Stefano Liberti, giornalista vincitore nel 2010 del prestigioso premio Indro Montanelli torna in libreria dopo A sud di Lampedusa con il primo reportage al mondo sull’allarmante e dilagante fenomeno del land grabbing.
A partire dalla crisi alimentare e finanziaria del 2007, paesi come l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi, la Libia, la Corea del Sud, che dispongono di grandi risorse economiche ma non di spazi sufficienti per garantire la sicurezza alimentare ai propri abitanti, hanno cominciato a negoziare l’acquisto e l’affitto di enormi quantità di terra nelle nazioni africane o sudamericane; lo stesso stanno facendo le grandi multinazionali dell’agrobusiness - interessate a creare sterminate piantagioni per la produzione di biocarburanti - nonché una serie di società finanziarie, che hanno compreso che l’investimento in terra può garantire ricavi sempre più alti e sicuri.
Questa corsa all’accaparramento delle terre, detta land grabbing, nasconde però una forma insidiosa di sfruttamento e rischia di instaurare un nuovo colonialismo.
Viaggiando fra le valli dell’Etiopia, le foreste dell’Amazzonia, la borsa di Chicago, le convention finanziarie a Ginevra, gli uffici della FAO, Liberti porta per la prima volta alla luce in ogni sua componente questo fenomeno complesso, e ci spiega come i legami fra politica internazionale e mercato globalizzato stiano cambiando il volto del mondo in cui viviamo.
“La prima cosa che colpisce è la vastità. Terre rigogliose che si estendono a perdita d’occhio. Colline verdeggianti che scivolano sulle rive di un lago dalle acque cristalline. Poco sotto l’altopiano, le asperità su cui sorge Addis Abeba si addolciscono in una campagna che somiglia all’Eden perduto. Il sole splende. L’aria è limpida. Nulla a che vedere con l’atmosfera rarefatta della capitale, dove i gas di scarico si impastano con il poco ossigeno disponibile a 2300 metri d’altitudine. Siamo ad Awassa, nel cuore della Rift Valley etiopica, trecento chilometri a sud di Addis Abeba. Il paesaggio circostante è di una bellezza da togliere il fiato. Sulla via che porta verso l’ingresso di questa cittadina, si susseguono cartelli di aziende agricole. C’è un simbolo, un nome, qualche volta un numero di telefono di un ufficio lontano. Al di là dei cancelli non si vede nulla. Solo una distesa senza fine di terre apparentemente incolte.”