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sabato 25 luglio 2009

Danilo Arona, L'estate di Montebuio (Gargoyle Books). Rec. di Silla Hicks

Io sono uno di quelli che la leggono, la prefazione. E spesso da lì decidono se vogliono andare avanti o no. Sono l’esca attaccata all’amo, le prefazioni: ci sono volte che funzionano, altre che sarebbe meglio strappar via le pagine. Questa, è tra quelle del primo gruppo: mette curiosità, e non la soddisfa. Offre spunti, e non li sviluppa. Racconta, senza raccontare la storia, ma solo impressioni, impulsi: il resto, quello è – dovrebbe essere - affidato al libro che segue.
Mi piacerebbe davvero dire che si è rivelato sempre allo stesso livello delle pagine che l’introducono, questo esperimento fiammingo di matrioske una nell’altra. Che il giochino della storia nella storia – la stanza nella stanza della famiglia Aldobrandini – funziona alla perfezione, e l’autore riesce nella sua scommessa giallo-horror, camminando senza scivolare sul filo di un plot che ha le dimensioni di un frattale. Premetto: in realtà, non è che si tratti di innovazione (basti pensare al film nel film della Donna del tenente francese, o, restando nel filone dark, a REC) ma resta un espediente che se riuscito dà naturalezza a storie altrimenti incredibili, ed è questo che è l’orrore, una piccola bottega di cose e vicende assurde, fuori dalla nostra logica, da quello che possiamo vedere e toccare. Perché ci spaventino, devono sembrarci possibili: dobbiamo esserne trascinati al punto da trovarci lì, con l’uomo nero a un metro, non al sicuro dentro a un cinema. Altrimenti, è tutto inutile.
Purtroppo, non sempre è così, per queste duecento e fischia pagine scritte in un italiano trapunto di riferimenti eterogenei il cui filo conduttore è l’opera omnia di King – ma, forse, davvero non è possibile scrivere di orrore lasciandoselo alle spalle - lavorato di cesello anche quando vorrebbe esser basso.
Intanto, la storia, anzi le storie. L’agiografia di una santa semisconosciuta – radiata o no dal calendario non importa – il cui martirio sembra l’opera di un ispirato Ted Bundy, e che riappare nel finale come vendicatrice adolescente, una Milla Jovovich coperta di sangue con in mano uno spadone più grande di lei per la regia di Luc “Leon” Besson.
Poi, l’estate del ’62 e la banda di piccoli protagonisti, Stand By Me di una generazione, prima che tutto cambi e che ciascuno si trovi al suo posto, nelle schiere dei buoni o dei cattivi, e il ragazzino in vacanza diventi uno scrittore, e muoia schiacciato dal peso dei ricordi.
Miriam piccola vittima, e tutte le altre senza nome, sacrificate a un culto pagano da adoratori del grano come Nicholas Cage arso vivo sull’isola de Il Segreto, che magari fosse così facile, e non esistessero mostri travestiti da papà, che fanno infinitamente più paura.
La ragazza morta che compare a provocare incidenti, leggenda metropolitana universalmente nota su cui circolano filmati su You Tube e un film spagnolo carino, di cui non ricordo il titolo.
E – sopra a tutto -il rumore del male, che è quello dei Langolieri (by S.K., of course), e insieme lo scampanellio dei monatti.
Quello che ne viene fuori è un meltin’ pot frenetico, in cui Stephen IT mantiene assieme i pezzi, e sorvolo sull’ amante scosciata/pettoruta/carrierista che diventa detective (protagonista di una fiction di Rete 4?) che si converte alla maternità salvifica, e allo speriamo che sia femmina del finale.
Anche se, in realtà, è la prevalenza – letteralmente, nel senso di superiore valore - di donne che colpisce, come nella saga di Alien.
Sono donne i capi, del bene – Sigourney Weaver - Tenente Ripley uguale la carrierista di cui sopra, e, al sommo livello, santa Milla – e del male – la regina degli alieni, uguale Lisetta cresciuta dalla parte sbagliata, gli aliens con acido al posto del sangue uguale le zannute arpie, e via dicendo.
Gli uomini, solo comprimari: i carabinieri sbranati, il detective che finisce fuori strada, persino lo scrittore Morgan (complimenti per il nome…fosse stato Marco, avrebbe sicuramente convinto di più, e lo dico io che mi chiamo come l’avversario più famoso dell’antica Roma, peccato che della guerra civile siano rimasti in pochi a saperne qualcosa) restano sullo sfondo, non capiscono, e se provano a farlo non trovano il bandolo della matassa e perdono il senno o addirittura la vita.
Solo che il primo Alien è del ’74, se non sbaglio, e all’epoca – popolata da fragili eroine sistematicamente bisognose di essere salvate – si trattava davvero di un nuovo modo di leggere la storia. Oggi, dopo Resident Evil, Tomb Raider e Xena principessa guerriera, è un filone collaudato, come tanti altri.
Quanto al dono di generare dal proprio corpo un altro corpo – sommo mistero/miracolo, alla base del matriarcato e del culto celtico della dea di Avalon, per non dire del Codice da Vinci – non credo si possa dire niente di nuovo.
Tranne, forse, che la maternità non è l’unica dimensione possibile per una donna, ma soltanto una scelta: se la carrierista che si ritrova incinta dopo il suicidio dello scrittore – per inciso: cosa abbastanza incredibile, in un’epoca in cui gli adulti non fanno i bambini per caso - si converte velocemente al nuovo ruolo di mammina, la Pia, ritardata stuprata che muore di parto nella colonia abbandonata e fatiscente, è solo una vittima, del branco, prima, e del mondo, che continua a dormire mentre lei si dissangua nella notte di san Valentino, poi.
Peccato siano solo poche righe. È la parte più riuscita: l’emarginazione, l’indifferenza, lo squallore che le permeano fanno paura davvero.
Perché sembrano – sono – reali.
Circa vent’anni fa, Giordano Bruno Guerri ha scritto un libro, su un’altra martire vergine, Maria Goretti, e sul suo stupratore. S’intitola “Povera santa”, povero assassino.
È lo stesso titolo che meriterebbe questa storia di provincia fonda dove l’ignoranza fa buio nella mente, e il resto – anche l’orrore di Stephen – viene da sé.
La colonia degli orfanelli/vittime di regime poteva essere un ottimo inizio.
Peccato che le metafore soprannaturali abbiamo smorzato la disperazione che poteva venirne fuori, e tenere sveglio chiunque, anche uno come me che non crede in niente che non si può toccare.
Peccato che di King manchi l’orrore più incredibile, quello quotidiano: il bullismo di cui è vittima l’incendiaria Carrie, la famiglia sfasciata del bambino di Cujo. La stanza del figlio, su cui si basa Pet Semetary. Tutto quello che fa davvero paura, nelle storie di quest’uomo del Maine, che non per niente in Danze Macabre dà lezioni di horror.
Ammesso che servano, è chiaro. Perché i libri sono come la musica e i quadri e le torte e i tuffi, e non si può farli identici a quelli di un altro. Ci si può provare per imparare, come gli studenti d’arte che disegnano su blocchi enormi, seduti per terra nei saloni degli Uffizi o del Louvre, con le matite sparse tutt’attorno e le facce contratte come velocisti ai blocchi. Alcuni di loro diventeranno pittori veri, altri no, torneranno a casa, e s’inventeranno altre vite. Perché ci vuole la Fortuna dell’imponderabile per realizzare i sogni, sì. Ma soprattutto perché ce ne vuole anche di più per trovare una strada nuova, solo tua, e il coraggio di percorrerla, senza che nessun altro l’abbia asfaltata, prima.

Montebuio witch project, ovvero Danilo Arona e il suo L'estate di Montebuio (Gargoyle Books)

giovedì 18 giugno 2009

Gargoyle Editore. Intervista a Paolo De Crescenzo di Stefania Ricchiuto

Le paure ancestrali dell’uomo sono materie talmente sottili da richiedere un’attenzione analitica. In Italia, prima del 2005 venivano curate, con risultati discutibili, dall’editoria più “generalista”, ma da quattro anni l’horror e il dark fantasy possono rintracciare anche nel Bel Paese una realtà totalmente dedita alla dimensione dell’incubo. Ne abbiamo parlato con l’editore Paolo De Crescenzo e la responsabile dell’ufficio stampa Costanza Ciminelli.

“Rubate” il nome alla figura mostruosa di pietra che si sporge dalle sommità delle cattedrali gotiche, pronta ad animarsi in caso di aggressione. Denominarvi ispirandovi ad un simbolo di “custodia” è stata una scelta ben precisa?

L’immagine del gargoyle ci è sembrato simboleggiasse efficacemente il tipo di scelta editoriale che anima la nostra avventura letteraria. Sinceramente non pensavamo di svolgere alcun ruolo di “custodia”, ma considerando alcune recenti tendenze dell’horror letterario e cinematografico…

Con la vostra comparsa, avete garantito al pubblico italiano la possibilità di conoscere autori stranoti all’estero, ma qui sconosciuti. Il vostro è stato un forte atto di opposizione contro un mercato fortemente monopolizzato, abitato fino ad allora quasi esclusivamente da nomi come Stephen King e Anne Rice…

La nostra attività è nata come una sfida: sapevamo che le possibilità di affermare quello che è il “parente più povero” tra i generi erano minime, anche sulla scorta delle esperienze negative vissute dai pochi coraggiosi che ci avevano preceduti. Abbiamo cercato di sottolineare tale provocazione puntando sulla qualità, sia dei contenuti che della veste editoriale. Da un lato, quindi, volumi rilegati, carta bianca della migliore tipologia, cura redazionale; dall’altro, ricerca di quello che ci sembrava al momento il meglio del panorama horror internazionale, a prescindere dalla notorietà dei nomi. Devo dire che i risultati sono stati superiori alle aspettative: spesso si fa torto al pubblico, continuando a propinargli solo i “soliti noti” e ritenendo che non sia in grado di apprezzare scelte più “particolari”.

Avete incominciato pubblicando due scrittori americani, la Yarbro e Nassise, e sembrava fosse vostra intenzione dedicarvi esclusivamente alle traduzioni di produzioni estere. Perché questa barriera iniziale rispetto alle narrazioni italiane?

In realtà non abbiamo mai affermato che intendevamo porre barriere. Abbiamo sempre detto che l’unico parametro di scelta era di tipo meritocratico. Siamo stati, quindi, ben lieti di avere l’opportunità di dimostrare che non esistevano, e non esistono, preclusioni di sorta: se un testo ci piace, lo pubblichiamo, indipendentemente dal fatto che sia americano, francese o turco…

Poniamo un attimo l’attenzione sull’“estro gotico nostrano”: nel vostro catalogo è comparso il nome di Gianfranco Manfredi...

Manfredi era ed è tuttora quello che riteniamo il migliore tra gli autori italiani che si sono cimentati in modo continuativo con l’horror. Prendemmo contatto con lui via e-mail chiedendogli di poter ripubblicare il suo Magia Rossa: da lì sono nati un’amicizia e un sodalizio professionale che ci auguriamo siano destinati a durare. Gianfranco negli ultimi anni si era dedicato al fumetto, ottenendo grandi soddisfazioni e notorietà internazionale, ma forse sacrificando un po’ la vena autoriale che ha fortemente radicata dentro di sé: conversando, è tornata a scattare la scintilla che era sopita, lo stimolo ad approcciare nuovamente una dimensione narrativa di grande respiro. Lui dice di non essersi mai trovato così bene come con Gargoyle, e noi vorremmo tanti Gianfranco Manfredi...

Ora una domanda sul senso della narrativa horror, che è animata da figure archetipiche ricorrenti: fantasmi, vampiri, demoni. Indagare certi ruoli surreali può aiutare a smascherare gli “effettivi costruttori di paura” della nostra società?

È confermato che l’horror esercita una funzione esorcizzante rispetto alle paure e agli incubi della quotidianità, tant’è vero che conosce regolarmente periodi di massima frequentazione quando le situazioni di crisi si fanno più intense e diffuse. In questo senso, esercita sicuramente un ruolo “sociale”. Stabilire se possa servire a smascherare i “veri mostri” è problematico: per ogni opera narrativa esistono vari piani di lettura e ciascuno è libero di trovarvi all’interno i significati di cui è alla ricerca.

Peraltro, molti intellettuali, soprattutto statunitensi, riconoscono al genere horror una funzione di resistenza culturale nei confronti di due massimi poteri: la religione e la scienza…

Gli Stati Uniti sono un paese animato da una concezione morale e religiosa molto sui generis, pronta a rispondere a stimoli anche francamente improbabili... pensiamo alle chiese più o meno esotiche, ai predicatori televisivi e da tendone, alle varie sette. Gli scrittori americani, pertanto, hanno buon gioco nell’affondare il bisturi in tali fenomeni. Molto più difficile è conseguire qualche risultato in una realtà come quella italiana, dove la religione è stata sempre vissuta come una faccenda estremamente seria, condizionando scelte artistiche e vita culturale, e rendendo difficoltoso l’affermarsi di un genere che la Chiesa cattolica ha sempre pesantemente avversato. La scienza costituisce un discorso a sé: se in passato ha costituito terreno d’esercizio per alcuni scrittori horror, la fantascienza e il sempre più rapido progresso tecnologico hanno sostanzialmente svuotato di contenuti il sottogenere specifico, che resiste soprattutto in zone franche quali le graphic novels e i giochi di ruolo.

Opererete un salto anche nella saggistica?

Gargoyle ha già operato un’incursione nella saggistica, pubblicando The Dark Screen. Il mito di Dracula sul grande e piccolo schermo di Pezzini-Tintori, in assoluto la prima guida che cerca di sistematizzare la sterminata filmografia relativa al mito di Dracula, dagli inizi del ‘900 a oggi. Il volume si distanzia da qualsiasi impostazione manualistica, procedendo per percorsi tematici. Ne emerge uno studio che va oltre i confini dell’iconografia, in cui critica cinematografica, politico-sociale, di costume, psicanalitica, antropologica, si armonizzano in una prospettiva di approccio del tutto inedita. Contiamo di proseguire nell’analisi di altri archetipi dell’horror, e proprio in questa direzione va l’imminente riedizione di Io credo nei vampiri di Emilio de’ Rossignoli, una chicca introvabile da decenni. Pubblicato per la prima volta nel 1961 e ormai assorto al rango di cult, costituisce un’opera fondamentale per la comprensione del revenant, che spiega gli aspetti strutturali e le principali chiavi interpretative del mito di vampiro, senza dimenticare una salutare dose d’ironia.

Terminiamo con un invito alla lettura…

È appena uscito La maledizione degli Usher di McCammon. Concepito come proseguimento de Il crollo di casa Usher, tra i racconti più celebri di Poe, il romanzo costruisce un avvincente intrigo su una potente dinastia di armatori statunitensi, che svela a poco a poco una densa e suggestiva trama di segreti, ossessioni, omicidi, fughe e tentativi di rivolta. Ruolo di primo piano nella storia assume la maestosa tenuta degli Usher, un sinistro labirinto dove, da tempo, nessuno osa avventurarsi…
Gargoyle Editore

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martedì 5 maggio 2009

IL SENTIERO DEL BOSCO INCANTATO di LUIGI PRUNETI (LA GAIA SCIENZA EDITRICE). REC. DI SILLA HICKS

Anni fa, prima che la mia vita finisse e cominciasse tutto questo, andammo al cinema a vedere 23, innocuo filmetto estivo confezionato su uno degli apparentemente più scarni racconti di Stephen “it” King.
Non c’è molto da dire sulla trama né sull’atmosfera allucinatoria, livida e claustrofobica, in cui Donnie Darko echeggia insieme a Spider (che è un compitino, ok, ma del mio adorato Cronenberg) e persino al telefilm Numbers: ruota tutto attorno a questo numero, il 23, che il protagonista trova praticamente ovunque, una persecuzione onnipresente cui non riesce a sfuggire.
Apparentemente, niente di che: eppure, nei giorni successivi, cominciai anch’io a notare il susseguirsi di 23 nelle cose più banali della mia, di vita: d’un tratto, era come se fosse davvero ovunque, nelle cifre – sommate a due a due- della targa della mia motrice, in quelle – moltiplicate per due, prima di sommarle a tre a tre - della mia patente, persino nelle date –opportunamente elaborate -che mi significavano qualcosa.
Senza volerlo, mi stavo convincendo che questo numero incombesse davvero –opportunamente mimetizzato - sul mondo: ormai certo che non fosse possibile che la frequenza con cui si presentava a tradimento fosse casuale, telefonai addirittura a mia sorella, che è un matematico, per cercare nella sua amicizia coi numeri primi un qualche sostegno alle mie ipotesi.
Era la prima volta – ed è stata anche l’ultima – in cui i suoi numeri dialogavano con me: voglio dire, io i compiti di matematica, a scuola, li copiavo. So a stento le tabelline e i giochi tipo sudoku hanno per me lo stesso grado di difficoltà della scalata dell’Annapurna, ma ero così preso dalle mie indagini sulla presenza del 23 da pensarci di continuo, di ricavarlo persino dalle cifre del prezzo del gasolio in autogrill, o dalla partita IVA sullo scontrino del caffè, arrivando a moltiplicare le soste per cercare conferme.
Gentilmente, Ilaria non rise. Aspettò che finissi, e mi dimostrò, in due parole, che qualsiasi numero può sembrare onnipresente se siamo noi a cercarlo, perché, di fatto, scomponiamo le cifre di tutto quello che troviamo fino a che non lo scoviamo, utilizzando qualsiasi espediente per costruire l’algoritmo necessario con tutti i mezzi a disposizione: e tanto più ci convinciamo, quanto più il gioco diventa facile, perché è la nostra mente a continuare a giocare, di nascosto, e a servirci il risultato ammantato di meraviglia, anche, affinché possiamo restare al sicuro, aggrappati alla nostra teoria, che pure non ha altro fondamento che quello che noi abbiamo deciso di darle.
Fu così che la mia liaison con il numero 23 finì bruscamente, e con essa ogni mia velleità di vedere nei numeri altro che prezzi o limiti di velocità. Non capirò mai niente di matematica.
Ma da quei giorni mi è rimasto l’insegnamento a partire dall’ipotesi, senza manipolarla per potersi scegliere il finale.
Fatti i debiti distinguo, mi sembra che la rilettura in chiave esoterica di miti, leggende, letteratura e fumetti abbia molto in comune con la mia ricerca di allora del numero 23 nella quotidianità della mia vita.
Voglio dire: molto di quello che l’uomo produce con le parole ha sicuramente a che fare con la sua evoluzione, e ogni progresso viene fuori da un percorso.
Esistono generi interi che parlano di questo, dal bildungroman, che significa letteralmente racconto di formazione, a Siddharta.
Tutto è cammino, tutto è ricerca. Di cosa, poi, questo sì che è vario.
Diventare adulti è un percorso di iniziazione: nella foresta per Kunta Kinte, sulle autostrade per me e altri, attraverso i tre regni dell’aldilà per Dante, le 7 fatiche per Ercole e qualche mese in una caserma-anticamera dell’inferno del Vietnam per i ragazzi di Full Metal Jacket.
Qualsiasi sia l’ambientazione, la sostanza non cambia: affrontando le necessarie prove si diventa grandi, e si conquista il diritto a sedere a tavola con gli adulti.
O a far parte di un gruppo, perché si è superato il test d’ingresso: questo vale per le confraternite universitarie, per il Rotary, per la Yakuza, per il MENSA, e per ogni altro circolo chiuso, che selezioni i suoi membri in base a qualche caratteristica che li renda “speciali”e quindi degni di farne parte.
Che caratteristica sia, ancora, questo sì che varia.
Nell’epoca antica, il mondo degli dei e degli eroi, erano il coraggio e la forza fisica ad avere valore.
Oggi come oggi, che un AK47 uccide uguale, anche nelle mani innocentemente incoscienti di un bambino di sei anni, ovviamente le regole di ingaggio sono cambiate. Ma la sostanza, quella no: tutti credono di essere unici, di avere qualcosa che li renda migliori di altri. I circoli non sono che espressione di questo. Quelli magici, in particolare.
È quantomeno consolatorio cercare rifugio nell’immateriale, per riscattarsi da una vita concretamente grigia (che ci sia qualcuno che ci specula, è un discorso a parte), e in fondo non è cosa diversa che trasformarsi in avatar su second life: in un caso e nell’altro, si esce da questa dimensione. Che sia l’unica che io credo esista, questo è un problema mio.
Ma arrivare a vedere simboli esoterici in tutto o quasi quello che è stato scritto o disegnato finora, è davvero come il mio cercare il numero 23 negli scontrini degli autogrill: è voler scovare, a tutti i costi, quello che cerchiamo.
Sicuramente esistono autori che hanno usato simbologie esoteriche, ma perché appartenevano al loro background, alla loro epoca e al loro modo immaginifico di raccontare. Ciascuno di noi scrive per i libri che ha letto e i film che ha visto, ha un suo Pantheon, e lo tiene per la mano.
Pentacoli, rosacroce, …tutto può starci, ma addirittura vedere nei guantoni del primo Mickey Mouse un riferimento subliminale alla massoneria vi prego no, e giù le mani dai Puffi, che siano metafora del mondo ok, ma il Grande Puffo –Gran Maestro per via del cappello rosso è davvero come il 23 nascosto nel mio codice fiscale.
Preferisco continuare a pensare che questi gnometti blu, un po’ folletti, un po’ condominio di ringhiera siano solo quello che sembrano, un fumetto/cartone animato per bambini, con il solito schema dei buoni che vincono e del cattivo che resta beffato, il pasticcione Gargamella che più che un alchimista è un maghetto da strapazzo, perfino simpatico per tutte le bastonate che sistematicamente prende: se proprio vogliamo trovarci un substrato ideologico, il villaggio dei Puffi è un’edulcorata Utòpia, il comunismo della città del sole in salsa mcdonald, le punte smussate per non ferire nessuno.
Ma basta così, niente cosmologia agnostica né altre tortuose interpretazioni che assomigliano a sciarade per iniziati, e intendo l’ultimo termine nel senso di gente abituata a riconoscerle, magari perché compra ogni mercoledì la settimana enigmistica.
Il senso del Codice Da Vinci è l’amore feroce di un figlio per il padre che si è scelto, ed è lo stesso del Frankestein della Shelley, che piange sulla zattera per quel padre che non gli ha mai dato un nome.
Il resto, il criptex, il collage di cadaveri, Maddalena e Gesù e la chiave di volta, la vita dopo la morte, sono contorno, attirano i curiosi e fanno vendere, va bene, ma non è quello il vero mistero.
L’unica simbologia, per quanto faccia male, resta la disperazione del rifiuto, del diverso troppo bianco o troppo pieno di cicatrici, del suo cuore che grida l’urgenza di un abbraccio che nessuno ha il coraggio di dargli, del suo pianto che nessuno ha voglia né tempo di ascoltare.
Bisogna essere iniziati davvero (alla tragedia della specie umana) per sentirlo, attraverso il rumore dei simboli del niente, della fuga, dei giochi di lettere e numeri e carte.
Ma una volta che ci si riesce, è fatta.
Perché si resta capaci di sentirlo. E si smette di avere paura.

(IL SENTIERO DEL BOSCO INCANTATO – APPUNTI SULL’ESOTERICO NELLA LETTERATURA. LUIGI PRUNETI, LA GAIA SCIENZA EDITRICE, 2009, BARI) - LA LEZIONE 23

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