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domenica 31 maggio 2009

Considerazioni psicoanalitiche sull'opera di Michelangelo. Di Maria Beatrice Protino

È di Stefano Calamandrei, specialista in Psichiatria, l’articolo dedicato all’opera di Michelangelo e pubblicato su Florilegio 2003, ed. Nicomp L.E., a seguito degli incontri di Arte e Psicologia che da qualche anno la Biblioteca degli Uffizi ospita. L’associazione, creata ad uopo, di storici d’arte, psichiatri e psicologi conduce delle «incursioni borderline in ambienti scientifici autonomi e diversi» per favorire quella interdisciplinarietà culturale atta ad interpretare forse o a scoprire addirittura i percorsi psicologici dei singoli artisti, per svelarne le interne contraddizioni o i lampi di quella genialità che li ha condotti alla soglia dell’immortalità. Michelangelo ha affrontato un tema molto moderno, percepito oggi in tutta la sua drammaticità e divenuto senz’altro il contenuto centrale dell’arte contemporanea: la rappresentazione del bambino insufficientemente stimolato, con un Sé indebolito, vulnerabile. «La creatività artistica ha un carattere spesso coatto e involontario – scrive C. – tanto che in molti artisti la sua assenza produce una depressione che affonda negli strati più profondi della loro personalità. Frammenti infantili, lasciati indietro durante una crescita non ottimale, possono rimanere esclusi dalla struttura attiva e produttiva della mente, più superficiale e cosciente, e legati a qualcosa di più profondo e non integrato».
M. ha elaborato il tema dominante della maternità e della morte per tutta la sua vita artistica. Ma la sua creatività ha avuto una nota di ripetitività, anche se sofisticata ed elaborata, data dall’abbraccio tra madre e figlio raffigurandolo come una holding insoddisfacente: questo è accaduto sia che eseguisse una maternità – si veda ad esempio la Madonna della Scala, la Madonna di Bruges - sia che scolpisse la Pietà, cioè una madre che culla il figlio morto.
Come spiega C., ognuno di noi, per tutta la vita, cerca di integrare la propria personalità di ciò che possono essere considerate le mancanze interiori… Nel farlo ha anche bisogno degli altri esseri umani; ha bisogno di provare emozioni; ha necessità di scambi affettivi. Eppure è vero che si impara a stare con gli altri solo dopo aver imparato a stare con se stessi. Quest’ultima è un’acquisizione complessa - che si compie nel periodo dai sei mesi ai due anni - che la nostra mente deve apprendere attraverso un contatto stretto e la presenza di un’altra persona, una persona che svolga il compito di una sorta di mediatore di fronte alla disperazione che arriverebbe inevitabile dalla solitudine e dal nulla. L’altra persona è appunto la madre, per cui l’immaturità dell’Io del bambino viene equilibrata dall’Io della madre, proprio perché lo stare soli ma con un’alta persona permette al bambino di introiettare – dice C. - quella capacità di sostegno, come se il bambino si creasse una madre interiore, una funzione interna. Per tutto il resto della vita non faremmo altro che continuare ad addomesticare quel senso di solitudine grazie a quella capacità di auto-sostegno ormai strutturata interiormente.
Naturalmente, se questo passaggio non avviene, non si riesce ad entrare in relazione con gli altri in maniera soddisfacente e nemmeno a stare bene da soli, ma nasce un senso di risentimento e dipendenza comunque mai soddisfacente, per cui le angosce di separazione non elaborate diventano una ricerca estenuante della soddisfazione mancata dell’infanzia. Il sostenere della madre, cd. Maternage, si orientano essenzialmente a creare un ambiente adatto a venire incontro alle esigenze del bambino, che si raffigura soprattutto col tenere in braccio. Ed è appunto l’essere tenuti in braccio, o meglio, il non esserlo, il tema caro a M. La raffigurazione del rapporto madre-neonato vede spesso il bambino sofferente tenuto in braccio da una donna distratta ed assente. Certo, questo distacco può essere interpretato in maniera diverse. Se analizziamo l’opera in chiave religiosa, potremmo ritenere che la Madonna è pensierosa perché consapevole del destino del figlio. Ma se facciamo riferimento a tutta la produzione di M. e, soprattutto, se guardiamo alla sua infanzia, trascorsa presso una famiglia di scalpellini dove fu messo a balia, per tornare poi nel nucleo familiare originale solo verso i due anni, probabilmente riusciremo a trovare anche altre motivazioni, magari più complesse. Nella Madonna della Scala, eseguita probabilmente dall’artista all’età di quindici-diciassette anni, Michelangelo raffigura una donna con un bambino in braccio: lei appare molto distaccata, sembra pensare a qualcos’altro mentre il bimbo si volta verso di lei ed esprime fatica ad autosostenersi e angoscia a cercarla. La madre scopre un po’ il seno per allattare il figlioletto e sembra accudirlo con gesti istintivi ma forzati e con un dito gioca con la veste, dando l’impressione di essere assorbita in una fantasticheria che la conduce altrove. Queste caratteristiche torneranno sempre in tutte le Madonne che l’artista rappresenterà. Nella Pietà, scolpita nello stesso periodo della Madonna di Bruges, ha un’iconografia nordica e aveva preso ispirazione da un testo di Simeone Metafraste del X sec. che narrava di come la Vergine avesse tenuto il figlio morto sulle sue ginocchia ricordandosi di come lo aveva cullato da piccolo. La Madonna è una donna giovanissima, tanto da apparire quasi coetanea al Cristo morto, critica alla quale M. rispondeva considerando che le donne caste mantengono sempre un aspetto giovanile. Michelangelo, inizialmente, scolpì la Pietà per adornare la sua tomba e pose dietro la coppia madre-figlio - le cui teste si fondevano là dove si toccavano - un San Nicodemo, una figura paterna che sostiene le altre due, figura probabilmente da interpretarsi come una raffigurazione di se stesso che sostiene la coppia. Un’altra considerazione di C. è condotta sul lavoro non-finito che M. ha lasciato fin dalle sue prime opere: «Il non finito esprime quell’abbraccio, quell’integrazione cercata, il dualismo madre-figlio, anche se viene messo in evidenza soprattutto il rapporto con qualcosa che spaventa, con la tentazione». Se si pensa alla Tauromachia, può riscontrarsi quasi un Io che si emancipa, emerge dal caos e si volge alla strutturazione. Ma è un divenire che parte dal non-finito, appunto, costituito da un insieme di frammenti confusi, in lotta tra loro, con centauri uomini e centauri donne e figure non distinguibili, opera sulla quale Michelangelo ritornò spesso come a parafrasare la sua crescita personale, l’ affinarsi della sua personalità.
Michelangelo continuerà a raffigurare o a scolpire la difficoltà dell’Io ad emergere, senza una madre davvero presente, attanagliato da un senso di abbandono e solitudine sofferente, che forse, come già aveva evidenziato Freud, sarebbe stato poi il vero tema caro a M., cioè la rappresentazione del controllo dell’ira e della frustrazione provati nel sentirsi rifiutato dalla madre.

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