Non ho mai creduto alle favole. Né io né mia sorella ci abbiamo mai creduto: non ne abbiamo avuto il tempo con tutto il casino che ci ha afferrato da piccoli e ci ha raccontato la vita prima che potessimo capirlo e scegliere se amarla o no.
E anche adesso preferisco il neorealismo e la crudezza del neon alle commedie romantiche e alle luci soffuse, e se penso a una storia d’amore penso a una tragedia, immensa e spietata, una lettera scritta col sangue … amare è un gioco di morte, non una passeggiata tra i fiori.
O almeno, è così che è se è amore, perché le coincidenze capitano di rado e quasi mai ci si incontra e ci si riconosce nello stesso istante, quando basterebbe stendere la mano e prima che altri corpi e altre storie ci vincolino, o dopo che sono svaniti via: quasi sempre, i tempi non coincidono, come per un uomo ed una donna a letto, siamo geneticamente condannati a rincorrerci e a smarrirci, e Marquez Gabriel Garcìa, vecchio saggio visionario ha ragione, ci vuole una vita per ritrovarsi, e ne vale la pena anche … ma frattanto è l’inferno, e un inferno che ci intrappola quasi sempre soli.
È la premessa che devo fare, prima di parlare di questo libro (Robin Hood punto Net di Simona Ruffini, Lupo editore), che è una favola, appunto, e che come tale non m’appartiene, e non poteva entusiasmarmi né commuovermi, perché non l’ho mai visto un film con Meg Ryan, io.
E avrei pensato persino fosse per bambini, visti i caratteri grossi e tondi con cui è stampato, se non ci avessi scovato dentro - a tradimento - citazioni densamente adulte, prima tra tutte quella November Rain dei Guns’n Roses che Giuseppe canta nel suo inglese storpio ogni volta che il pensiero di lei gli folgora il cervello, come ho imparato a intuire avendolo da una vita amico, e che anche per questo mi conquista e commuove, come nessun lieto fine sa fare.
Perché, superato l’impatto iniziale, questa storia che pare costruita di mattoncini Lego tanto è semplice e semplificata invece si rivela non esserlo per niente, come un quadro naif, in cui le pennellate ingenue sono frutto di elaborato studio, e per capirlo guardate da vicino la tigre di Ligabue.
Più che raccontino, è destrutturazione consapevole, e più che una favola appare essere un tool, uno strumento, nel senso di modello costruito eliminando le variabili inutili rispetto alla teoria che si vuol dimostrare per consentirne uno studio che punti dritto al senso.
Pur con tutti i limiti che questo processo di alleggerimento comporta, e che finiscono per condizionarne la voce, non si può non riconoscere a questo libro un registro autonomo, e non intravederne dietro tutto un percorso che è ricerca, e come tale entusiasmante, in una classe che in genere copia, e anche male.
Perché personalmente è questo che mi resta, quando leggo una riga o mille pagine, l’impronta: il resto, il contenuto, può starmi vicino oppure no, e spesso è no, quasi sempre, anzi, ma ammetto che non si può raccontare il mondo solo attraverso Roth, Palahniuk e Kureishi, guardarlo solo come io lo guardo, perché ognuno ha i suoi occhi di colore diverso, che vedono diverse cose uguali.
E di sicuro questa ragazza che dal risvolto di copertina sorride con la faccia da liceale anche se ha la mia età non ha il mio stesso sguardo, ma ha le palle di cercarsene uno suo, e pazienza se indulge nel buonismo – Omar lo zingaro/principe azzurro, giusto per citarne una – e tenta l’impresa disperata di una polaroid del nostro tempo finendo per tagliare troppe teste fuori dall’inquadratura.
Perché trattare – tutto insieme - d’immigrazione, precariato, licenziamenti, nuovi poveri, traffico d’organi e così via può riuscire nello spazio di un film solo se si è Ken Loach, e nemmeno sempre: pretendere di farlo in forma di tavoletta lieve, poi, è impossibile, ci vorrebbe lo sguardo disperato del Fellini migliore – quello di Zampanò – per almeno provarci.
Ma se non si vuole guardare ad occhi spalancati la tragedia nascosta dietro la maschera, bhè, allora non credo sia possibile. Non credo. Ma sto qui, e aspetto di leggere quello che la ragazza di cui sopra deciderà di scrivere, ancora. Non è detto che ci riprovi, tantomeno che ci riesca, è chiaro, ma questa volta ha tentato, ed è un miracolo, in questi giorni densi di parole ripetute, originali quanto temi di maturità estratti dalla cartucciera, che affollano scaffali e librerie e discorsi. Non concordo su quello che scrive, né su come lo fa, lo dico e lo ripeto, ma non credo le importi, e le sono grato. Perché sono quelli come lei, che fanno esperimenti, che prima o poi vanno da qualche parte. E intendo: da qualche parte nuova.
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