitare l’auditorio derelitto a cui erano destinate. Anche come insegnante in Inghilterra fallisce. Infine diventa evangelista e assistente volontario tra i minatori del Borinage. È solo nel 1879, all’età di 26 anni che, costretto dal padre, torna a casa, deperito nel fisico e tormentato sul senso della sua vita: «Il mio tormento non è altro che questo: in cosa potrò riuscire?». Ma sarà proprio allora che Van Gogh darà fondo alla sua vocazione: «Mi sono detto: riprenderò la matita, mi rimetterò a disegnare, e da allora mi sembra tutto cambiato per me» . Si diede così all’arte, prima a casa da autodidatta, poi all’Aia per studiare i maestri olandesi, infine ad Anversa. Dal 1886 al 1888 sta a Parigi dal fratello Theo e scopre gli impressionisti.
Passando in rassegna le sue lettere per ricercare i primi segni della sua malattia, troveremo che già dal dicembre 1885 parla di disturbi fisici, si sente fiacco e debole: sicuramente impegnava i pochi soldi che aveva per comprare tele e colori, mangiava poco, si nutriva di solo pane e fumava molto per ingannare il senso di fame. Ma sarà dal 1888 che inizierà a fare riferimento a disturbi adesso psichici che cerca di dominare: «Sono veramente infuriato con me stesso, vorrei avere un temperamento forte certi giorni sono terribili... vorrei tranquillizzarmi i nervi.. sono così malato che non ho il coraggio di restare solo.. soffro di emozioni non giustificate e involontarie e in certi giorni di ebetismo.. spero di non aver avuto altro che una semplice crisi d’artista, e poi molta febbre in seguito alla perdita molto forte di sangue.. per il momento non sono ancora pazzo.. anche prima sapevo che ci si poteva rompere braccia e gambe e che dopo si poteva guarire, ma ignoravo che ci si potesse rompere la testa cerebralmente.. dentro di me ci dev’essere stata qualche emozione troppo grande che mi ha fregato in questo modo..» .
L’attenzione di Jaspers si concentra sul rapporto decorso della malattia-mutamento nell’intensità creativa: nello stato preliminare della psicosi, cioè nel 1888, l’intensità aumenta; dopo, con le varie crisi più forti del 1890 fino al suicidio, l’intensità diminuisce, ma le facoltà creative permettono a Van Gogh una nuova evoluzione artistica. Scriverà: «Il mio pennello scorre fra le dita come se fosse un archetto di violino». E della sua pittura: «Ciò che ho imparato a Parigi se ne va.. perché invece di cercare di rendere esattamente ciò che ho davanti agli occhi, mi servo del colore in modo più arbitrario.. esagero il biondo dei capelli, arrivando ai toni arancioni, al giallo cromo, al limone pallido…comincio sempre più a cercare una tecnica semplice, che forse non è più impressionista.. vorrei dipingere in modo che chiunque abbia occhi ci possa vedere chiaro».
Tutti i quadri dal 1888 hanno un nuovo tono rispetto ai precedenti: dissoluzione della superficie pittorica con pennellate di forma geometrica regolare, ma molto diverse fra loro. Ci sono linee, semicerchi e spirali, forme che ricordano il 3 o il 6, angoli. Le linee producono effetti multiformi, perché disposte parallelamente, ma anche in curve o raggi: l’impiego del suo pennello dà ai quadri un movimento inquietante perché tutto si torce e sembra palpitare, ardere. Le tinte sono mescolate in modo nuovo, sorprenderte, si raggiungono effetti crudi, fortemente realistici. Non cura il particolare, ma cerca il naturale, la chiarezza. E nei suoi ultimi quadri i colori risultano più chiari di prima, gli errori prospettici aumentano, le deformazioni non sembrano intenzionali, ma casuali: tecnica più grossolana, rozza. I quadri delle ultime settimane danno un’impressione caotica, con colori più brutali, mancano del riflesso tipico della sua tensione interiore perchè non c’è più artificio né tecnica acquisita: solo ritorno all’origine.
«La schizofrenia non è creativa in sé. La personalità e il talento preesistono alla malattia, ma non hanno la stessa potenza. Ebbene: in Van Gogh -e in pochissimi altri casi- invece, la schizofrenia è la condizione, la causa possibile perché si aprano queste profondità» scrive Jaspers. Certo – rifuggendo facili esagerazioni - la schizofrenia non può essere creativa senza la conquista di una tecnica pittorica che V. Gogh aveva curato in dieci anni di lavoro, sforzandosi tutta la vita di arricchire le sue possibilità interiori. Riconoscere nella psicosi una condizione di certe opere non significa sminuirle. Esse rimangono inimitabili, autentiche e possono rimandarci a quel richiamo benefico che solo lo sguardo sull’assoluto può nascondere. L’opera che ne deriva è affascinante perché apre ai recessi più profondi della vita. Anzi, facendo nostra la riflessione e una domanda, forse un po’ retorica eppure realistica, di Jaspers: «In un’epoca come la nostra, di imitazioni e artifizi, in cui ogni spiritualità si converte in affarismo, in cui la vita è una mascherata al punto che la stessa semplicità è voluta o l’ebbrezza dionisiaca fittizia è forse la follia la condizione di ogni autenticità in campi in cui, in tempi meno incoerenti, si sarebbe stati capaci di esperienze e di espressioni autentiche anche senza di essa?».
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