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domenica 20 settembre 2009
LA VITA NON È UN GIOCO - QUEL CHE RESTA DELLA POLVERE DI VITO ANTONIO CONTE, letto da Silla Hicks (Luca Pensa editore)
No, non è un gioco, questo quadernetto che davvero spero non ce ne siano 188 copie soltanto sparse per il mondo, perché la vita non è un gioco, l’amore non è un gioco, e nemmeno il dolore che si prova a respirare ogni giorno. Piuttosto, è un labirinto, quel maledetto castello dei destini incrociati in cui tutti prima o poi ci siamo persi, senza che nessun corpo dei Marines si ricordasse di venire a salvarci e spesso senza nemmeno la speranza, come i Russi dentro al teatro ostaggio dei Ceceni, la loro rassegnata mancanza di attesa della cavalleria più straziante dello schianto degli aerei contro le torri. Tutti ci siamo addormentati in un treno vuoto su un binario morto, per svegliarci e scoprire che non c’era nessun posto dove andare, e vaffanculo se era il nostro letto e la nostra stanza e tutto il resto, vaffanculo se era estate o inverno, eravamo noi, fermi lì, eravamo noi e attorno non c’era più niente, nemmeno il ricordo di una ragazza cui avevamo lasciato un foglietto azzurro con i versi di qualcuno, a farci compagnia. E certo che, cazzo, altre volte era servito, rileggere quelle righe e ricordare l’emozione di quei cocci di tempo in cui era sembrato possibile, perché se c’è una cosa che sta dentro all’amore è la speranza, e anche se non era amore c’assomigliava, e si trascinava come un aquilone una coda di speranze, di sogni adolescenti e di euforia, e vaffanculo se è durato un pomeriggio, se è svanito prima che potessimo imprimerci il colore di occhi e capelli: a vita non lo scorderemo, il suo odore. E a ciascuna abbiamo dato quello che potevamo, per quello che eravamo in quell’istante, e pazienza se era solo qualche brandello di quello che saremmo stati, se la vita avesse avuto un senso. Se non ci portassimo i nostri errori nello zaino, e una ferita purulenta che ci fa tremare di febbre sotto al sole di questo agosto che non vuol finire, che l’unica volta che ho fatto il bagno era notte, ed ero così ubriaco da non ricordarmi più nemmeno come si nuota a stile, e mi sono solo lasciato galleggiare, per chilometri, cetaceo morente che lotta per non spiaggiarsi, gli occhi sbarrati nell’acqua nera, e poi tornare indietro ed odiare il mondo che esisteva ancora. Avrei fatto qualsiasi cosa per cancellare l’incancellabile, la gomma in inglese si chiama eraser, perché cancella, to erase, appunto vuol dire cancellare, ma non ci sono gomme in una vita – in tante vite – che vorremmo riscrivere. In cui stiamo inchiodati a sputare bestemmie nel vento.
In cui siamo a pezzi, broken into a thousand pieces, rotti in mille pezzi, e nessuno può ricomporli, o – il che è uguale – chi potrebbe non vuole. E la musica fa male come aghi dentro agli occhi, lancinante come il ricordo, e neanche perdere la memoria servirebbe, il dolore è nell’aria che respiriamo, e senza non potremmo esistere. Così, ci abituiamo e lo teniamo per la mano, questo blues che gronda sangue marcio e assieme fiori, senza il quale di noi non rimarrebbe niente, perché il resto – il lavoro, i soldi, i libri e i film, tutti i traguardi che abbiamo provato a tagliare e quelli che ci sono sfuggiti – è squallido palliativo, serve solo a riempire il tempo che hai vuotato. E non possiamo non accorgercene, illuderci che basti, girarci dall’altra parte, rimetterci a dormire, come se non fossi mai esistita, come se questo ammasso di cose bastasse ad essere il mondo. No, davvero non è un gioco, questo quadernetto che condensa quel che rimane della polvere che è stato il giorno, Ishiguro consapevole o meno, con dentro quel pensiero triste che si balla che è stato il tango di Borges. E davvero spero che non ce ne siano solo 188 copie, quando che ne stanno 188 mila di cazzate che lasciano tutto come l’hanno trovato, Mc bestseller del cazzo con dentro il vuoto di Newton, ma su questo ho sempre detto come la penso, perciò sono accanito sostenitore dello streaming, the pirate bay (per adesso, purtroppo, fenomeno limitato alla musica) come metafora di quello che dovrebbe essere il mondo.
Se anche fosse, comunque, e non vi riuscisse di trovarlo, questo libricino che peraltro contiene testi a fronte in due lingue (spagnolo e inglese, disgraziatamente manca proprio il mio tedesco) e illustrazioni che hanno di Manara, fatevi vivi. In ufficio da mia sorella c’è una fotocopiatrice, male che vada, le chiederò un favore.
domenica 13 settembre 2009
Frammenti di un interno - romanzo anomalo di Vito Antonio Conte (Luca Pensa editore). Rec. di Silla Hicks
Quando ti riesce di scrivere qualcosa di buono, non è perché la gente ne parla o vinci un fottutissimo premio. È perché quando lo leggono indovinano chi sei, o almeno ci provano: per questo, a parte Marcel, non credo ci siano persone che possano raccontare chiuse nella propria stanza di cose che non hanno mai visto, perché non le posseggono, e allora tutto suona stonato e falso, per quanto apparecchiato bene. Mi spiego: chi prova a scrivere, e lo fa seriamente – che ci riesca o no, è un discorso a parte – apre una finestra su di sé, prima che sulla storia. Se hai il tempo e la voglia di guardarci dentro, in controluce vedi l’autore com’è veramente, impietosamente, magari, come un cadavere livido sotto il neon dell’anatomopatologo. Vedi un gigante goffo e miope con la maglietta dei Red Sox, nelle pagine più riuscite di IT. Un signore straniero con una buffa barbetta a punta innamorato degli Uffizi, tra quelle dell’Incantatrice di Firenze. Una donna magra e disperata che vorrebbe un’altra vita e un altro corpo che non le siano entrambi prigione, straziata dietro l’ineffabile sorriso di fenice di Orlando.
In alcuni casi è più facile. Ci sono quelli come Hemingway, che raccontano la propria vita e le proprie storie – la guerra civile spagnola, la Parigi di Picasso e della regina Stein - per quelle che sono. Altri, come Roth, che ne prendono spunto e basta. Ma dietro c’è sempre qualcuno che scrive in quel modo e dice quelle cose perché sa di che sta parlando.
Altrimenti, è aria fritta. Non c’è immaginazione che tenga, se manca l’esperienza, se non si hanno i calli sulle dita. L’ immaginazione è solo un velo, e non può separarci dal nulla.
Per questo, questi frammenti di un romanzo mi restano impigliati, anche adesso che il libro l’ho chiuso.
Non è tanto la storia – a metà tra indagine e diario – ma il modo in cui è scritta, tra Herzog e Gadda, visionaria ma intrisa di tecnica esperienza, insieme Fitzcarraldo e la Meccanica, in cui il quotidiano si mescola inconsapevolmente alla storia che racconta, e ci sono canti in latino dentro cattedrali di pietra e termini come “anatocismo”, che sarebbe un sistema illegale di calcolo d’interesse, m’ha detto Luca, che fa il direttore di banca.
Non si leggono alla leggera, queste 114 pagine in pitch 12, come i racconti dell’Adalgisa che devi seguire il rigo per non perderti la parola chiave, non è il cut off di Burroughs – non ancora? - ma questo signore l’ha letto eccome, Burroughs, e si vede, come si vede che si suda ogni frase, che se la gira e rigira prima di lasciarla com’è.
Premetto: non è un giallo, non so se voleva esserlo, ma non è questo, questo libro, quanto piuttosto un train de vie, immaginifico e insieme concreto, perché questo signore non è uno che può permettersi di scrivere e basta, e se lo porta dietro, si porta dietro il suo lavoro normale, le sue giornate normali, e senza di questo non ci sarebbe storia.
E così vaffanculo se non tutto è credibile, vaffanculo se non si resta col fiato sospeso sulle tracce del serial killer e persino se l’impaginazione tirchia ha ridotto a sbarre gli a capo di pagina 90 e 91 ché la prosa poetica avrebbe meritato, perché io non capisco un cazzo di metrica, ho fatto 4 anni all’Istituto d’arte e mi guadagno da vivere con la patente, ma dentro queste righe c’è il ritmo di Capossela.
Può darsi che il 13 febbraio 2005 non sia successo niente, ma non ci credo, o forse è successo ma non in quella data, non lo so, in fondo uno scrittore s’inventa anche le cose che vive. Come so che “quella donna” c’è stata davvero, non avevi bisogno di precisarlo, c’è stata davvero e ci sarà a vita, ovunque andrai, perché nessuno che l’abbia incontrata può riuscire a scordarsela: al massimo, può sperare che l’ignori, e stare lontano dalle luci di Samarcanda.
Io, che non ho il tuo né nessun altro dio che mi abbracci, che l’ho incontrata a 17 anni e dopo cercata tante volte senza che si facesse trovare, ho smesso di crederci fino a degradarla ad interruttore, ma io sono un amante tradito che per sopravvivere deve smontare pezzo per pezzo lo sguardo in cui vorrebbe annegare, e anche se con una donna – per me, l’unica –non ci sono riuscito, con “quella donna” ho fatto un buon lavoro.
Ma questa è un’altra storia.
Quello che so, è che anche tu l’hai vista, e che ci sono cose che solo chi l’ha viste le può raccontare. Prima che vadano perdute, come lacrime, nella pioggia.
Quella donna e altre cose. FRAMMENTI DI UN INTERNO – ROMANZO ANOMALO DI VITO ANTONIO CONTE. Letto da Silla Hicks)
fonte iconografica: www.lucioangelini.splinder.com/archive/2007-11
martedì 8 settembre 2009
101 COSE DA FARE IN PUGLIA ALMENO UNA VOLTA NELLA VITA DI ROSSANO ASTREMO (NEWTON COMPTON) – lRec. di Silla Hicks
Lo dico subito, questo libro non racconta nessuna storia. Non è un romanzo e nemmeno un saggio, nemmeno una raccolta di poesie, è una guida turistica, o meglio una guida e basta, per chiunque passi da questa regione in cui stavo per dire vivo anch’io, ma questa sarebbe una cazzata, io passo il 90% del tempo sulle strade, e poi non è vita, la mia, diciamo che quando torno sto qui, in questa terra aspra come la schiena di un’asino, avrebbe scritto Tirteo, anche se questo non è il suo scoglio nell’Egeo, ma una penisola nella penisola.
Questo libro riassume – no, non riassume, frammenta – in 101 meritevoli istanti redatti da Rossano Astremo, questo posto e i suoi aspetti più o meno caratteristici, unici non so, ho viaggiato abbastanza da capire che non c’è mai niente di nuovo per chi sa guardare, e mi spiace che questa frase non l’abbia scritta io, mi spiace davvero, perché condensa il senso globale della storia e del mondo (è di V.A. Conte, comunque, la frase).
Insomma, questo libro – ce ne sono altri, su altre regioni e altri luoghi – non si propone di raccontare una storia, e infatti non lo fa, e io sono uno che legge storie, e cerca di inventarle, vorrei dire, anche, ma non sarebbe vero, perché io piuttosto cerco di trasformare in storie le cose che vivo.
Ma comunque sia, quindi, non posso dire se è un libro buono o no, ma solo se è o no utile, e dico che lo è. Lo è perché almeno in alcuni punti coglie il senso di quello che è la vita qui: parlare di cultura locale mi sa di folklore e di fatti non lo farò, come non parlerò di tradizioni e menate del genere, no, ma è innegabile che questo posto abbia un’anima, che custodisca un’identità fatta consapevolmente o meno della storia che gli è scivolata addosso, e che non si può ridurre alla notte della taranta, se no davvero siamo alla McPuglia, e non voglio credere che sia questo, quel che rimane della terra di svevi e normanni e turchi e martiri di Otranto e prima di loro dei greci di Sparta che fondarono Taranto.
Questa regione, che non m’appartiene più di quanto le appartenga io, che ci sono stato deportato bambino e uomo ci sono rimasto prigioniero dell’amore prima e del dolore poi, con cui ho fatto pace per i suoi scogli prima di vederti e per te per tutto il tempo da quell’istante in avanti, da cui non me ne vado anche ora che potrei finalmente scappare perché non è casa mia, no, ma non c’è posto che possa esserlo, questa regione in cui sto seduto a scrivere al portatile di mia sorella, seduto al tavolo della sua cucina, questa regione è un organismo vivo, pulsante, che si evolve ogni istante eppure mantiene un dna che è suo.
Perché, questa regione che non porta più fazzoletti neri in testa né abita nei trulli, ma veste in jeans e sta in palazzi come quelli che ci sono dappertutto al mondo, non grattacieli ancora, no, ma ci arriverà prima o poi, e si dibatte nella crisi che globalizza questo tempo più della Coca Cola, in cui il poco lavoro che c’è è precario e molti semplicemente s’arrangiano, trincerandosi nell’adolescenza protratta perché dopo l’università non c’è sbocco, si dice, è tante cose, e tante tutte assieme, che 101 sono troppe, e anche troppo poche.
Non posso – per i motivi che ho detto: non è né vuol essere opera letteraria – dire che cosa questo libro mi lasci, quando l’ho chiuso, perché non è abitato da fantasmi che possa sperare o temere di rincontrare. Ma posso dire quante di queste 101 cose da fare in Puglia prima di morire mi sembrino assolutamente doverose, e quante ne ho fatte, anche, perché per me e per chiunque sia qui da abbastanza tempo questa guida è anche, necessariamente, amarcord.
Una è una capatina al bar Paranà, che adesso è frequentato soprattutto da debosci universitari e radical chic sinistrorsi, ma dieci, quindici anni fa c’andavo anch’io. Aveva – pare abbia ancora – prezzi abbordabili e un’atmosfera da taverna, in un’accezione che contiene marinai e fumo e attesa e speranze, e apertura al futuro e a chiunque entri, a prescindere dell’etichetta sui suoi vestiti. Spero che sia ancora così, ma il tempo è passato e niente resta uguale.
Un’altra è adottare un cane in un canile. Ed è una cosa importante che questa guida lo dica, perché questa è tradizionalmente una terra contadina, e la vita dei campi – fuor da edulcorate digressioni bucoliche - è tutto fuorché tenera con gli animali improduttivi, lusso che non può permettersi. Non ho visto molte persone mettere da parte gli avanzi per i randagi, qui: molti riescono tranquillamente ad ingozzarsi nei ristorantini all’aperto del centro a due passi da un animale affamato che li guarda, e si tratta di professionisti, di gente che ha soldi e dovrebbe essersi lasciato il retaggio campestre alle spalle, né più né meno come chi regala ai suoi bimbi un cucciolo – firmato, è chiaro - a natale e lo dà via a pasqua, perché sporca e come faccio a tenere la casa pulita e altre menate del cazzo. Gente cui spaccherei volentieri la faccia, perché la loro inciviltà mi fa vergognare di stare qui quanto il cattivo gusto delle loro Lacoste pastello, e perchè non si può andare da nessuna parte se non si ama il casino di bambini e di cani, e non si sente il cuore stringersi per gli uni e per gli altri. Piccola parentesi: come spesso accade, è chi ha studiato meno/guadagna meno/ha meno che ha più cuore. A volte, credo che sia perché i soldi insozzano tutto ciò che toccano. Ma non so se sia così, o sia solo un caso. In ogni modo: il libro parla del canile di Manduria, ma penso che uno qualsiasi faccia ,lo stesso, o anche raccogliere un cane per strada, come abbiamo fatto – più volte – noi. Adesso, me ne è rimasto uno solo, un vecchio incrocio di pastore silenzioso e solitario, di cui mi occupo io ma che continua ad aspettare te. Ho cercato di spiegargli che non tornerai, ma che vuoi che capisca, è solo un cane, in fondo. Non si può pretendere che abbia più senno di un uomo.
Infine: il casellante della sud est di Tutino, l’uomo che guardava i treni di Benhadj, meraviglioso documentario visionario che credevo avessimo visto in dieci, qui, ma fortunatamente l’autore della guida è tra questi, ed è un miracolo, come lo è Puccetto, che dipinge sulle sue pezze un caleidoscopio di mondi, lui che non ha mai potuto visitarne nessuno. Un universo che si evolve restando quello che è, nutrendosi di quello che ha, anche se è poco o niente.
Come questa terra. Come era, e come, forse, se decidesse di togliersi la maschera del conformismo consumistico della sua bella gente che può, e finalmente mandasse affanculo i lounge bar, le pagliacciate come la notte della taranta e il pinot grigio col sushi, potrebbe essere, ancora.
Altrimenti,prima o poi, sarà il mare spunnatu, almeno per chi è un nuotatore come me, ad esserne l’unica esperienza autentica, quella da fare prima di morire.
(Il bar Paranà, i cani di Mandria e altre cose da ricordare - 101 COSE DA FARE IN PUGLIA ALMENO UNA VOLTA NELLA VITA DI ROSSANO ASTREMO – letto da Silla Hicks)
Questo libro riassume – no, non riassume, frammenta – in 101 meritevoli istanti redatti da Rossano Astremo, questo posto e i suoi aspetti più o meno caratteristici, unici non so, ho viaggiato abbastanza da capire che non c’è mai niente di nuovo per chi sa guardare, e mi spiace che questa frase non l’abbia scritta io, mi spiace davvero, perché condensa il senso globale della storia e del mondo (è di V.A. Conte, comunque, la frase).
Insomma, questo libro – ce ne sono altri, su altre regioni e altri luoghi – non si propone di raccontare una storia, e infatti non lo fa, e io sono uno che legge storie, e cerca di inventarle, vorrei dire, anche, ma non sarebbe vero, perché io piuttosto cerco di trasformare in storie le cose che vivo.
Ma comunque sia, quindi, non posso dire se è un libro buono o no, ma solo se è o no utile, e dico che lo è. Lo è perché almeno in alcuni punti coglie il senso di quello che è la vita qui: parlare di cultura locale mi sa di folklore e di fatti non lo farò, come non parlerò di tradizioni e menate del genere, no, ma è innegabile che questo posto abbia un’anima, che custodisca un’identità fatta consapevolmente o meno della storia che gli è scivolata addosso, e che non si può ridurre alla notte della taranta, se no davvero siamo alla McPuglia, e non voglio credere che sia questo, quel che rimane della terra di svevi e normanni e turchi e martiri di Otranto e prima di loro dei greci di Sparta che fondarono Taranto.
Questa regione, che non m’appartiene più di quanto le appartenga io, che ci sono stato deportato bambino e uomo ci sono rimasto prigioniero dell’amore prima e del dolore poi, con cui ho fatto pace per i suoi scogli prima di vederti e per te per tutto il tempo da quell’istante in avanti, da cui non me ne vado anche ora che potrei finalmente scappare perché non è casa mia, no, ma non c’è posto che possa esserlo, questa regione in cui sto seduto a scrivere al portatile di mia sorella, seduto al tavolo della sua cucina, questa regione è un organismo vivo, pulsante, che si evolve ogni istante eppure mantiene un dna che è suo.
Perché, questa regione che non porta più fazzoletti neri in testa né abita nei trulli, ma veste in jeans e sta in palazzi come quelli che ci sono dappertutto al mondo, non grattacieli ancora, no, ma ci arriverà prima o poi, e si dibatte nella crisi che globalizza questo tempo più della Coca Cola, in cui il poco lavoro che c’è è precario e molti semplicemente s’arrangiano, trincerandosi nell’adolescenza protratta perché dopo l’università non c’è sbocco, si dice, è tante cose, e tante tutte assieme, che 101 sono troppe, e anche troppo poche.
Non posso – per i motivi che ho detto: non è né vuol essere opera letteraria – dire che cosa questo libro mi lasci, quando l’ho chiuso, perché non è abitato da fantasmi che possa sperare o temere di rincontrare. Ma posso dire quante di queste 101 cose da fare in Puglia prima di morire mi sembrino assolutamente doverose, e quante ne ho fatte, anche, perché per me e per chiunque sia qui da abbastanza tempo questa guida è anche, necessariamente, amarcord.
Una è una capatina al bar Paranà, che adesso è frequentato soprattutto da debosci universitari e radical chic sinistrorsi, ma dieci, quindici anni fa c’andavo anch’io. Aveva – pare abbia ancora – prezzi abbordabili e un’atmosfera da taverna, in un’accezione che contiene marinai e fumo e attesa e speranze, e apertura al futuro e a chiunque entri, a prescindere dell’etichetta sui suoi vestiti. Spero che sia ancora così, ma il tempo è passato e niente resta uguale.
Un’altra è adottare un cane in un canile. Ed è una cosa importante che questa guida lo dica, perché questa è tradizionalmente una terra contadina, e la vita dei campi – fuor da edulcorate digressioni bucoliche - è tutto fuorché tenera con gli animali improduttivi, lusso che non può permettersi. Non ho visto molte persone mettere da parte gli avanzi per i randagi, qui: molti riescono tranquillamente ad ingozzarsi nei ristorantini all’aperto del centro a due passi da un animale affamato che li guarda, e si tratta di professionisti, di gente che ha soldi e dovrebbe essersi lasciato il retaggio campestre alle spalle, né più né meno come chi regala ai suoi bimbi un cucciolo – firmato, è chiaro - a natale e lo dà via a pasqua, perché sporca e come faccio a tenere la casa pulita e altre menate del cazzo. Gente cui spaccherei volentieri la faccia, perché la loro inciviltà mi fa vergognare di stare qui quanto il cattivo gusto delle loro Lacoste pastello, e perchè non si può andare da nessuna parte se non si ama il casino di bambini e di cani, e non si sente il cuore stringersi per gli uni e per gli altri. Piccola parentesi: come spesso accade, è chi ha studiato meno/guadagna meno/ha meno che ha più cuore. A volte, credo che sia perché i soldi insozzano tutto ciò che toccano. Ma non so se sia così, o sia solo un caso. In ogni modo: il libro parla del canile di Manduria, ma penso che uno qualsiasi faccia ,lo stesso, o anche raccogliere un cane per strada, come abbiamo fatto – più volte – noi. Adesso, me ne è rimasto uno solo, un vecchio incrocio di pastore silenzioso e solitario, di cui mi occupo io ma che continua ad aspettare te. Ho cercato di spiegargli che non tornerai, ma che vuoi che capisca, è solo un cane, in fondo. Non si può pretendere che abbia più senno di un uomo.
Infine: il casellante della sud est di Tutino, l’uomo che guardava i treni di Benhadj, meraviglioso documentario visionario che credevo avessimo visto in dieci, qui, ma fortunatamente l’autore della guida è tra questi, ed è un miracolo, come lo è Puccetto, che dipinge sulle sue pezze un caleidoscopio di mondi, lui che non ha mai potuto visitarne nessuno. Un universo che si evolve restando quello che è, nutrendosi di quello che ha, anche se è poco o niente.
Come questa terra. Come era, e come, forse, se decidesse di togliersi la maschera del conformismo consumistico della sua bella gente che può, e finalmente mandasse affanculo i lounge bar, le pagliacciate come la notte della taranta e il pinot grigio col sushi, potrebbe essere, ancora.
Altrimenti,prima o poi, sarà il mare spunnatu, almeno per chi è un nuotatore come me, ad esserne l’unica esperienza autentica, quella da fare prima di morire.
(Il bar Paranà, i cani di Mandria e altre cose da ricordare - 101 COSE DA FARE IN PUGLIA ALMENO UNA VOLTA NELLA VITA DI ROSSANO ASTREMO – letto da Silla Hicks)
martedì 1 settembre 2009
BUNKER BATTE SCARPA 3 A 0 (STABAT MATER di Tiziano Scarpa edito da Einaudi, letto da Silla Hicks )
L’Italia non è il mio paese, no. Ma è quello in cui vivo, anzi quello in cui finora ho vissuto più che in qualsiasi altro, anche più che nel mio. L’Italiano non è la mia lingua, no. Ma è quella che uso di più, che devo usare, se voglio farmi capire. E se voglio leggere, anche, perché i libri in tedesco sono difficili da trovare, e costano cari. Così, quello che è edito in Italia e in italiano è quello che leggo, per lo più. Anche se, quasi sempre, si tratta di traduzioni: di Roth ho solo The Human Stains in inglese, di Palahniuk niente. So che qualcosa manca, perché tradurre è difficile. Ma il grosso, comunque, c’è. In qualsiasi libreria – o bancarella: è lì che compro quasi tutto, alle feste patronali, ai mercatini – si può trovare il mondo. È per questo che non me lo spiego. Voglio dire: se l’Italia fosse una bolla di vetro sigillata dopo Manzoni e la Mazzucco, ok: ci sarebbero ragioni che giustifichino perché Hemingway e Kureishi e Ishiguro ne restano fuori, e tutto resta com’è, non si evolve, non cresce, non si corrompe, insomma: non va da nessuna parte. Perché nel 2009 qui si sia ancora troppe volte fermi, a rileggersi e riscriversi addosso, e questo vale anche quando il risultato è un prodotto garbato, gentile, corretto nella forma e misurato, in una parola difficilmente criticabile, perché non è questo (misurato, garbato, gentile, difficilmente criticabile) che un buon libro deve essere, almeno secondo me, che è vero che non sono un critico né un cattedratico né un cazzo, ma sono uno che legge, per dio, e i libri sono fatti per essere letti, sono fatti per lasciarti qualcosa, non per lasciare tutto – te incluso – com’è già. E per farlo devono tagliare, strappare, lacerare e ferire, devono sradicarsi e sradicarti, portare macchie di sudore e sangue, figli bastardi di un mondo intero per quello che era mentre loro nascevano, tentativi per prova ed errore, specchio di quello che c’è attorno, di quello che c’è stato, e soprattutto di quello che non c’è, ancora.
Vaffanculo al packaging, alle presentazioni, alle prefazioni e ai premi. Queste sono cianfrusaglie, e chiunque abbia provato a scrivere lo sa, e che lo ammetta o no è un’altra storia: sa che è il Mc circo necessario a vendere, ma un libro non è il gadget di un happy meal, dovrebbe essere una finestra, un diario, la cicatrice di un arto che ti è cresciuto mentre dormivi. È ovvio che per scrivere è necessario leggere, e studiare, e lavorare di cesello e tutto il resto, ma questo è cosa diversa che restare sottocosta perché non si ha il coraggio di nuotare al largo. Il mare è lì, e si hanno due braccia e due gambe. Se si resta nell’acqua putrida di alghe, non ci si può lamentare che non si vedano i soffioni delle balene. Così, niente da dire su questo libro, né sulla bella foto in copertina che fa tanto Fabrizio Ferri e i suoi corpi volanti, è scritto bene e si legge con facilità, ci sono ripetizioni di parole e righe che formano il ritmo come un ritornello, una musica, Vivaldi o no non so dirlo, di classica davvero non so niente. E alcune immagini funzionano, il parto nella latrina, i gattini affogati sotto la grondaia, nei punti migliori s’intravede il dolore che dovrebbe permearlo e invece è continuamente smussato, controllato, una partitura senza sbavature, così che il finale è davvero colpo di scena, ma nel senso di cosa assolutamente incredibile e incongrua, non meno di uno sbarco di UFO che cantano we are the world. La fanciulla introversa, timorata, che tranne in un caso (quando cerca di salvare i gattini) si limita e elucubrazioni mai troppo ardite (anche quando dialoga con la propria morte, lo fa gentilmente, e se le propone di ammazzare una suora l’accenna soltanto), la ragazzina grigia che trova conforto solo nel violino e si spaventa dell’embrione di qualcosa che potrebbe provare per il prete musico e ne fugge via, la piccola orfana che ammette di non essere curiosa, che continuamente si autocensura per restare nei confini del decoro che le è stato imposto da sempre, nell’ultima pagina e mezzo si scopre avventuriera travestita da uomo sulle rotte orientali. Fine.
Lo ripeto: è scritto bene. Curato, colto a tratti, qui e lì sprazzi di una Venezia di sangue e nebbia, la scena del mattatoio, uccidere l’agnello per ricavarne dalle budella corde da violino.
Un’educazione – sentimentale e non – che passa attraverso la conoscenza di un mondo violento, dentro e fuori l’Ospitale. Un mondo in cui, prima, i bambini di nessuno venivano affogati nei canali. In cui l’acqua è rossa di sangue. Ma tutto è ovattato, attutito, si scappa lontano dal tanfo e anche le ribellioni sono cerini, mai incendi.
Il parto nella latrina ricorda la nascita al mercato del pesce con cui si apre Profumo (e quella di Leatherface nel mattatoio, ma questo non credo sia un riferimento voluto) ma il resto è una storia di tristezza, non di tragedia. Insomma: la vita è brutta, ma devi prendere le cose come vengono, il motto di Everyman (ma quello è Roth). Certo, non si può pretendere dall’epoca un’eroina cazzuta, incazzata e violenta, una che affondi coltelli nelle suore assassine di gattini e seduca, consapevole Lolita, il giovane prete per diventare grande. Ma Cecilia – nome manzoniano di bimba morta di peste – è così decorosa e timorata e dolce che davvero non si può credere prenda in tutti i sensi il largo. La prigionia nell’Ospitale, poi, i meccanismi di branco che sicuramente c’erano, che ci sono sempre, negli alveari e nelle prigioni e sotto le armi, restano sullo sfondo, se ne sa poco o nulla. Niente risse, né violenze fisiche o verbali, niente di niente. Un cimitero, sì. Il cimitero dei senza nome. E la ricerca della madre stessa resta aspirazione, sogno, illusione. Certo, quando Cecilia getta in mare il pezzo di disegno che doveva essere il suo segno di riconoscimento, quando rinuncia alla speranza di ritrovarla, significa che finalmente ha smesso di cullarsene, che finalmente va oltre. Ma non si capisce dove possa andare, tranne che verso un generico “futuro”. È un lieto fine, sì. Ma resta sospeso, come quello delle favole, e vissero felici e contenti.
Ed è un peccato, era un libro che poteva essere, con un po’ più di coraggio, con un po’ meno attenzione a cosa ne avrebbero pensato/scritto/detto, un po’più fuori le righe e gli schemi, un po’ più sgradevole/duro/vero. Invece di un acquarello, un affresco, tutto lo spazio di un muro e anche oltre, in cui ci fossero rabbia e sofferenza e urla, anche, perché chi soffre e odia grida, non sussurra. Non prega, maledice. E pazienza se sveglia qualcuno. C’è una cosa, di Bunker, che non ha studiato, che è entrato in riformatorio a 8 anni, che scrive da padreterno e ha vinto l’ammirazione di Tarantino, che parla degli stessi temi, l’abbandono e la prigionia e la ricerca di sé, in cui ci sono gli stessi personaggi, il giovane innocente e l’adulto che decide di proteggerlo, che è così. Si chiama Animal Factory, fabbrica di bestie, e finisce nello stesso modo, con l’evasione del protagonista. Ma è tutt’altra cosa, è pugno nello stomaco, ferita di coltello, è sangue vero, non ketchup nell’acqua. È quello che questo libro poteva essere, un capolavoro. Certo, è più sbavato, sì. A tratti, avresti voglia di chiuderlo, perché fa male, fa male pensare che ci siano posti così, dove la vita non conta, dove si è numeri, dove tutto è insozzato, anche l’amore. Dove si uccide e si muore per niente, perché tanto non fotte un cazzo a nessuno. Posti che esistono, quello del libro è un carcere, San Quintino. Ma ci sono anche altri posti in cui si diventa bestie per restare vivi, orfanotrofi, brefotrofi, lager. Posti in cui si è spersonalizzati, privati dell’umanità e di tutto il resto Posti come l’Ospitale doveva essere. Inferni. Luridi, puzzolenti, indecenti, perché se non si è persone non si è più niente che non è corrotto. Nel senso di marcescente. Morto. Peccato. Peccato che in Italia non si abbia il coraggio e l’irriverenza di raccontare. Peccato che si cerchi di scrivere bene. Che ci si fermi sulla soglia. Per non lasciare orme di fango. E vincere premi.
Vaffanculo al packaging, alle presentazioni, alle prefazioni e ai premi. Queste sono cianfrusaglie, e chiunque abbia provato a scrivere lo sa, e che lo ammetta o no è un’altra storia: sa che è il Mc circo necessario a vendere, ma un libro non è il gadget di un happy meal, dovrebbe essere una finestra, un diario, la cicatrice di un arto che ti è cresciuto mentre dormivi. È ovvio che per scrivere è necessario leggere, e studiare, e lavorare di cesello e tutto il resto, ma questo è cosa diversa che restare sottocosta perché non si ha il coraggio di nuotare al largo. Il mare è lì, e si hanno due braccia e due gambe. Se si resta nell’acqua putrida di alghe, non ci si può lamentare che non si vedano i soffioni delle balene. Così, niente da dire su questo libro, né sulla bella foto in copertina che fa tanto Fabrizio Ferri e i suoi corpi volanti, è scritto bene e si legge con facilità, ci sono ripetizioni di parole e righe che formano il ritmo come un ritornello, una musica, Vivaldi o no non so dirlo, di classica davvero non so niente. E alcune immagini funzionano, il parto nella latrina, i gattini affogati sotto la grondaia, nei punti migliori s’intravede il dolore che dovrebbe permearlo e invece è continuamente smussato, controllato, una partitura senza sbavature, così che il finale è davvero colpo di scena, ma nel senso di cosa assolutamente incredibile e incongrua, non meno di uno sbarco di UFO che cantano we are the world. La fanciulla introversa, timorata, che tranne in un caso (quando cerca di salvare i gattini) si limita e elucubrazioni mai troppo ardite (anche quando dialoga con la propria morte, lo fa gentilmente, e se le propone di ammazzare una suora l’accenna soltanto), la ragazzina grigia che trova conforto solo nel violino e si spaventa dell’embrione di qualcosa che potrebbe provare per il prete musico e ne fugge via, la piccola orfana che ammette di non essere curiosa, che continuamente si autocensura per restare nei confini del decoro che le è stato imposto da sempre, nell’ultima pagina e mezzo si scopre avventuriera travestita da uomo sulle rotte orientali. Fine.
Lo ripeto: è scritto bene. Curato, colto a tratti, qui e lì sprazzi di una Venezia di sangue e nebbia, la scena del mattatoio, uccidere l’agnello per ricavarne dalle budella corde da violino.
Un’educazione – sentimentale e non – che passa attraverso la conoscenza di un mondo violento, dentro e fuori l’Ospitale. Un mondo in cui, prima, i bambini di nessuno venivano affogati nei canali. In cui l’acqua è rossa di sangue. Ma tutto è ovattato, attutito, si scappa lontano dal tanfo e anche le ribellioni sono cerini, mai incendi.
Il parto nella latrina ricorda la nascita al mercato del pesce con cui si apre Profumo (e quella di Leatherface nel mattatoio, ma questo non credo sia un riferimento voluto) ma il resto è una storia di tristezza, non di tragedia. Insomma: la vita è brutta, ma devi prendere le cose come vengono, il motto di Everyman (ma quello è Roth). Certo, non si può pretendere dall’epoca un’eroina cazzuta, incazzata e violenta, una che affondi coltelli nelle suore assassine di gattini e seduca, consapevole Lolita, il giovane prete per diventare grande. Ma Cecilia – nome manzoniano di bimba morta di peste – è così decorosa e timorata e dolce che davvero non si può credere prenda in tutti i sensi il largo. La prigionia nell’Ospitale, poi, i meccanismi di branco che sicuramente c’erano, che ci sono sempre, negli alveari e nelle prigioni e sotto le armi, restano sullo sfondo, se ne sa poco o nulla. Niente risse, né violenze fisiche o verbali, niente di niente. Un cimitero, sì. Il cimitero dei senza nome. E la ricerca della madre stessa resta aspirazione, sogno, illusione. Certo, quando Cecilia getta in mare il pezzo di disegno che doveva essere il suo segno di riconoscimento, quando rinuncia alla speranza di ritrovarla, significa che finalmente ha smesso di cullarsene, che finalmente va oltre. Ma non si capisce dove possa andare, tranne che verso un generico “futuro”. È un lieto fine, sì. Ma resta sospeso, come quello delle favole, e vissero felici e contenti.
Ed è un peccato, era un libro che poteva essere, con un po’ più di coraggio, con un po’ meno attenzione a cosa ne avrebbero pensato/scritto/detto, un po’più fuori le righe e gli schemi, un po’ più sgradevole/duro/vero. Invece di un acquarello, un affresco, tutto lo spazio di un muro e anche oltre, in cui ci fossero rabbia e sofferenza e urla, anche, perché chi soffre e odia grida, non sussurra. Non prega, maledice. E pazienza se sveglia qualcuno. C’è una cosa, di Bunker, che non ha studiato, che è entrato in riformatorio a 8 anni, che scrive da padreterno e ha vinto l’ammirazione di Tarantino, che parla degli stessi temi, l’abbandono e la prigionia e la ricerca di sé, in cui ci sono gli stessi personaggi, il giovane innocente e l’adulto che decide di proteggerlo, che è così. Si chiama Animal Factory, fabbrica di bestie, e finisce nello stesso modo, con l’evasione del protagonista. Ma è tutt’altra cosa, è pugno nello stomaco, ferita di coltello, è sangue vero, non ketchup nell’acqua. È quello che questo libro poteva essere, un capolavoro. Certo, è più sbavato, sì. A tratti, avresti voglia di chiuderlo, perché fa male, fa male pensare che ci siano posti così, dove la vita non conta, dove si è numeri, dove tutto è insozzato, anche l’amore. Dove si uccide e si muore per niente, perché tanto non fotte un cazzo a nessuno. Posti che esistono, quello del libro è un carcere, San Quintino. Ma ci sono anche altri posti in cui si diventa bestie per restare vivi, orfanotrofi, brefotrofi, lager. Posti in cui si è spersonalizzati, privati dell’umanità e di tutto il resto Posti come l’Ospitale doveva essere. Inferni. Luridi, puzzolenti, indecenti, perché se non si è persone non si è più niente che non è corrotto. Nel senso di marcescente. Morto. Peccato. Peccato che in Italia non si abbia il coraggio e l’irriverenza di raccontare. Peccato che si cerchi di scrivere bene. Che ci si fermi sulla soglia. Per non lasciare orme di fango. E vincere premi.
venerdì 21 agosto 2009
Robin Hood punto Net di Simona Ruffini (ed. Lupo). Una favola ai tempi della rete secondo Silla Hicks
Non ho mai creduto alle favole. Né io né mia sorella ci abbiamo mai creduto: non ne abbiamo avuto il tempo con tutto il casino che ci ha afferrato da piccoli e ci ha raccontato la vita prima che potessimo capirlo e scegliere se amarla o no.
E anche adesso preferisco il neorealismo e la crudezza del neon alle commedie romantiche e alle luci soffuse, e se penso a una storia d’amore penso a una tragedia, immensa e spietata, una lettera scritta col sangue … amare è un gioco di morte, non una passeggiata tra i fiori.
O almeno, è così che è se è amore, perché le coincidenze capitano di rado e quasi mai ci si incontra e ci si riconosce nello stesso istante, quando basterebbe stendere la mano e prima che altri corpi e altre storie ci vincolino, o dopo che sono svaniti via: quasi sempre, i tempi non coincidono, come per un uomo ed una donna a letto, siamo geneticamente condannati a rincorrerci e a smarrirci, e Marquez Gabriel Garcìa, vecchio saggio visionario ha ragione, ci vuole una vita per ritrovarsi, e ne vale la pena anche … ma frattanto è l’inferno, e un inferno che ci intrappola quasi sempre soli.
È la premessa che devo fare, prima di parlare di questo libro (Robin Hood punto Net di Simona Ruffini, Lupo editore), che è una favola, appunto, e che come tale non m’appartiene, e non poteva entusiasmarmi né commuovermi, perché non l’ho mai visto un film con Meg Ryan, io.
E avrei pensato persino fosse per bambini, visti i caratteri grossi e tondi con cui è stampato, se non ci avessi scovato dentro - a tradimento - citazioni densamente adulte, prima tra tutte quella November Rain dei Guns’n Roses che Giuseppe canta nel suo inglese storpio ogni volta che il pensiero di lei gli folgora il cervello, come ho imparato a intuire avendolo da una vita amico, e che anche per questo mi conquista e commuove, come nessun lieto fine sa fare.
Perché, superato l’impatto iniziale, questa storia che pare costruita di mattoncini Lego tanto è semplice e semplificata invece si rivela non esserlo per niente, come un quadro naif, in cui le pennellate ingenue sono frutto di elaborato studio, e per capirlo guardate da vicino la tigre di Ligabue.
Più che raccontino, è destrutturazione consapevole, e più che una favola appare essere un tool, uno strumento, nel senso di modello costruito eliminando le variabili inutili rispetto alla teoria che si vuol dimostrare per consentirne uno studio che punti dritto al senso.
Pur con tutti i limiti che questo processo di alleggerimento comporta, e che finiscono per condizionarne la voce, non si può non riconoscere a questo libro un registro autonomo, e non intravederne dietro tutto un percorso che è ricerca, e come tale entusiasmante, in una classe che in genere copia, e anche male.
Perché personalmente è questo che mi resta, quando leggo una riga o mille pagine, l’impronta: il resto, il contenuto, può starmi vicino oppure no, e spesso è no, quasi sempre, anzi, ma ammetto che non si può raccontare il mondo solo attraverso Roth, Palahniuk e Kureishi, guardarlo solo come io lo guardo, perché ognuno ha i suoi occhi di colore diverso, che vedono diverse cose uguali.
E di sicuro questa ragazza che dal risvolto di copertina sorride con la faccia da liceale anche se ha la mia età non ha il mio stesso sguardo, ma ha le palle di cercarsene uno suo, e pazienza se indulge nel buonismo – Omar lo zingaro/principe azzurro, giusto per citarne una – e tenta l’impresa disperata di una polaroid del nostro tempo finendo per tagliare troppe teste fuori dall’inquadratura.
Perché trattare – tutto insieme - d’immigrazione, precariato, licenziamenti, nuovi poveri, traffico d’organi e così via può riuscire nello spazio di un film solo se si è Ken Loach, e nemmeno sempre: pretendere di farlo in forma di tavoletta lieve, poi, è impossibile, ci vorrebbe lo sguardo disperato del Fellini migliore – quello di Zampanò – per almeno provarci.
Ma se non si vuole guardare ad occhi spalancati la tragedia nascosta dietro la maschera, bhè, allora non credo sia possibile. Non credo. Ma sto qui, e aspetto di leggere quello che la ragazza di cui sopra deciderà di scrivere, ancora. Non è detto che ci riprovi, tantomeno che ci riesca, è chiaro, ma questa volta ha tentato, ed è un miracolo, in questi giorni densi di parole ripetute, originali quanto temi di maturità estratti dalla cartucciera, che affollano scaffali e librerie e discorsi. Non concordo su quello che scrive, né su come lo fa, lo dico e lo ripeto, ma non credo le importi, e le sono grato. Perché sono quelli come lei, che fanno esperimenti, che prima o poi vanno da qualche parte. E intendo: da qualche parte nuova.
E anche adesso preferisco il neorealismo e la crudezza del neon alle commedie romantiche e alle luci soffuse, e se penso a una storia d’amore penso a una tragedia, immensa e spietata, una lettera scritta col sangue … amare è un gioco di morte, non una passeggiata tra i fiori.
O almeno, è così che è se è amore, perché le coincidenze capitano di rado e quasi mai ci si incontra e ci si riconosce nello stesso istante, quando basterebbe stendere la mano e prima che altri corpi e altre storie ci vincolino, o dopo che sono svaniti via: quasi sempre, i tempi non coincidono, come per un uomo ed una donna a letto, siamo geneticamente condannati a rincorrerci e a smarrirci, e Marquez Gabriel Garcìa, vecchio saggio visionario ha ragione, ci vuole una vita per ritrovarsi, e ne vale la pena anche … ma frattanto è l’inferno, e un inferno che ci intrappola quasi sempre soli.
È la premessa che devo fare, prima di parlare di questo libro (Robin Hood punto Net di Simona Ruffini, Lupo editore), che è una favola, appunto, e che come tale non m’appartiene, e non poteva entusiasmarmi né commuovermi, perché non l’ho mai visto un film con Meg Ryan, io.
E avrei pensato persino fosse per bambini, visti i caratteri grossi e tondi con cui è stampato, se non ci avessi scovato dentro - a tradimento - citazioni densamente adulte, prima tra tutte quella November Rain dei Guns’n Roses che Giuseppe canta nel suo inglese storpio ogni volta che il pensiero di lei gli folgora il cervello, come ho imparato a intuire avendolo da una vita amico, e che anche per questo mi conquista e commuove, come nessun lieto fine sa fare.
Perché, superato l’impatto iniziale, questa storia che pare costruita di mattoncini Lego tanto è semplice e semplificata invece si rivela non esserlo per niente, come un quadro naif, in cui le pennellate ingenue sono frutto di elaborato studio, e per capirlo guardate da vicino la tigre di Ligabue.
Più che raccontino, è destrutturazione consapevole, e più che una favola appare essere un tool, uno strumento, nel senso di modello costruito eliminando le variabili inutili rispetto alla teoria che si vuol dimostrare per consentirne uno studio che punti dritto al senso.
Pur con tutti i limiti che questo processo di alleggerimento comporta, e che finiscono per condizionarne la voce, non si può non riconoscere a questo libro un registro autonomo, e non intravederne dietro tutto un percorso che è ricerca, e come tale entusiasmante, in una classe che in genere copia, e anche male.
Perché personalmente è questo che mi resta, quando leggo una riga o mille pagine, l’impronta: il resto, il contenuto, può starmi vicino oppure no, e spesso è no, quasi sempre, anzi, ma ammetto che non si può raccontare il mondo solo attraverso Roth, Palahniuk e Kureishi, guardarlo solo come io lo guardo, perché ognuno ha i suoi occhi di colore diverso, che vedono diverse cose uguali.
E di sicuro questa ragazza che dal risvolto di copertina sorride con la faccia da liceale anche se ha la mia età non ha il mio stesso sguardo, ma ha le palle di cercarsene uno suo, e pazienza se indulge nel buonismo – Omar lo zingaro/principe azzurro, giusto per citarne una – e tenta l’impresa disperata di una polaroid del nostro tempo finendo per tagliare troppe teste fuori dall’inquadratura.
Perché trattare – tutto insieme - d’immigrazione, precariato, licenziamenti, nuovi poveri, traffico d’organi e così via può riuscire nello spazio di un film solo se si è Ken Loach, e nemmeno sempre: pretendere di farlo in forma di tavoletta lieve, poi, è impossibile, ci vorrebbe lo sguardo disperato del Fellini migliore – quello di Zampanò – per almeno provarci.
Ma se non si vuole guardare ad occhi spalancati la tragedia nascosta dietro la maschera, bhè, allora non credo sia possibile. Non credo. Ma sto qui, e aspetto di leggere quello che la ragazza di cui sopra deciderà di scrivere, ancora. Non è detto che ci riprovi, tantomeno che ci riesca, è chiaro, ma questa volta ha tentato, ed è un miracolo, in questi giorni densi di parole ripetute, originali quanto temi di maturità estratti dalla cartucciera, che affollano scaffali e librerie e discorsi. Non concordo su quello che scrive, né su come lo fa, lo dico e lo ripeto, ma non credo le importi, e le sono grato. Perché sono quelli come lei, che fanno esperimenti, che prima o poi vanno da qualche parte. E intendo: da qualche parte nuova.
mercoledì 12 agosto 2009
Visita di Stato di Alfredo Annicchiarico (Lupo editore). Rec. di Silla Hicks
Se mi ricordo di quant’era bella Alida Valli: certo che sì. E ho anche visto qualche film con Amedeo Nazzari, e Clara Calamai primo seno nudo del cinema italiano. Quello che non ho imparato a scuola – ben poco, tecniche di disegno a parte – l’ho imparato da seconde e terze e centesime visioni, con la tessera Dante Alighieri che con qualche spicciolo ti faceva entrare alle retrospettive, erano gli anni ’80 e non avevo il Moncler ma avevo visto De Sica e Rossellini, e un pomeriggio di sabato che davano Rashomon seduto accanto a me ho trovato Luca, che studiava al classico e voleva fare il regista, ma poi ha preso 60 e vinto un concorso in banca.
Adesso, almeno una volta al mese ceno a casa sua e di Gloria, e mentre i suoi figli fanno casino cerchiamo di parlare, davanti a un DVD di Kim Ki Duk, in genere, ma era Sciuscià il nostro film: il resto, Blade Runner compreso, m’ha intriso dopo.
Siamo una strana coppia, io e Luca, che non mi arriva alla spalla e ha 39 di scarpe eppure è solido come io – trenta centimetri almeno e 40 kg circa più di lui – non saprò mai essere.Gli devo molto, di quello che scriverò di questo libro. Perché è stato lui, a ricordarmeli, i telefoni bianchi, e a raccontarmi di Claretta e della sorella aspirante attrice, e dell’alcova del duce, e di tutta la propaganda sul suo vigore che ha curiosi parallelismi con quanto è sui giornali in questi giorni.
Ed è di questo che parla, questo giallo ambientato nel pieno dell’era littoria, alla vigilia di una visita del Führer che dovrebbe essere perfetta propaganda di regime e rischia invece di arrivare importuna, nel bel mezzo di un intricato groviglio di gerarchi, attricette, picchiatori, e ovviamente poliziotti ovviamente tenebrosi e tormentati (e chi non lo sarebbe, se avesse sposato la Sidney Bristow di Alias?). Una storia che ha di Camilleri, senza il sole che abbaglia di Montalbano e i suoi arancini, ma anche della Dalia Nera, e intendo il film con Hillary Oscar Swank elegantissima in velluto De LaRenta, purtroppo, è da credere, visto che lei è condannata a vincere la serata dell’Academy solo quando indossa quindici chili di muscoli e se si fa massacrare nel finale.
E su tutto questo, echi di Pericle il Nero, e persino di D’Annunzio, se non altro nella scelta dei nomi, chè Aspasia certo gli sarebbe piaciuto, per non dire di Vinzio.
Il fatto – un corpo ritrovato sulla spiaggia del litorale romano, una vedova allegra, il suo amante perfetto capro espiatorio e un commissario ribelle e in preda ai ricordi – obbedisce alle regole del giallo dalla zarina Agata in poi, come le spiega Carlo Lucarelli: ma l’Italia che ne esce assomiglia spaventosamente a quella di oggi, tanto che mutatis mutandis potrebbe essere un istant book.
Perché questo Impero di colonie è un’Italietta, che dietro gli altoparlanti della retorica nasconde tangentopoli, vallettopoli, i terreni pruriti del clero e i più recenti festini: solo il commissario almodovariamente sull’orlo di una crisi di nervi è inverosimile, tutto il resto è reale. Se non avessi letto sul risvolto di copertina che è questo libro è del 2007 penserei a una pasquinata in codice, e nemmeno cifrato, se persino io – che di politica italiana davvero non so niente – sono riuscito ad identificare quasi tutti.
Una fantastica satira, pungente e disillusa, che – pene d’amore perdute di Vinzio Ferrari a parte, che poi è un nome che è una contraddizione in termini, la Rossa di Schumi e la vittoria/sconfitta, Vinzio da Vittorio? O da Vinto? – nemmeno i fratelli Guzzanti al top della forma, con un piglio di denuncia da fare un baffo a “La casta”.
Sorvolo sui dialoghi che qua e là smaccatamente contemporanei (cazzo, come al limite e allucinante, sono linguisticamente figli degli anni ’70), sui troppi aggettivi/troppi avverbi (ma questa è davvero questione di gusti) e su alcuni gineprai del plot, tipo la spia di sua maestà. Questi sono dettagli.
Perché non è un giallo, in realtà, e non è nemmeno ambientato ai tempi del regime. È una sorta di quartina di Nostradamus che in anticipo ha tracciato – romanzandoli, ma solo un po’ - gli eventi di questa estate 2009.
Mi piacerebbe sapere se nella caccia al “chi-è-chi” c’ho preso. Certo, nessun produttore è stato trovato morto seminudo in spiaggia. Ancora, per lo meno. Ma dev’essere per forza un produttore? E per forza morto? Perché di grassoni seminudi (o tutti nudi) se ne sono visti parecchi. E anche di festini. Proprio alla vigilia di una visita importante. Anche se fortunatamente non esiste più nessun Führer. Però, ho sentito parlare di G8…
TELEFONI BIANCHI, CIOÈ GIALLI(VISITA DI STATO SECONDO SILLA HICKS)
Adesso, almeno una volta al mese ceno a casa sua e di Gloria, e mentre i suoi figli fanno casino cerchiamo di parlare, davanti a un DVD di Kim Ki Duk, in genere, ma era Sciuscià il nostro film: il resto, Blade Runner compreso, m’ha intriso dopo.
Siamo una strana coppia, io e Luca, che non mi arriva alla spalla e ha 39 di scarpe eppure è solido come io – trenta centimetri almeno e 40 kg circa più di lui – non saprò mai essere.Gli devo molto, di quello che scriverò di questo libro. Perché è stato lui, a ricordarmeli, i telefoni bianchi, e a raccontarmi di Claretta e della sorella aspirante attrice, e dell’alcova del duce, e di tutta la propaganda sul suo vigore che ha curiosi parallelismi con quanto è sui giornali in questi giorni.
Ed è di questo che parla, questo giallo ambientato nel pieno dell’era littoria, alla vigilia di una visita del Führer che dovrebbe essere perfetta propaganda di regime e rischia invece di arrivare importuna, nel bel mezzo di un intricato groviglio di gerarchi, attricette, picchiatori, e ovviamente poliziotti ovviamente tenebrosi e tormentati (e chi non lo sarebbe, se avesse sposato la Sidney Bristow di Alias?). Una storia che ha di Camilleri, senza il sole che abbaglia di Montalbano e i suoi arancini, ma anche della Dalia Nera, e intendo il film con Hillary Oscar Swank elegantissima in velluto De LaRenta, purtroppo, è da credere, visto che lei è condannata a vincere la serata dell’Academy solo quando indossa quindici chili di muscoli e se si fa massacrare nel finale.
E su tutto questo, echi di Pericle il Nero, e persino di D’Annunzio, se non altro nella scelta dei nomi, chè Aspasia certo gli sarebbe piaciuto, per non dire di Vinzio.
Il fatto – un corpo ritrovato sulla spiaggia del litorale romano, una vedova allegra, il suo amante perfetto capro espiatorio e un commissario ribelle e in preda ai ricordi – obbedisce alle regole del giallo dalla zarina Agata in poi, come le spiega Carlo Lucarelli: ma l’Italia che ne esce assomiglia spaventosamente a quella di oggi, tanto che mutatis mutandis potrebbe essere un istant book.
Perché questo Impero di colonie è un’Italietta, che dietro gli altoparlanti della retorica nasconde tangentopoli, vallettopoli, i terreni pruriti del clero e i più recenti festini: solo il commissario almodovariamente sull’orlo di una crisi di nervi è inverosimile, tutto il resto è reale. Se non avessi letto sul risvolto di copertina che è questo libro è del 2007 penserei a una pasquinata in codice, e nemmeno cifrato, se persino io – che di politica italiana davvero non so niente – sono riuscito ad identificare quasi tutti.
Una fantastica satira, pungente e disillusa, che – pene d’amore perdute di Vinzio Ferrari a parte, che poi è un nome che è una contraddizione in termini, la Rossa di Schumi e la vittoria/sconfitta, Vinzio da Vittorio? O da Vinto? – nemmeno i fratelli Guzzanti al top della forma, con un piglio di denuncia da fare un baffo a “La casta”.
Sorvolo sui dialoghi che qua e là smaccatamente contemporanei (cazzo, come al limite e allucinante, sono linguisticamente figli degli anni ’70), sui troppi aggettivi/troppi avverbi (ma questa è davvero questione di gusti) e su alcuni gineprai del plot, tipo la spia di sua maestà. Questi sono dettagli.
Perché non è un giallo, in realtà, e non è nemmeno ambientato ai tempi del regime. È una sorta di quartina di Nostradamus che in anticipo ha tracciato – romanzandoli, ma solo un po’ - gli eventi di questa estate 2009.
Mi piacerebbe sapere se nella caccia al “chi-è-chi” c’ho preso. Certo, nessun produttore è stato trovato morto seminudo in spiaggia. Ancora, per lo meno. Ma dev’essere per forza un produttore? E per forza morto? Perché di grassoni seminudi (o tutti nudi) se ne sono visti parecchi. E anche di festini. Proprio alla vigilia di una visita importante. Anche se fortunatamente non esiste più nessun Führer. Però, ho sentito parlare di G8…
TELEFONI BIANCHI, CIOÈ GIALLI(VISITA DI STATO SECONDO SILLA HICKS)
venerdì 31 luglio 2009
Delle radici e delle foglie di Moris Bonacini (Lupo editore) – rec. Di Silla Hicks
Non vorrei sembrare rude, ma davvero ci sono cose che non capisco, e una di queste è l’amore. Perché io c’ho provato, e provato davvero, a far funzionare le cose, a trovare un senso che giustificasse tutto, la famosa unica ragione per cui valga la pena di vivere e di morire di cui parla Marquez, quello di Macondo e del gigante Josè Arcadio, ma anche di Amaranta, e di Firmina Daza che si fa attendere una vita.
Davvero, io c’ho provato, finché d’un tratto non ho perso la presa, e mi sono visto precipitare, al rallentatore, e tutto è diventato nero. Anche adesso, è buio. Anche adesso, io sto cadendo. Quindi davvero io non lo so, cosa sia, l’amore: so che mi sono arreso e sono scappato lontano dalle mie ferite, nuotando via nel mio stesso sangue. E non lo so, se davvero sia possibile, sentire qualcosa per tutti i giorni e per tutte le notti, riconoscersi a casa nella pelle dell’altro e finalmente risolversi, sapere chi si è e perché e dove, smettere di andare e di correre e di chiudere gli occhi per non vedere e non piangere.
Ed è di questo, invece, che parla questo libro garbato, gentile negli spigoli imbottiti anche quando parlerebbe d’emarginazione e razzismo e violenza, quasi tutto si sfumasse nella luce di qualcosa che va oltre ed abbaglia, malgrado le schegge che fanno sanguinare gli occhi, pezzi di altri corpi e altre storie. Non racconta di un matrimonio perfetto, ma di una vita assieme forte come un fiume attraverso le rapide. Di un uomo e una donna che continuano la stessa strada, e pazienza se per qualche istante reciprocamente si lasciano la mano, pazienza se crescendo si evolvono e pazienza anche se si scoprono apolidi, figli di una terra che esiste ancora solo nel ricordo: perché sono insieme, e lo restano, e chiunque altro è estraneo, altro da loro. Può averne il corpo e qualche scampolo di tempo, ma è solo un prestito, loro restano due, e restano là, vicini anche quando pensi che non potranno più esserlo, adesso che si sono scavati un baratro a dividerli. Invece no, sono ammanettati da un filo da pesca che nessuno vede ma che non si spezza: fanno giri immensi come aquiloni ma soltanto per ritornare al reciproco rocchetto, diventando prima adulti e poi vecchi senza mai perdersi, Rosario e Antonia emigrati ragazzini dalla Calabria alla Svizzera per ritornarci dopo trent’anni e per sei giorni, scoprendo definitivamente d’essere uno la casa dell’altro, qualsiasi sia il mondo fuori. Non chiedetemi se sia una storia vera: davvero, non chiedetelo a me, che sto qui a scrivere mentre fa alba. Quello che so è solo che ho misurato la vastità della mia devastazione quando nemmeno il sogno di tornare a casa è bastato più a farmi dormire. Quando ho compreso che nemmeno la mia lingua e la mia gente poteva riconoscermi, finché non avevo più lei in cui specchiarmi. Tuttora, non so più chi sono. Sopravvivo, perché respiro ancora. Ma la vita, quella è un’altra cosa, e non c’è posto in cui posso riprenderla, non c’è modo di ricominciarla se non da lei in cui l’ho interrotta. Il resto, è solo un fondale, di cartone dipinto con gli acrilici: sembra vero, ma è solo un poster, come quelli di boschi o spiagge che si usavano negli anni ’80, grandi quanto un muro intero. Io lo so, che non c’è niente, che se ci appoggio la mano sento le crepe e sotto residui di carta da parati che nessuno ha tolto. È solo un miraggio, illusioni che vedo perché ormai sono ben abituato al buio. Davvero, non so se sia vera, questa storia, o se un signore quieto se la sia inventata, per celebrare le sue nozze d’oro. Tutto il resto che racconta, l’emigrazione e lo straniamento di un mondo grande che si spalanca da un abbaino, le difficoltà d’integrazione e i gruppi chiusi di paisà, l’emarginazione iniziale e il sacrificio e la violenza degli autoctoni razzisti ma anche del branco dei pari che ha ricostruito il sua piccolo universo tribale anche nella città del futuro e resta a guardarla dai margini, sicuramente è (stato) reale. In Svizzera e in Francia e in Belgio e nella mia Germania per gli italiani allora, e per i turchi oggi. In Italia per albanesi e africani, in Francia per gli ex coloniali che affollano banlieues e metrò, con il loro francese morbido e vestiti di cotone colorato anche d’inverno. Un copione che si ripete, da Ellis Island in poi, con la malavita che si pasce dei disperati che fanno fatica a restare a galla. Ma non è questo che resta, di questo libro che non è di denuncia né di cronaca né di storia, ma solo delicata lettera d’amore scritta con la grafia sottile, ordinata, che si usava prima che il mezzo stampatello calcato della mia generazione prendesse il sopravvento.
Garbato, sopra ogni cosa, mai urlato né incontrollato né disordinato né nient’altro che possa in qualche modo alterarne lo scorrere decoroso, composto, anche quando s’imbatte in episodi sgradevoli – il cuoco che tenta di violentare Antonia al ristorante dove lavora, Rosario e le sue scappatelle, il marciume sotto il tappeto persiano dell’alta borghesia – su cui sorvola senza indulgere nel voyeurismo morboso, volgare, diventato regola dei nostri giorni.
Incapace di dramma anche quando il dramma c’è, la storia di Antonia e Rosario dura perché non si sofferma sulle brutture che attraversa, perché riesce a proteggersene, e a non perdere il filo.
Un po’ Bassani e un po’ Foster e un po’ Ishiguro degli ultimi lievi Notturni, ma in bella copia, senza sbavature né singhiozzi né spigoli taglienti: questo per me è il suo limite, ma – beninteso – lo è per me soltanto.
Figlio di un mondo in rovina, e sopravvissuto all’inferno, non è un libro che m’appartenga, e non posso farci niente: sono e resto uno che urla, s’incazza, bestemmia, prende a pugni muri e porte, e si rannicchia con le mani sanguinanti sul pavimento, quando il dolore finalmente arriva al cervello e spegne quell’altro male che è immensamente più devastante e lo divora da dentro. Ma questo sono io, e spero io soltanto.
Mi piace pensare che invece ci siano altri che ci si riconosceranno, in questa storia, e che chiuso il libro usciranno a passeggio, sotto il peso di una vita ma leggeri perché possono ancora tenersi per la mano. Li guardo dal finestrino, mentre la loro vita continua a scorrere, e non li capisco, ogni giorno. Più che altro, non capisco come facciano, a vivere e ridere ed essere felici. Non capisco perché non io. Ma poi mi guardo, e lo so. Cerco di dimenticarlo, ogni attimo. Ci provo così tanto che a volte mi riesce, e allora – ma non stanotte – m’addormento.
AMORE SENZA FINE
(Delle radici e delle foglie di Moris Bonacini – rec. Di Silla Hicks)
Davvero, io c’ho provato, finché d’un tratto non ho perso la presa, e mi sono visto precipitare, al rallentatore, e tutto è diventato nero. Anche adesso, è buio. Anche adesso, io sto cadendo. Quindi davvero io non lo so, cosa sia, l’amore: so che mi sono arreso e sono scappato lontano dalle mie ferite, nuotando via nel mio stesso sangue. E non lo so, se davvero sia possibile, sentire qualcosa per tutti i giorni e per tutte le notti, riconoscersi a casa nella pelle dell’altro e finalmente risolversi, sapere chi si è e perché e dove, smettere di andare e di correre e di chiudere gli occhi per non vedere e non piangere.
Ed è di questo, invece, che parla questo libro garbato, gentile negli spigoli imbottiti anche quando parlerebbe d’emarginazione e razzismo e violenza, quasi tutto si sfumasse nella luce di qualcosa che va oltre ed abbaglia, malgrado le schegge che fanno sanguinare gli occhi, pezzi di altri corpi e altre storie. Non racconta di un matrimonio perfetto, ma di una vita assieme forte come un fiume attraverso le rapide. Di un uomo e una donna che continuano la stessa strada, e pazienza se per qualche istante reciprocamente si lasciano la mano, pazienza se crescendo si evolvono e pazienza anche se si scoprono apolidi, figli di una terra che esiste ancora solo nel ricordo: perché sono insieme, e lo restano, e chiunque altro è estraneo, altro da loro. Può averne il corpo e qualche scampolo di tempo, ma è solo un prestito, loro restano due, e restano là, vicini anche quando pensi che non potranno più esserlo, adesso che si sono scavati un baratro a dividerli. Invece no, sono ammanettati da un filo da pesca che nessuno vede ma che non si spezza: fanno giri immensi come aquiloni ma soltanto per ritornare al reciproco rocchetto, diventando prima adulti e poi vecchi senza mai perdersi, Rosario e Antonia emigrati ragazzini dalla Calabria alla Svizzera per ritornarci dopo trent’anni e per sei giorni, scoprendo definitivamente d’essere uno la casa dell’altro, qualsiasi sia il mondo fuori. Non chiedetemi se sia una storia vera: davvero, non chiedetelo a me, che sto qui a scrivere mentre fa alba. Quello che so è solo che ho misurato la vastità della mia devastazione quando nemmeno il sogno di tornare a casa è bastato più a farmi dormire. Quando ho compreso che nemmeno la mia lingua e la mia gente poteva riconoscermi, finché non avevo più lei in cui specchiarmi. Tuttora, non so più chi sono. Sopravvivo, perché respiro ancora. Ma la vita, quella è un’altra cosa, e non c’è posto in cui posso riprenderla, non c’è modo di ricominciarla se non da lei in cui l’ho interrotta. Il resto, è solo un fondale, di cartone dipinto con gli acrilici: sembra vero, ma è solo un poster, come quelli di boschi o spiagge che si usavano negli anni ’80, grandi quanto un muro intero. Io lo so, che non c’è niente, che se ci appoggio la mano sento le crepe e sotto residui di carta da parati che nessuno ha tolto. È solo un miraggio, illusioni che vedo perché ormai sono ben abituato al buio. Davvero, non so se sia vera, questa storia, o se un signore quieto se la sia inventata, per celebrare le sue nozze d’oro. Tutto il resto che racconta, l’emigrazione e lo straniamento di un mondo grande che si spalanca da un abbaino, le difficoltà d’integrazione e i gruppi chiusi di paisà, l’emarginazione iniziale e il sacrificio e la violenza degli autoctoni razzisti ma anche del branco dei pari che ha ricostruito il sua piccolo universo tribale anche nella città del futuro e resta a guardarla dai margini, sicuramente è (stato) reale. In Svizzera e in Francia e in Belgio e nella mia Germania per gli italiani allora, e per i turchi oggi. In Italia per albanesi e africani, in Francia per gli ex coloniali che affollano banlieues e metrò, con il loro francese morbido e vestiti di cotone colorato anche d’inverno. Un copione che si ripete, da Ellis Island in poi, con la malavita che si pasce dei disperati che fanno fatica a restare a galla. Ma non è questo che resta, di questo libro che non è di denuncia né di cronaca né di storia, ma solo delicata lettera d’amore scritta con la grafia sottile, ordinata, che si usava prima che il mezzo stampatello calcato della mia generazione prendesse il sopravvento.
Garbato, sopra ogni cosa, mai urlato né incontrollato né disordinato né nient’altro che possa in qualche modo alterarne lo scorrere decoroso, composto, anche quando s’imbatte in episodi sgradevoli – il cuoco che tenta di violentare Antonia al ristorante dove lavora, Rosario e le sue scappatelle, il marciume sotto il tappeto persiano dell’alta borghesia – su cui sorvola senza indulgere nel voyeurismo morboso, volgare, diventato regola dei nostri giorni.
Incapace di dramma anche quando il dramma c’è, la storia di Antonia e Rosario dura perché non si sofferma sulle brutture che attraversa, perché riesce a proteggersene, e a non perdere il filo.
Un po’ Bassani e un po’ Foster e un po’ Ishiguro degli ultimi lievi Notturni, ma in bella copia, senza sbavature né singhiozzi né spigoli taglienti: questo per me è il suo limite, ma – beninteso – lo è per me soltanto.
Figlio di un mondo in rovina, e sopravvissuto all’inferno, non è un libro che m’appartenga, e non posso farci niente: sono e resto uno che urla, s’incazza, bestemmia, prende a pugni muri e porte, e si rannicchia con le mani sanguinanti sul pavimento, quando il dolore finalmente arriva al cervello e spegne quell’altro male che è immensamente più devastante e lo divora da dentro. Ma questo sono io, e spero io soltanto.
Mi piace pensare che invece ci siano altri che ci si riconosceranno, in questa storia, e che chiuso il libro usciranno a passeggio, sotto il peso di una vita ma leggeri perché possono ancora tenersi per la mano. Li guardo dal finestrino, mentre la loro vita continua a scorrere, e non li capisco, ogni giorno. Più che altro, non capisco come facciano, a vivere e ridere ed essere felici. Non capisco perché non io. Ma poi mi guardo, e lo so. Cerco di dimenticarlo, ogni attimo. Ci provo così tanto che a volte mi riesce, e allora – ma non stanotte – m’addormento.
AMORE SENZA FINE
(Delle radici e delle foglie di Moris Bonacini – rec. Di Silla Hicks)
mercoledì 29 luglio 2009
Le declinazioni affettive di Alfredo Annicchiarico (Lupo editore). Rec. di Silla Hicks
Non ho mai pensato che la droga potesse aggiustare le cose. Non l’ho pensato adolescente alieno in un mondo non suo, incapace di comunicare nella lingua degli altri e di sembrare come loro. Non l’ho pensato uomo col cuore spezzato, che faceva male a tal punto da tenermi sveglio la notte, tutte le notti, come una parodia dell’uomo senza sonno condannato a rivivere ogni attimo l’inferno.
Non lo penso neanche oggi, che pure vita e morte hanno lo stesso insapore dell’assenza, che mi sono scordato come sia, provare qualcosa, qualsiasi cosa, che non sia questo niente sempre uguale.
Ma se fossi un cinquantenne con una moglie che non vuole vedere e un’amante che ha smesso di lottare e una figlia così priva di un minimo di amore per sé da correre dietro a un frocio, bhè, credo che una pera proverei a farmela anch’io. È questo che mi resta, di queste nemmeno cento pagine – in pitch 12 e formato 10x15, va precisato – che vorrebbero essere sceneggiatura di Lelouch riscritta dalla Margaret Mazzantini e invece sono – volontariamente o no – un condensato drammatico sull’incomunicabilità che solo – forse – una Liaison pornogràphique può essere valido paragone.
Quest’uomo si droga, e lo capisco, non vorrei, ma lo sento, soffrire il male di essere che non riesce a dipanare, senza collocazione come marito né amante né padre.
Ambientato nel sottobosco della musica – ché quella di prima grandezza non lascia spazio a niente altro, divora tutto come i Langolieri – questo racconto – romanzo è una parola grossa – trasuda il dolore di Stefano all’ombra dell’uomo che suo padre è e che a lui non riesce di essere: si droga per scappare, e per quanto sia una scelta idiota non gliene riconosco altre, forse la sua amante potrebbe essere una, ma no, lei non è capace, di tendere le braccia a uno che sta annegando e si dibatte e potrebbe trascinarla sott’acqua, per queste cose ci vuole amore, disperato e assoluto, amore, in una parola, e l’amore non cosa da tutti.
E l’assurdo è che l’amante in questione si chiama Emma, lo stesso nome della Bovary, una che per amore ha sacrificato tutto, e senza pensarci: non so se sia ironia consapevole o no, ma certo funziona, come la storia della figlia, che si chiama Camilla come la vergine guerriera dell’Eneide, una che vuole sembrare tosta e che invece è solo una ragazzina, ingenua e con le calze a rete, commoventemene spudorata come solo a vent’anni si può essere, le ciglia bistrate di una bambina che s’impiastriccia di trucco, e sale in albergo con uno che scopa uomini perché suo padre se’è fatto trovare con l’ago nel braccio.
Storie di ordinario degrado familiare, certo. Ma, lo stesso: dio, che desolazione.
E il tutto scritto in una lingua paratattica che nei punti più riusciti ha di Hanif Kureishi, malgrado il voluto provincialismo dei riferimenti, o anzi proprio per questo. Non è una storia facile, di facile ha solo la lingua, e a tratti nemmeno quella, ché ci sono passi da tema, che stonano – musicalmente parlando – ed è un peccato (un esempio, l’uso dei puntini di sospensione, cui Umberto Eco dedica le indimenticabili pagine del suo diario minimo che mi hanno convinto a bandirli dalla mia tastiera). Concludendo, come dice un mio amico, da uno a dieci, quanto: non so, mi servivano altre pagine, personaggi più spessi e una storia intera. Tra tutti, il cattivo patriarca è l’unico che ha le dimensioni – 2 – che dovrebbe avere, gli altri sono abbozzi, tratteggi, forse solo Camilla può andare com’è. Moglie e amante odiose, senz’appello. L’amante, soprattutto, ché un’amante senza amore davvero serve a niente, e l’amore non si auto/protegge, l’amore per definizione si butta via.
Quindi, povero Stefano: forse, al suo posto mi drogherei anch’io. Anzi, no, perché comunque non ci credo, che si possa mai spegnere la mente. A meno che di non prendere un fucile, una sera di primavera, mentre tutti dormono. Di inginocchiarsi a terra e di poggiare il calcio sul pavimento ed ingoiare la canna, le mani unite sul grilletto per non cambiare idea. So di uno che l’ha fatto. Non so se sia stato coraggio, o paura. So che suo fratello – il suo gemello – è tuttora solo in giro per il mondo, senza riuscire a perdonarlo né a perdonarsi né a piangerlo né a piangere. L’ho ascoltato, parlarne. Non sono riuscito a dirgli niente. Ma so che non farei mai una cosa del genere a mia sorella, e che prego lei non lo faccia mai a me. Spegnere la mente non serve. Scappare non serve. Questa vita fa schifo, è rumore, ma è insieme Sergej Vasil'evič Rachmaninov. Forse vale la pena, comunque, di restare svegli ad aspettare come va a finire.
STORIE DI ORDINARIA TRISTEZZA (Le declinazioni affettive di Alfredo Annicchiarico secondo Silla Hicks)
Non lo penso neanche oggi, che pure vita e morte hanno lo stesso insapore dell’assenza, che mi sono scordato come sia, provare qualcosa, qualsiasi cosa, che non sia questo niente sempre uguale.
Ma se fossi un cinquantenne con una moglie che non vuole vedere e un’amante che ha smesso di lottare e una figlia così priva di un minimo di amore per sé da correre dietro a un frocio, bhè, credo che una pera proverei a farmela anch’io. È questo che mi resta, di queste nemmeno cento pagine – in pitch 12 e formato 10x15, va precisato – che vorrebbero essere sceneggiatura di Lelouch riscritta dalla Margaret Mazzantini e invece sono – volontariamente o no – un condensato drammatico sull’incomunicabilità che solo – forse – una Liaison pornogràphique può essere valido paragone.
Quest’uomo si droga, e lo capisco, non vorrei, ma lo sento, soffrire il male di essere che non riesce a dipanare, senza collocazione come marito né amante né padre.
Ambientato nel sottobosco della musica – ché quella di prima grandezza non lascia spazio a niente altro, divora tutto come i Langolieri – questo racconto – romanzo è una parola grossa – trasuda il dolore di Stefano all’ombra dell’uomo che suo padre è e che a lui non riesce di essere: si droga per scappare, e per quanto sia una scelta idiota non gliene riconosco altre, forse la sua amante potrebbe essere una, ma no, lei non è capace, di tendere le braccia a uno che sta annegando e si dibatte e potrebbe trascinarla sott’acqua, per queste cose ci vuole amore, disperato e assoluto, amore, in una parola, e l’amore non cosa da tutti.
E l’assurdo è che l’amante in questione si chiama Emma, lo stesso nome della Bovary, una che per amore ha sacrificato tutto, e senza pensarci: non so se sia ironia consapevole o no, ma certo funziona, come la storia della figlia, che si chiama Camilla come la vergine guerriera dell’Eneide, una che vuole sembrare tosta e che invece è solo una ragazzina, ingenua e con le calze a rete, commoventemene spudorata come solo a vent’anni si può essere, le ciglia bistrate di una bambina che s’impiastriccia di trucco, e sale in albergo con uno che scopa uomini perché suo padre se’è fatto trovare con l’ago nel braccio.
Storie di ordinario degrado familiare, certo. Ma, lo stesso: dio, che desolazione.
E il tutto scritto in una lingua paratattica che nei punti più riusciti ha di Hanif Kureishi, malgrado il voluto provincialismo dei riferimenti, o anzi proprio per questo. Non è una storia facile, di facile ha solo la lingua, e a tratti nemmeno quella, ché ci sono passi da tema, che stonano – musicalmente parlando – ed è un peccato (un esempio, l’uso dei puntini di sospensione, cui Umberto Eco dedica le indimenticabili pagine del suo diario minimo che mi hanno convinto a bandirli dalla mia tastiera). Concludendo, come dice un mio amico, da uno a dieci, quanto: non so, mi servivano altre pagine, personaggi più spessi e una storia intera. Tra tutti, il cattivo patriarca è l’unico che ha le dimensioni – 2 – che dovrebbe avere, gli altri sono abbozzi, tratteggi, forse solo Camilla può andare com’è. Moglie e amante odiose, senz’appello. L’amante, soprattutto, ché un’amante senza amore davvero serve a niente, e l’amore non si auto/protegge, l’amore per definizione si butta via.
Quindi, povero Stefano: forse, al suo posto mi drogherei anch’io. Anzi, no, perché comunque non ci credo, che si possa mai spegnere la mente. A meno che di non prendere un fucile, una sera di primavera, mentre tutti dormono. Di inginocchiarsi a terra e di poggiare il calcio sul pavimento ed ingoiare la canna, le mani unite sul grilletto per non cambiare idea. So di uno che l’ha fatto. Non so se sia stato coraggio, o paura. So che suo fratello – il suo gemello – è tuttora solo in giro per il mondo, senza riuscire a perdonarlo né a perdonarsi né a piangerlo né a piangere. L’ho ascoltato, parlarne. Non sono riuscito a dirgli niente. Ma so che non farei mai una cosa del genere a mia sorella, e che prego lei non lo faccia mai a me. Spegnere la mente non serve. Scappare non serve. Questa vita fa schifo, è rumore, ma è insieme Sergej Vasil'evič Rachmaninov. Forse vale la pena, comunque, di restare svegli ad aspettare come va a finire.
STORIE DI ORDINARIA TRISTEZZA (Le declinazioni affettive di Alfredo Annicchiarico secondo Silla Hicks)
lunedì 27 luglio 2009
Con l’insistenza di un richiamo di Francesco Randazzo (Lupo Editore). Rec. di Silla Hicks
Finalmente uno che ha letto Charles Michael "Chuck" Palahniuk, che l’ha studiato, anzi, è da credere. 110 pagine – 109 – che si leggono in mezz’ora, leggere nel loro terrificante disincanto, e benedette dal filo rosso dell’ironia. Avete presente Soffocare? C’è molto di Chuck, in questi raccontini che parlano di stupri, serial killer, pedofili ed estreme “second lives” come di cose quotidiane, normali, ormai parte del nostro habitat che s’è giocato ogni pudore e ogni valore, e sopravvive incosciente di se stesso. Ognuno è una piccola bomboniera – di tulle nero, è chiaro – che nasconde confetti avvelenati, ma deliziosi: il precario che esce a comprare l’ascia con cui dissezionare il cadavere della sua affittacamere e viene pestato sul raccordo da un lubrico vecchietto, il pedofilo disgustato da un’anziana checca che l’ammazzerebbe per pietà, l’extracomunitario massacrato nel sebac che s’identifica con gli escrementi attorno, l’Elettra moderna che vendica la madre morta di corna uccidendo il padre satiro e paraplegico con i piatti rotti, quello che resta della furia impotente della genitrice.
E poi la prof. obesa di filosofia che vive una vita virtuale hard e una reale di forzata astinenza (dopo la relazione con un prete, cui ha messo fine letteralmente a morsi), e soprattutto il monologo del serial killer sociologo, che ha ucciso 197 persone in 20 anni con precisione chirurgica, clone italico di Dexter, il racconto più lungo e più ispirato, quasi un testo teatrale, e difatti l’autore è regista e sceneggiatore, e si vede. In un mondo che va a rotoli, che convive con l’orrore su tutte le prime pagine e in tutti i TG, questo signore resta immune – e fieramente – dai “cuori mocciolosi” e dai lucchetti ai lampioni, e racconta ciò che vede proteggendosi con l’unica arma che l’intelligenza ha mentre dilaga il buio della mente, l’ironia vera, quella di Pirandello, che è via di fuga e alternativa alla follia. Non si può raccontare, questo libricino che davvero diverte, e insieme fa pensare senza importelo: bisogna leggerlo, e non è uno sforzo, perché, lo ripeto, è scritto con un lessico famigliare che non l’appesantisce oltre i 30 grammi di carta con cui è fatto, dimostrando che si può parlare di tutto usando le parole come tessere da colorare a piacere.
Come per le “Schegge” di Schifano, non è la dimensione che conta, ma la luce, la grana pastosa che t’ipnotizza davanti al fogliettino: sono solo schizzi, sì, ma fatti bene, infinitamente meglio di colossali tele imbrattate giusto per fare cassa.
Non m’esprimo sui lucchetti ai lampioni, io che porto le catene attorno al cuore e un cuore spezzato tatuato sopra il braccio, ma mai mi sognerei d’incatenarlo a qualcosa. Dico solo che ci ho provato, a leggere quei libri, e non sono arrivato oltre pagina quattro, mentre questo qui non volevo che finisse, e quando l’ho chiuso sono rimasto a rifletterci, in silenzio.
Indubbiamente è tosto, sì, ma non più di un ispirato Tarantino o di una performance di Orlan: è una secchiata d’acqua che ti sveglia, e no, non chiamatelo pulp, parola scagliata da Hank e abusata da tutti gli altri a seguire, soprattutto dopo la fiction di Wolf il risolutore e compagni.
Non chiamatelo pulp, perché pulp fa spesso rima con cool, e il cool questi racconti lo sbeffeggiano con l’acume concreto che ha chi non si fa abbagliare dai lustrini della civiltà dell’immagine, e riesce ancora a cogliere la vera natura delle cose: leggetelo, e basta.
E poi, cercate di credere che sia solo fantasia. Provateci, almeno. Se volete riuscire a dormire.
PICCOLA BOTTEGA DI QUOTIDIANI ORRORI (Con l’insistenza di un richiamo – Francesco Randazzo – Lupo Editore 2009)
E poi la prof. obesa di filosofia che vive una vita virtuale hard e una reale di forzata astinenza (dopo la relazione con un prete, cui ha messo fine letteralmente a morsi), e soprattutto il monologo del serial killer sociologo, che ha ucciso 197 persone in 20 anni con precisione chirurgica, clone italico di Dexter, il racconto più lungo e più ispirato, quasi un testo teatrale, e difatti l’autore è regista e sceneggiatore, e si vede. In un mondo che va a rotoli, che convive con l’orrore su tutte le prime pagine e in tutti i TG, questo signore resta immune – e fieramente – dai “cuori mocciolosi” e dai lucchetti ai lampioni, e racconta ciò che vede proteggendosi con l’unica arma che l’intelligenza ha mentre dilaga il buio della mente, l’ironia vera, quella di Pirandello, che è via di fuga e alternativa alla follia. Non si può raccontare, questo libricino che davvero diverte, e insieme fa pensare senza importelo: bisogna leggerlo, e non è uno sforzo, perché, lo ripeto, è scritto con un lessico famigliare che non l’appesantisce oltre i 30 grammi di carta con cui è fatto, dimostrando che si può parlare di tutto usando le parole come tessere da colorare a piacere.
Come per le “Schegge” di Schifano, non è la dimensione che conta, ma la luce, la grana pastosa che t’ipnotizza davanti al fogliettino: sono solo schizzi, sì, ma fatti bene, infinitamente meglio di colossali tele imbrattate giusto per fare cassa.
Non m’esprimo sui lucchetti ai lampioni, io che porto le catene attorno al cuore e un cuore spezzato tatuato sopra il braccio, ma mai mi sognerei d’incatenarlo a qualcosa. Dico solo che ci ho provato, a leggere quei libri, e non sono arrivato oltre pagina quattro, mentre questo qui non volevo che finisse, e quando l’ho chiuso sono rimasto a rifletterci, in silenzio.
Indubbiamente è tosto, sì, ma non più di un ispirato Tarantino o di una performance di Orlan: è una secchiata d’acqua che ti sveglia, e no, non chiamatelo pulp, parola scagliata da Hank e abusata da tutti gli altri a seguire, soprattutto dopo la fiction di Wolf il risolutore e compagni.
Non chiamatelo pulp, perché pulp fa spesso rima con cool, e il cool questi racconti lo sbeffeggiano con l’acume concreto che ha chi non si fa abbagliare dai lustrini della civiltà dell’immagine, e riesce ancora a cogliere la vera natura delle cose: leggetelo, e basta.
E poi, cercate di credere che sia solo fantasia. Provateci, almeno. Se volete riuscire a dormire.
PICCOLA BOTTEGA DI QUOTIDIANI ORRORI (Con l’insistenza di un richiamo – Francesco Randazzo – Lupo Editore 2009)
sabato 25 luglio 2009
Danilo Arona, L'estate di Montebuio (Gargoyle Books). Rec. di Silla Hicks
Io sono uno di quelli che la leggono, la prefazione. E spesso da lì decidono se vogliono andare avanti o no. Sono l’esca attaccata all’amo, le prefazioni: ci sono volte che funzionano, altre che sarebbe meglio strappar via le pagine. Questa, è tra quelle del primo gruppo: mette curiosità, e non la soddisfa. Offre spunti, e non li sviluppa. Racconta, senza raccontare la storia, ma solo impressioni, impulsi: il resto, quello è – dovrebbe essere - affidato al libro che segue.
Mi piacerebbe davvero dire che si è rivelato sempre allo stesso livello delle pagine che l’introducono, questo esperimento fiammingo di matrioske una nell’altra. Che il giochino della storia nella storia – la stanza nella stanza della famiglia Aldobrandini – funziona alla perfezione, e l’autore riesce nella sua scommessa giallo-horror, camminando senza scivolare sul filo di un plot che ha le dimensioni di un frattale. Premetto: in realtà, non è che si tratti di innovazione (basti pensare al film nel film della Donna del tenente francese, o, restando nel filone dark, a REC) ma resta un espediente che se riuscito dà naturalezza a storie altrimenti incredibili, ed è questo che è l’orrore, una piccola bottega di cose e vicende assurde, fuori dalla nostra logica, da quello che possiamo vedere e toccare. Perché ci spaventino, devono sembrarci possibili: dobbiamo esserne trascinati al punto da trovarci lì, con l’uomo nero a un metro, non al sicuro dentro a un cinema. Altrimenti, è tutto inutile.
Purtroppo, non sempre è così, per queste duecento e fischia pagine scritte in un italiano trapunto di riferimenti eterogenei il cui filo conduttore è l’opera omnia di King – ma, forse, davvero non è possibile scrivere di orrore lasciandoselo alle spalle - lavorato di cesello anche quando vorrebbe esser basso.
Intanto, la storia, anzi le storie. L’agiografia di una santa semisconosciuta – radiata o no dal calendario non importa – il cui martirio sembra l’opera di un ispirato Ted Bundy, e che riappare nel finale come vendicatrice adolescente, una Milla Jovovich coperta di sangue con in mano uno spadone più grande di lei per la regia di Luc “Leon” Besson.
Poi, l’estate del ’62 e la banda di piccoli protagonisti, Stand By Me di una generazione, prima che tutto cambi e che ciascuno si trovi al suo posto, nelle schiere dei buoni o dei cattivi, e il ragazzino in vacanza diventi uno scrittore, e muoia schiacciato dal peso dei ricordi.
Miriam piccola vittima, e tutte le altre senza nome, sacrificate a un culto pagano da adoratori del grano come Nicholas Cage arso vivo sull’isola de Il Segreto, che magari fosse così facile, e non esistessero mostri travestiti da papà, che fanno infinitamente più paura.
La ragazza morta che compare a provocare incidenti, leggenda metropolitana universalmente nota su cui circolano filmati su You Tube e un film spagnolo carino, di cui non ricordo il titolo.
E – sopra a tutto -il rumore del male, che è quello dei Langolieri (by S.K., of course), e insieme lo scampanellio dei monatti.
Quello che ne viene fuori è un meltin’ pot frenetico, in cui Stephen IT mantiene assieme i pezzi, e sorvolo sull’ amante scosciata/pettoruta/carrierista che diventa detective (protagonista di una fiction di Rete 4?) che si converte alla maternità salvifica, e allo speriamo che sia femmina del finale.
Anche se, in realtà, è la prevalenza – letteralmente, nel senso di superiore valore - di donne che colpisce, come nella saga di Alien.
Sono donne i capi, del bene – Sigourney Weaver - Tenente Ripley uguale la carrierista di cui sopra, e, al sommo livello, santa Milla – e del male – la regina degli alieni, uguale Lisetta cresciuta dalla parte sbagliata, gli aliens con acido al posto del sangue uguale le zannute arpie, e via dicendo.
Gli uomini, solo comprimari: i carabinieri sbranati, il detective che finisce fuori strada, persino lo scrittore Morgan (complimenti per il nome…fosse stato Marco, avrebbe sicuramente convinto di più, e lo dico io che mi chiamo come l’avversario più famoso dell’antica Roma, peccato che della guerra civile siano rimasti in pochi a saperne qualcosa) restano sullo sfondo, non capiscono, e se provano a farlo non trovano il bandolo della matassa e perdono il senno o addirittura la vita.
Solo che il primo Alien è del ’74, se non sbaglio, e all’epoca – popolata da fragili eroine sistematicamente bisognose di essere salvate – si trattava davvero di un nuovo modo di leggere la storia. Oggi, dopo Resident Evil, Tomb Raider e Xena principessa guerriera, è un filone collaudato, come tanti altri.
Quanto al dono di generare dal proprio corpo un altro corpo – sommo mistero/miracolo, alla base del matriarcato e del culto celtico della dea di Avalon, per non dire del Codice da Vinci – non credo si possa dire niente di nuovo.
Tranne, forse, che la maternità non è l’unica dimensione possibile per una donna, ma soltanto una scelta: se la carrierista che si ritrova incinta dopo il suicidio dello scrittore – per inciso: cosa abbastanza incredibile, in un’epoca in cui gli adulti non fanno i bambini per caso - si converte velocemente al nuovo ruolo di mammina, la Pia, ritardata stuprata che muore di parto nella colonia abbandonata e fatiscente, è solo una vittima, del branco, prima, e del mondo, che continua a dormire mentre lei si dissangua nella notte di san Valentino, poi.
Peccato siano solo poche righe. È la parte più riuscita: l’emarginazione, l’indifferenza, lo squallore che le permeano fanno paura davvero.
Perché sembrano – sono – reali.
Circa vent’anni fa, Giordano Bruno Guerri ha scritto un libro, su un’altra martire vergine, Maria Goretti, e sul suo stupratore. S’intitola “Povera santa”, povero assassino.
È lo stesso titolo che meriterebbe questa storia di provincia fonda dove l’ignoranza fa buio nella mente, e il resto – anche l’orrore di Stephen – viene da sé.
La colonia degli orfanelli/vittime di regime poteva essere un ottimo inizio.
Peccato che le metafore soprannaturali abbiamo smorzato la disperazione che poteva venirne fuori, e tenere sveglio chiunque, anche uno come me che non crede in niente che non si può toccare.
Peccato che di King manchi l’orrore più incredibile, quello quotidiano: il bullismo di cui è vittima l’incendiaria Carrie, la famiglia sfasciata del bambino di Cujo. La stanza del figlio, su cui si basa Pet Semetary. Tutto quello che fa davvero paura, nelle storie di quest’uomo del Maine, che non per niente in Danze Macabre dà lezioni di horror.
Ammesso che servano, è chiaro. Perché i libri sono come la musica e i quadri e le torte e i tuffi, e non si può farli identici a quelli di un altro. Ci si può provare per imparare, come gli studenti d’arte che disegnano su blocchi enormi, seduti per terra nei saloni degli Uffizi o del Louvre, con le matite sparse tutt’attorno e le facce contratte come velocisti ai blocchi. Alcuni di loro diventeranno pittori veri, altri no, torneranno a casa, e s’inventeranno altre vite. Perché ci vuole la Fortuna dell’imponderabile per realizzare i sogni, sì. Ma soprattutto perché ce ne vuole anche di più per trovare una strada nuova, solo tua, e il coraggio di percorrerla, senza che nessun altro l’abbia asfaltata, prima.
Montebuio witch project, ovvero Danilo Arona e il suo L'estate di Montebuio (Gargoyle Books)
Mi piacerebbe davvero dire che si è rivelato sempre allo stesso livello delle pagine che l’introducono, questo esperimento fiammingo di matrioske una nell’altra. Che il giochino della storia nella storia – la stanza nella stanza della famiglia Aldobrandini – funziona alla perfezione, e l’autore riesce nella sua scommessa giallo-horror, camminando senza scivolare sul filo di un plot che ha le dimensioni di un frattale. Premetto: in realtà, non è che si tratti di innovazione (basti pensare al film nel film della Donna del tenente francese, o, restando nel filone dark, a REC) ma resta un espediente che se riuscito dà naturalezza a storie altrimenti incredibili, ed è questo che è l’orrore, una piccola bottega di cose e vicende assurde, fuori dalla nostra logica, da quello che possiamo vedere e toccare. Perché ci spaventino, devono sembrarci possibili: dobbiamo esserne trascinati al punto da trovarci lì, con l’uomo nero a un metro, non al sicuro dentro a un cinema. Altrimenti, è tutto inutile.
Purtroppo, non sempre è così, per queste duecento e fischia pagine scritte in un italiano trapunto di riferimenti eterogenei il cui filo conduttore è l’opera omnia di King – ma, forse, davvero non è possibile scrivere di orrore lasciandoselo alle spalle - lavorato di cesello anche quando vorrebbe esser basso.
Intanto, la storia, anzi le storie. L’agiografia di una santa semisconosciuta – radiata o no dal calendario non importa – il cui martirio sembra l’opera di un ispirato Ted Bundy, e che riappare nel finale come vendicatrice adolescente, una Milla Jovovich coperta di sangue con in mano uno spadone più grande di lei per la regia di Luc “Leon” Besson.
Poi, l’estate del ’62 e la banda di piccoli protagonisti, Stand By Me di una generazione, prima che tutto cambi e che ciascuno si trovi al suo posto, nelle schiere dei buoni o dei cattivi, e il ragazzino in vacanza diventi uno scrittore, e muoia schiacciato dal peso dei ricordi.
Miriam piccola vittima, e tutte le altre senza nome, sacrificate a un culto pagano da adoratori del grano come Nicholas Cage arso vivo sull’isola de Il Segreto, che magari fosse così facile, e non esistessero mostri travestiti da papà, che fanno infinitamente più paura.
La ragazza morta che compare a provocare incidenti, leggenda metropolitana universalmente nota su cui circolano filmati su You Tube e un film spagnolo carino, di cui non ricordo il titolo.
E – sopra a tutto -il rumore del male, che è quello dei Langolieri (by S.K., of course), e insieme lo scampanellio dei monatti.
Quello che ne viene fuori è un meltin’ pot frenetico, in cui Stephen IT mantiene assieme i pezzi, e sorvolo sull’ amante scosciata/pettoruta/carrierista che diventa detective (protagonista di una fiction di Rete 4?) che si converte alla maternità salvifica, e allo speriamo che sia femmina del finale.
Anche se, in realtà, è la prevalenza – letteralmente, nel senso di superiore valore - di donne che colpisce, come nella saga di Alien.
Sono donne i capi, del bene – Sigourney Weaver - Tenente Ripley uguale la carrierista di cui sopra, e, al sommo livello, santa Milla – e del male – la regina degli alieni, uguale Lisetta cresciuta dalla parte sbagliata, gli aliens con acido al posto del sangue uguale le zannute arpie, e via dicendo.
Gli uomini, solo comprimari: i carabinieri sbranati, il detective che finisce fuori strada, persino lo scrittore Morgan (complimenti per il nome…fosse stato Marco, avrebbe sicuramente convinto di più, e lo dico io che mi chiamo come l’avversario più famoso dell’antica Roma, peccato che della guerra civile siano rimasti in pochi a saperne qualcosa) restano sullo sfondo, non capiscono, e se provano a farlo non trovano il bandolo della matassa e perdono il senno o addirittura la vita.
Solo che il primo Alien è del ’74, se non sbaglio, e all’epoca – popolata da fragili eroine sistematicamente bisognose di essere salvate – si trattava davvero di un nuovo modo di leggere la storia. Oggi, dopo Resident Evil, Tomb Raider e Xena principessa guerriera, è un filone collaudato, come tanti altri.
Quanto al dono di generare dal proprio corpo un altro corpo – sommo mistero/miracolo, alla base del matriarcato e del culto celtico della dea di Avalon, per non dire del Codice da Vinci – non credo si possa dire niente di nuovo.
Tranne, forse, che la maternità non è l’unica dimensione possibile per una donna, ma soltanto una scelta: se la carrierista che si ritrova incinta dopo il suicidio dello scrittore – per inciso: cosa abbastanza incredibile, in un’epoca in cui gli adulti non fanno i bambini per caso - si converte velocemente al nuovo ruolo di mammina, la Pia, ritardata stuprata che muore di parto nella colonia abbandonata e fatiscente, è solo una vittima, del branco, prima, e del mondo, che continua a dormire mentre lei si dissangua nella notte di san Valentino, poi.
Peccato siano solo poche righe. È la parte più riuscita: l’emarginazione, l’indifferenza, lo squallore che le permeano fanno paura davvero.
Perché sembrano – sono – reali.
Circa vent’anni fa, Giordano Bruno Guerri ha scritto un libro, su un’altra martire vergine, Maria Goretti, e sul suo stupratore. S’intitola “Povera santa”, povero assassino.
È lo stesso titolo che meriterebbe questa storia di provincia fonda dove l’ignoranza fa buio nella mente, e il resto – anche l’orrore di Stephen – viene da sé.
La colonia degli orfanelli/vittime di regime poteva essere un ottimo inizio.
Peccato che le metafore soprannaturali abbiamo smorzato la disperazione che poteva venirne fuori, e tenere sveglio chiunque, anche uno come me che non crede in niente che non si può toccare.
Peccato che di King manchi l’orrore più incredibile, quello quotidiano: il bullismo di cui è vittima l’incendiaria Carrie, la famiglia sfasciata del bambino di Cujo. La stanza del figlio, su cui si basa Pet Semetary. Tutto quello che fa davvero paura, nelle storie di quest’uomo del Maine, che non per niente in Danze Macabre dà lezioni di horror.
Ammesso che servano, è chiaro. Perché i libri sono come la musica e i quadri e le torte e i tuffi, e non si può farli identici a quelli di un altro. Ci si può provare per imparare, come gli studenti d’arte che disegnano su blocchi enormi, seduti per terra nei saloni degli Uffizi o del Louvre, con le matite sparse tutt’attorno e le facce contratte come velocisti ai blocchi. Alcuni di loro diventeranno pittori veri, altri no, torneranno a casa, e s’inventeranno altre vite. Perché ci vuole la Fortuna dell’imponderabile per realizzare i sogni, sì. Ma soprattutto perché ce ne vuole anche di più per trovare una strada nuova, solo tua, e il coraggio di percorrerla, senza che nessun altro l’abbia asfaltata, prima.
Montebuio witch project, ovvero Danilo Arona e il suo L'estate di Montebuio (Gargoyle Books)
venerdì 17 luglio 2009
LE BENEVOLE di JONATHAN LITTEL (EINAUDI). Rec. di Silla Hicks
Di tutto quello che mi è capitato tra le mani, negli ultimi mesi o in tutta la vita, queste quattrocento e rotte pagine sono sicuramente tra il poco che non mi riuscirà di scordare. Intanto, per la scritta bozze non corrette sotto al titolo:cazzo, chiunque scriva sa che privilegio è, poter accedere a una cosa del genere,una specie di pass per la zona vip dove normalmente uno come te non potrebbe sognarsi di entrare, nella testa e nel cuore di chi ha partorito quel mondo prima che c’entrasse il gioco al massacro della sala tagli e molto ne restasse sul pavimento, magari proprio quello che adesso hai la fortuna di sentire artigliarti lo stomaco, e che commercialmente non era possibile mantenere. E sottolineo il commercialmente, anche: avverbio che poco o niente dovrebbe c’entrate con la scrittura e che invece l’invade come un tumore maligno: cazzo, quant’è difficile da accettare, e vaffanculo se così va il mondo, quando ci penso ringrazio dio di vivere di altro, sono scorpione ascendente scorpione e anche se non credo agli oroscopi sarà per questo che la diplomazia e i compromessi stanno a me come l’olio all’acqua, non penso mai a quella che sarà la reazione di chi avrà la pazienza di starmi ad ascoltare né a quanti lo faranno, e vaffanculo se questo vuol dire che farò a vita il camionista, non sono capace di prostituire le parole.
Persino rileggermi è a volte un tradimento, smussare gli angoli come una bugia: le cose buone escono già buone, e quelle cattive non c’è modo di aggiustarle. Scrivere non è come andare in bicicletta. Non si può imparare, né farlo a comando. Non si può decidere dove andare, sei solo un medium, la storia è già là, ed è un dono. Il cartellino del prezzo, un orpello osceno. Nella mia personale Utòpia (quella di Moore: non l’utopìa, che è una categoria, ma un mondo intero), tutti i libri sono gratis. Come l’open source di Linux.
E questo meriterebbe davvero di esserlo: è Le benevole, di Jonathan Littel, e il consiglio è uno solo, compratelo o fatevelo prestare, leggetelo, insomma, e poi piegatevi in due scossi da conati di vomito e ringraziatemi, perché questo Obersturmfurher mezzo francese chiamato Max Aue – incrocio ben riuscito tra Fernando Caretta e il Grillo Parlante di Pinocchio – è il cicerone ideale per raccontare la Germania impazzita che cercò di distruggere il mondo e che è obbligatorio visitare, per non riesumarla né ora né mai.
Max Aue (Maximilien Aue): da SS a dirigente di una fabbrica francese di merletti, a occhi spalancati attraversa un ventennio disumano con il distacco di un entomologo lobotomizzato al cuore, e senza scuse né giri di parole ammette ogni cosa, perché è quello che è stato, e non ci sono altri modi per dirlo.
In un tempo di collettiva perdita di coscienza, lui vede tutto e racconta tutto, senza metro di giudizio, perché non può essercene. È amante incestuoso, pederasta, matricida e assassino testimone di atrocità irrancontabili – la banda di bambini feroci, le fosse comuni, le amazzoni ariane ossessionate dal perdurare la razza – e tutto senza distogliere le sguardo, mantenendosi lucido mentre cammina scalzo tra cocci di follia. Il fronte orientale e i ricevimenti del Reich, il cranio fracassato del neonato e il morso al naso globoso del Furher, la fedeltà alla propria gemella Miriam che lo spinge tra nerborute braccia maschili, il riciclarsi con successo negli affari quando tutto è finito, facendo sparire le tracce di ciò che è stato assieme al compagno di una vita, Thomas, diventato pericoloso testimone: ogni fotogramma è asetticamente ripreso, senza censura né sensi di colpa, con la camera fissa di un Von Trier in stato di grazia, pacato monologo colto e accurato, e un finale alla Herzog nello zoo bombardato di Berlino, l’agonia dell’ippopotamo come visionaria metafora di quella di un’epoca e dell’universo del mondo.
Apocalittico, come apocalittico è stato il buio della mente che ci ha contagiato tutti, noi tedeschi in primis, ma tutti quanti dietro. Virus mai debellato che raffiora qua e là anche oggi, e che la teoria politically correct del rispetto della sovranità degli Stati vorrebbe costringerci a non riconoscere, così che finirà per divampare in universale epidemia, di nuovo.
Senza che nessuno faccia niente. Così che altri Max Aue ci trovino un habitat ideale.
Sperando che dopo resti qualcuno, ad ascoltarli raccontare.
BENEVOLE HORLA,(LE BENEVOLE, di JONATHAN LITTEL, EINAUDI, TORINO, 2007. Rec. di Silla Hicks)
Persino rileggermi è a volte un tradimento, smussare gli angoli come una bugia: le cose buone escono già buone, e quelle cattive non c’è modo di aggiustarle. Scrivere non è come andare in bicicletta. Non si può imparare, né farlo a comando. Non si può decidere dove andare, sei solo un medium, la storia è già là, ed è un dono. Il cartellino del prezzo, un orpello osceno. Nella mia personale Utòpia (quella di Moore: non l’utopìa, che è una categoria, ma un mondo intero), tutti i libri sono gratis. Come l’open source di Linux.
E questo meriterebbe davvero di esserlo: è Le benevole, di Jonathan Littel, e il consiglio è uno solo, compratelo o fatevelo prestare, leggetelo, insomma, e poi piegatevi in due scossi da conati di vomito e ringraziatemi, perché questo Obersturmfurher mezzo francese chiamato Max Aue – incrocio ben riuscito tra Fernando Caretta e il Grillo Parlante di Pinocchio – è il cicerone ideale per raccontare la Germania impazzita che cercò di distruggere il mondo e che è obbligatorio visitare, per non riesumarla né ora né mai.
Max Aue (Maximilien Aue): da SS a dirigente di una fabbrica francese di merletti, a occhi spalancati attraversa un ventennio disumano con il distacco di un entomologo lobotomizzato al cuore, e senza scuse né giri di parole ammette ogni cosa, perché è quello che è stato, e non ci sono altri modi per dirlo.
In un tempo di collettiva perdita di coscienza, lui vede tutto e racconta tutto, senza metro di giudizio, perché non può essercene. È amante incestuoso, pederasta, matricida e assassino testimone di atrocità irrancontabili – la banda di bambini feroci, le fosse comuni, le amazzoni ariane ossessionate dal perdurare la razza – e tutto senza distogliere le sguardo, mantenendosi lucido mentre cammina scalzo tra cocci di follia. Il fronte orientale e i ricevimenti del Reich, il cranio fracassato del neonato e il morso al naso globoso del Furher, la fedeltà alla propria gemella Miriam che lo spinge tra nerborute braccia maschili, il riciclarsi con successo negli affari quando tutto è finito, facendo sparire le tracce di ciò che è stato assieme al compagno di una vita, Thomas, diventato pericoloso testimone: ogni fotogramma è asetticamente ripreso, senza censura né sensi di colpa, con la camera fissa di un Von Trier in stato di grazia, pacato monologo colto e accurato, e un finale alla Herzog nello zoo bombardato di Berlino, l’agonia dell’ippopotamo come visionaria metafora di quella di un’epoca e dell’universo del mondo.
Apocalittico, come apocalittico è stato il buio della mente che ci ha contagiato tutti, noi tedeschi in primis, ma tutti quanti dietro. Virus mai debellato che raffiora qua e là anche oggi, e che la teoria politically correct del rispetto della sovranità degli Stati vorrebbe costringerci a non riconoscere, così che finirà per divampare in universale epidemia, di nuovo.
Senza che nessuno faccia niente. Così che altri Max Aue ci trovino un habitat ideale.
Sperando che dopo resti qualcuno, ad ascoltarli raccontare.
BENEVOLE HORLA,(LE BENEVOLE, di JONATHAN LITTEL, EINAUDI, TORINO, 2007. Rec. di Silla Hicks)
giovedì 9 luglio 2009
Each man kills the thing he loves di Silla Hicks (Intervento sulla trilogia di Millenium di Stieg Larsson editi da Marsilio)
Each man kills the thing he loves. È la canzone di Querelle de Brest, che certo non consiglio alle anime candide, che sinceramente è un pugno nello stomaco per tutti, anzi, ma è pur sempre il gigantesco Rainer Werner Fassbinder.
Però poteva anche essere la sigla di questo film, e di questo libro, se i libri avessero una sigla, e secondo me dovrebbero averla. Lo dico subito: non è un capolavoro, la triologia del signor Larssen morto prima di arricchirsene. E nemmeno il film resterà nella mia cineteca interiore – quella, per intenderci, dove si proiettano, uno dopo l’altro, l’opera omnia di Ferrara e Lars Von Trier – incluso Antichrist, e non sono ammesse obiezioni - insieme a Cronenberg, e a sprazzi di Oliver Stone, con sopra a tutti quel Blade Runner che più di ogni altra cosa mi ha insegnato il senso dell’esistere.
Ma nel multisala affollato del sabato ci ho accompagnato mia sorella, a vedere l’istant-movie tratto da questo polpettone Ikea, e l’ho vista piangere tutto il tempo senza nemmeno guardare lo schermo, così ci sono stato tirato dentro, mio malgrado. È per questo che ne parlo: altrimenti non ci avrei speso 3 giorni, a leggermi qualcosa come cinquemila pagine di rarefatto trhiller scandinavo, che dio se Wallander non è centomila volte meglio, volendo restare in zona. Ecco perché ne parlo, anzi: ecco perché TI parlo, Kalle Blomqvist: perciò, siediti, e stammi a sentire.
No, non è che improvvisamente mi sia ricordato di essere il fratello maggiore: lo sono sempre stato, anche mentre avevo una vita a cui pensare. Ma vedi, adesso è diverso, adesso dividiamo tutto il tempo in cui non guido, io e questa ragazza che non pesa neanche un terzo di me, e parla solo attraverso numeri, quando proprio le va di parlare.
Lei, che si nasconde dietro al suo PC e beve birra dal mio bicchiere, e non ha amici e ha paura della gente, e tutti dicono che è strana, e la chiamano pittbull e le girano al largo, lei, che ha il cuore frantumato da troppo tempo per cercare di rimetterne i cocci assieme, lei, che sarebbe bellissima e invece è speciale, lei, che è mia sorella, stava lì, ferma dov’era, e cazzo, potevi lasciarcela, invece te la sei andata a cercare. Te la sei andata a cercare, e l’hai vista come nessuno aveva mai avuto il coraggio di guardarla in tutta la vita, e a te è bastata un’occhiata sola: e tutto questo, per scappare come un coniglio e tornare alla tua squallida vita del cazzo o qualsiasi altra cosa essa sia, e lasciarla che butta nel cassonetto la foto di Elvis (è così che finisce, il tuo primo cazzo di volume).
Salvo insistere, per ritrovarla e parlarle – di cosa? Di Gadda? Dell’ipotesi di Reimann? Scegli, può tranquillamente discettare di entrambe, e farlo mentre si smalta le unghie dei piedi – come se fosse una macchina senza carne né sangue, e infatti lo era, prima di te, rassegnata a che nessuno le leggesse dentro in mezz’ora così tanto da non aspettarlo nemmeno più. Ma poi sei comparso, e l’hai fatto gratis, e ieri sera ha pianto due ore, dentro a un cinema, mentre io ero là, e avrei voluto romperti la faccia, lo schianto della cartilagine del tuo naso sotto il mio sinistro, tra le poltrone e in mezzo alla gente, un fiotto vischioso e scuro che si allarga sulla tua bella camicia di lino bianco, mi avresti guardato incredulo, anzi no, non credo. Perché se sei stato capace di vederla, allora sai. Tutto. Incluso quello che sto per dirti. Incluso me.
Allora: siediti Kalle Blomqvist, siediti, e stammi a sentire, e sì, ti chiamerò con questo nome ridicolo da Pippi Calzelunghe che nella triologia usano per schernirti sulla stampa e che s’adatta benissimo all’uomo che sei stato, con lei almeno, così che nomen omen mi verrebbe da dire, tanto più perché è ridicolo anche il tuo nome vero (ammesso che in te ci sia qualcosa che non sia di cartone).
Cominciamo dal titolo e dal primo libro, uomini che odiano le donne, e tutta la storia di una famiglia di sadici che nemmeno le colline hanno gli occhi, e tu e lei in mezzo (sorvolo sul fatto che è lei a salvarti la vita): mi spiace dirti che te ne sei perso il senso, perché non odia le donne solo chi le ammazza, anzi spesso quello è uno psicopatico e punto, e forse non odia nessuno, perché l’odio è un prodotto della neocorteccia e lui è solo arcaico sistema libico, è solo un animale.
Piuttosto, le odia chiunque faccia come te, e non tenga a distanza degli origami quando sa di avere forbici al posto delle dita (e tu sai che gli origami esistono, Kalle Blomqvist, lo sai, se no non avresti intitolato il tuo terzo la regina dei castelli di carta, e alla tua età dovresti sapere anche di essere Edward mani di forbice, se non altro perché ti sarai tagliato da solo e più volte, e nel buio della notte avrai visto le lame, sul tuo cuscino).
L’origami del libro è un’hacker e si chiama Lisbeth Salander, ed è vero che – quindici centimetri in meno a parte – è la fotocopia di mia sorella, o almeno di quello che lei è realmente e gli altri – quasi tutti, tranne te – non vedono.
E non per il fatto che anche mia sorella porta anfibi e guida la moto, no, quelli sono dettagli, abbastanza pittoreschi solo qui, che siamo all’estrema propaggine d’Italia dove anche un bacio fa rumore.
Se ti dico che c’avevi preso, accostandola a lei – mi permetto di suggerirle la lettura di questo libro, un personaggio del quale ha con lei una qualche affinità, hai scritto, e a dirla tutta hai una bella scrittura, fluida e pastosa e inclinata, e una firma che è un susseguirsi di compiaciute s minuscole, mont blanc, è da credere – è per qualcosa di molto meno visibile, e di molto più vero. La sua matematica, che è quanto le resta del disadattato piccolo prodigio che era alle elementari. La sensibilità esasperata che solo chi vive fuori dalla superficialità sociale può avere. La fame di amore che la chiude a riccio e le fa mettere l’anima nelle mani di chi incontra, anche se dovrebbe sapere che è solo sua, e che non ne ha altre e deve proteggerla.
Non so niente della tua vita, Kalle Blomqvist, anche se io la tua Erika l’ho vista e da uomo a uomo non ti capisco, tutto l’universo che adombri nel tuo sguardo di laguna e poi questa cinquantenne qui, uno e sessanta con le meches: potrei dirti che sei scemo, che non è il timbro di Hanoi sul passaporto ad ammantare di Indocina – habitat di vertigine: condivido appieno - una che sì e no può sembrare una matura segretaria, ma non è questo il punto.
Potresti dirmi che non è questo che tu hai visto e vedi, e dio lo sa se ci sono due occhi che vedono la stessa cosa. Ma non è questo il punto.
Il punto è che lei era lì, e che tu te la sei andata a cercare, senz’altro fine se non vedere se avevi ragione, e dio quanto deve averti lusingato, anche, cazzo, ha vent’anni meno di te, e l’intelligenza folgorante che hai sempre voluto, il faro che abbaglia e che nessuno può essere se non per dono. Puoi parlare greco e latino quanto vuoi, Kalle Blomqvist, ma quella è istruzione, non è genio.
Ti può servire per fare colpo sulle sciacquette del rotary, e accomodati, per quello che vale.
Ma non dirmi che gli hacker sono hacker, e quelle che si portano a cena al Bastione sono qualcos’altro, perché allora sì che ti prendo a calci.
Perché vedi, Kalle, o comunque tu ti faccia chiamare, sono tutte prima di tutto donne. E poi il resto, se – fortunatamente - un resto c’è: è una donna Lisbeth, con i suoi tatuaggi e i suoi piercing e le unghie rose a sangue, quanto una delle tue fighette con i capelli stirati tutti uguali e la french manicure di plastica e le Hogan bianche, perché le donne sono tante, non solo una.
E riconoscerlo e amarle è un po’ la stessa cosa.
Non so niente di te, Kalle Blomqvist.
Ma sei tu, uno che odia le donne, di questo sono convinto.
E non dirmi che avresti sposato Lisbeth, se ci fossero stati altri libri, perché alla fine del terzo tornavi, e le portavi la colazione.
Che facevi scena solo per allungare il brodo, perché altrimenti sarebbe stato scontato. Non dirmi che l’amore è scontato, né altre stronzate.
Each man kills the thing he loves.
È verissimo.
Ma per favore, Kalle o comunque ti chiami, per favore. Non parlarmi, proprio tu, d’amore.
Recensione di Silla Hicks sulla trilogia di Millenium di Stieg Larsson editi da Marsilio
Però poteva anche essere la sigla di questo film, e di questo libro, se i libri avessero una sigla, e secondo me dovrebbero averla. Lo dico subito: non è un capolavoro, la triologia del signor Larssen morto prima di arricchirsene. E nemmeno il film resterà nella mia cineteca interiore – quella, per intenderci, dove si proiettano, uno dopo l’altro, l’opera omnia di Ferrara e Lars Von Trier – incluso Antichrist, e non sono ammesse obiezioni - insieme a Cronenberg, e a sprazzi di Oliver Stone, con sopra a tutti quel Blade Runner che più di ogni altra cosa mi ha insegnato il senso dell’esistere.
Ma nel multisala affollato del sabato ci ho accompagnato mia sorella, a vedere l’istant-movie tratto da questo polpettone Ikea, e l’ho vista piangere tutto il tempo senza nemmeno guardare lo schermo, così ci sono stato tirato dentro, mio malgrado. È per questo che ne parlo: altrimenti non ci avrei speso 3 giorni, a leggermi qualcosa come cinquemila pagine di rarefatto trhiller scandinavo, che dio se Wallander non è centomila volte meglio, volendo restare in zona. Ecco perché ne parlo, anzi: ecco perché TI parlo, Kalle Blomqvist: perciò, siediti, e stammi a sentire.
No, non è che improvvisamente mi sia ricordato di essere il fratello maggiore: lo sono sempre stato, anche mentre avevo una vita a cui pensare. Ma vedi, adesso è diverso, adesso dividiamo tutto il tempo in cui non guido, io e questa ragazza che non pesa neanche un terzo di me, e parla solo attraverso numeri, quando proprio le va di parlare.
Lei, che si nasconde dietro al suo PC e beve birra dal mio bicchiere, e non ha amici e ha paura della gente, e tutti dicono che è strana, e la chiamano pittbull e le girano al largo, lei, che ha il cuore frantumato da troppo tempo per cercare di rimetterne i cocci assieme, lei, che sarebbe bellissima e invece è speciale, lei, che è mia sorella, stava lì, ferma dov’era, e cazzo, potevi lasciarcela, invece te la sei andata a cercare. Te la sei andata a cercare, e l’hai vista come nessuno aveva mai avuto il coraggio di guardarla in tutta la vita, e a te è bastata un’occhiata sola: e tutto questo, per scappare come un coniglio e tornare alla tua squallida vita del cazzo o qualsiasi altra cosa essa sia, e lasciarla che butta nel cassonetto la foto di Elvis (è così che finisce, il tuo primo cazzo di volume).
Salvo insistere, per ritrovarla e parlarle – di cosa? Di Gadda? Dell’ipotesi di Reimann? Scegli, può tranquillamente discettare di entrambe, e farlo mentre si smalta le unghie dei piedi – come se fosse una macchina senza carne né sangue, e infatti lo era, prima di te, rassegnata a che nessuno le leggesse dentro in mezz’ora così tanto da non aspettarlo nemmeno più. Ma poi sei comparso, e l’hai fatto gratis, e ieri sera ha pianto due ore, dentro a un cinema, mentre io ero là, e avrei voluto romperti la faccia, lo schianto della cartilagine del tuo naso sotto il mio sinistro, tra le poltrone e in mezzo alla gente, un fiotto vischioso e scuro che si allarga sulla tua bella camicia di lino bianco, mi avresti guardato incredulo, anzi no, non credo. Perché se sei stato capace di vederla, allora sai. Tutto. Incluso quello che sto per dirti. Incluso me.
Allora: siediti Kalle Blomqvist, siediti, e stammi a sentire, e sì, ti chiamerò con questo nome ridicolo da Pippi Calzelunghe che nella triologia usano per schernirti sulla stampa e che s’adatta benissimo all’uomo che sei stato, con lei almeno, così che nomen omen mi verrebbe da dire, tanto più perché è ridicolo anche il tuo nome vero (ammesso che in te ci sia qualcosa che non sia di cartone).
Cominciamo dal titolo e dal primo libro, uomini che odiano le donne, e tutta la storia di una famiglia di sadici che nemmeno le colline hanno gli occhi, e tu e lei in mezzo (sorvolo sul fatto che è lei a salvarti la vita): mi spiace dirti che te ne sei perso il senso, perché non odia le donne solo chi le ammazza, anzi spesso quello è uno psicopatico e punto, e forse non odia nessuno, perché l’odio è un prodotto della neocorteccia e lui è solo arcaico sistema libico, è solo un animale.
Piuttosto, le odia chiunque faccia come te, e non tenga a distanza degli origami quando sa di avere forbici al posto delle dita (e tu sai che gli origami esistono, Kalle Blomqvist, lo sai, se no non avresti intitolato il tuo terzo la regina dei castelli di carta, e alla tua età dovresti sapere anche di essere Edward mani di forbice, se non altro perché ti sarai tagliato da solo e più volte, e nel buio della notte avrai visto le lame, sul tuo cuscino).
L’origami del libro è un’hacker e si chiama Lisbeth Salander, ed è vero che – quindici centimetri in meno a parte – è la fotocopia di mia sorella, o almeno di quello che lei è realmente e gli altri – quasi tutti, tranne te – non vedono.
E non per il fatto che anche mia sorella porta anfibi e guida la moto, no, quelli sono dettagli, abbastanza pittoreschi solo qui, che siamo all’estrema propaggine d’Italia dove anche un bacio fa rumore.
Se ti dico che c’avevi preso, accostandola a lei – mi permetto di suggerirle la lettura di questo libro, un personaggio del quale ha con lei una qualche affinità, hai scritto, e a dirla tutta hai una bella scrittura, fluida e pastosa e inclinata, e una firma che è un susseguirsi di compiaciute s minuscole, mont blanc, è da credere – è per qualcosa di molto meno visibile, e di molto più vero. La sua matematica, che è quanto le resta del disadattato piccolo prodigio che era alle elementari. La sensibilità esasperata che solo chi vive fuori dalla superficialità sociale può avere. La fame di amore che la chiude a riccio e le fa mettere l’anima nelle mani di chi incontra, anche se dovrebbe sapere che è solo sua, e che non ne ha altre e deve proteggerla.
Non so niente della tua vita, Kalle Blomqvist, anche se io la tua Erika l’ho vista e da uomo a uomo non ti capisco, tutto l’universo che adombri nel tuo sguardo di laguna e poi questa cinquantenne qui, uno e sessanta con le meches: potrei dirti che sei scemo, che non è il timbro di Hanoi sul passaporto ad ammantare di Indocina – habitat di vertigine: condivido appieno - una che sì e no può sembrare una matura segretaria, ma non è questo il punto.
Potresti dirmi che non è questo che tu hai visto e vedi, e dio lo sa se ci sono due occhi che vedono la stessa cosa. Ma non è questo il punto.
Il punto è che lei era lì, e che tu te la sei andata a cercare, senz’altro fine se non vedere se avevi ragione, e dio quanto deve averti lusingato, anche, cazzo, ha vent’anni meno di te, e l’intelligenza folgorante che hai sempre voluto, il faro che abbaglia e che nessuno può essere se non per dono. Puoi parlare greco e latino quanto vuoi, Kalle Blomqvist, ma quella è istruzione, non è genio.
Ti può servire per fare colpo sulle sciacquette del rotary, e accomodati, per quello che vale.
Ma non dirmi che gli hacker sono hacker, e quelle che si portano a cena al Bastione sono qualcos’altro, perché allora sì che ti prendo a calci.
Perché vedi, Kalle, o comunque tu ti faccia chiamare, sono tutte prima di tutto donne. E poi il resto, se – fortunatamente - un resto c’è: è una donna Lisbeth, con i suoi tatuaggi e i suoi piercing e le unghie rose a sangue, quanto una delle tue fighette con i capelli stirati tutti uguali e la french manicure di plastica e le Hogan bianche, perché le donne sono tante, non solo una.
E riconoscerlo e amarle è un po’ la stessa cosa.
Non so niente di te, Kalle Blomqvist.
Ma sei tu, uno che odia le donne, di questo sono convinto.
E non dirmi che avresti sposato Lisbeth, se ci fossero stati altri libri, perché alla fine del terzo tornavi, e le portavi la colazione.
Che facevi scena solo per allungare il brodo, perché altrimenti sarebbe stato scontato. Non dirmi che l’amore è scontato, né altre stronzate.
Each man kills the thing he loves.
È verissimo.
Ma per favore, Kalle o comunque ti chiami, per favore. Non parlarmi, proprio tu, d’amore.
Recensione di Silla Hicks sulla trilogia di Millenium di Stieg Larsson editi da Marsilio
giovedì 18 giugno 2009
NOLENTE di Tony Sozzo (Lupo Editore). Rec. di Silla Hicks
Solo i miracolati hanno un lavoro e una famiglia a trent’anni, e lo dico io che sono stato fino a ieri uno di loro e che anche adesso uno stipendio a fine mese continuo ad averlo, ed è una fortuna, perché anche la mia non vita ha comunque un prezzo.
Tutti gli altri, sono una mandria che si aggira senza prospettive né speranze, cresciuta senza la fame che ti spinge avanti a tutti i costi ma anche senza quel progetto che ti fa vivo non solo nel corpo ma dentro al cuore: ogni giorno li vedo, caracollare avanti e indietro, con i vestiti e tutto il resto di dieci anni più giovane ma dentro una pelle che sta invecchiando pur senza essere mai stata grande.
Niente responsabilità, niente bambini e niente nemmeno rabbia, si trascinano, angeli caduti dal limitare di quell’adolescenza che è stata un nido troppo morbido e che adesso è diventata una gabbia da cui non sanno uscire.
Chiedono a papà le chiavi del SUV o della Punto, a seconda dei casi, ma in ognuno non sanno dove andare, e con chi, e quando, non ridono né piangono, semplicemente sono, un giorno appresso all’altro, finché non arriva la vita e li strattona o - raramente - li prende per la mano.
Non so di chi è la colpa, ammesso che ce ne sia una: ma non credo che dipenda dal lavoro che non c’è, sarebbe troppo facile, e poi non è nemmeno vero: i miei colleghi sono stranieri, soprattutto slavi, e sì che Valerio non l’avrebbe presi, lui che ha cercato in tutti i modi camionisti italiani se solo ne avesse trovati da assumere, tempo indeterminato e orario completo e tutto, venti giorni l’anno di ferie pagate più i riposi, invece niente, lauree quante ne vuoi, ma patente E e CAP praticamente nessuna.
Perché è dura, questa vita, sì, e la paga non ti fa ricco ma solo tranquillo di mangiare ogni giorno, anche se noi c’abbiamo pagato il mutuo quindici anni, e c’avremmo mantenuto i bambini che volevamo e che non potevamo avere: a tratti ho l’impressione che semplicemente non s’abbassino, e d’altronde sono troppo in alto, hanno studiato e via dicendo, e pazienza se quando nomini Proust credono corresse in Formula 1 e di Fassbinder non hanno visto niente, figurarsi parlare di Fritz Lang. Il fatto è che crescere costa sforzo, e questo è tutto: costa sforzo camminare da soli per andare da qualche parte, e combattere e ferirsi le nocche e innamorarsi, soprattutto, perché cazzo se è vero che l’amore fa male.
Costa sforzo alzarsi dal letto, ed uscire là fuori e affrontare i giorni come un’autostrada, dove ci sono caselli, e code, ma alla fine, prima o poi – se non t’addormenti dopo dodici ore di guida, o non muori di freddo in una piazzola sotto la neve della bassa, o non ardi in un traforo perché le porte tagliafuoco hanno lucchetti che nessuno s’è ricordato di aprire – alla fine, insomma, se dio vuole, arrivi. Sia pure a sederti a un tavolo coperto da una tovaglia di plastica, in una casa vuota, con una birra in mano a scrivere, tenendo tra le braccia il tuo fascio di ricordi, che è tutto quello che ti resta, ma ce l’hai, cazzo, ce l’hai, e se ti tocchi le cicatrici capisci che ci sei ancora, anche se ti coricherai dentro un letto vuoto e t’addormenterai piangendo.
Così, basta, cazzo, basta, non si vive nolente, si vive volente, e vaffanculo se fa – e lo fa, è da credere – un male cane.
Questo è ciò che mi resta tra le dita, di questo libro che ho finito in due giorni e ci ho pensato due settimane, cercando di darci un senso che non fosse la rabbia che provo davanti a questa inettitudine che non ha niente a che vedere con Zeno Cosini, ma solo con il tempo in cui vivo. Questo ragazzo – ragazzo? No, mi spiace: uomo, perché a vent’anni sei ragazzo, ma a trenta no, e questo è quanto, lo si ammetta o meno non cambia – che ciondola in ambiente universitario fuori tempo massimo e frequenta ragazzine fuori sede mi fa rabbia, tanto più quanto più so che non è un parto di fantasia. Mi fa rabbia perché non fa niente, niente e dico niente, per avere una vita e non serbatoio di ore: mi fa rabbia perché persino quando crede di amare non si scuote, e dio sa se l’amore non è un elettrochoc per chicchessia l’abbia mai provato. Mi fa rabbia pensare che esista – che esistano – e mi fa rabbia non trovarci una ragione: non perché io abbia la pretesa di capire il mondo, no, ma perché ho il brutto vizio di farmi domande, e l’incapacità di trovare risposte mi frustra, né più né meno come uscire dal cinema senza vedere la fine.
Quindi, è la rabbia, che mi resta, di questo libro: la rabbia di non riuscire a spiegarmi perché ci siano tanti miei quasi coetanei – io sono nato il 10 novembre del ’72, non nell’anno mille – che non vanno da nessuna parte, mentre la clessidra li si vuota tra le mani. Perché – lo si accetti o no – il tempo passa. E diventa sempre tardi, non importa quanto sia stato presto, fino a ieri.
Così, non so dire se di queste pagine, fiumana di quello che vorrebbe essere stream of consciousness, questo sì a tratti – nelle intenzioni - Sveviano, che scorre lenta, tortuosa, persino incerta, come il protagonista, mi resti altro.
Ma che volete farci, sono un camionista, io. Un operaio. Non ci sono andato neanche un giorno, all’università. Convivevo già, a diciannove anni. Volevo crescere, diventare grande. L’amore mi ha fatto a pezzi. Non posso capire, cosa significhi avere trent’anni, oggi. Avere il mondo in mano e il cuore vuoto e ignorarli entrambi, e lasciarsi nolentemente vivere.
Perché ci ho provato a vivere, io, prima di diventare questo. Non so se Ettore/Italo – ironia della sorte, come me sospeso tra questo paese e quell’altro – mi definirebbe un lottatore o no, ma so che ci ho provato, a non essere un inetto, a piangere e ridere ed esistere. So che ci ho provato, a sentire l’amore. E che ne è valsa la pena di tutto. Anche del dolore, anche di stasera. Che ne vale sempre la pena, perché, altrimenti, allora sì che non c’è nessun senso.
E tra il nolente e il niente – per me, sempre per me – è meglio il niente.
No, non mi riferisco al nichilismo, abusato dal protagonista come la frase ti amo sulla bocca della maggior parte della gente. Voglio dire il niente che è niente davvero. Staccare la spina. Game over.
Certo, è un peccato. Perché, credetemi, c’è sempre la vita, là fuori.
VOLENTE O NOLENTE Rec. Di Silla Hicks
(NOLENTE di Tony Sozzo – Lupo Editore, Copertino, 2008)
Tutti gli altri, sono una mandria che si aggira senza prospettive né speranze, cresciuta senza la fame che ti spinge avanti a tutti i costi ma anche senza quel progetto che ti fa vivo non solo nel corpo ma dentro al cuore: ogni giorno li vedo, caracollare avanti e indietro, con i vestiti e tutto il resto di dieci anni più giovane ma dentro una pelle che sta invecchiando pur senza essere mai stata grande.
Niente responsabilità, niente bambini e niente nemmeno rabbia, si trascinano, angeli caduti dal limitare di quell’adolescenza che è stata un nido troppo morbido e che adesso è diventata una gabbia da cui non sanno uscire.
Chiedono a papà le chiavi del SUV o della Punto, a seconda dei casi, ma in ognuno non sanno dove andare, e con chi, e quando, non ridono né piangono, semplicemente sono, un giorno appresso all’altro, finché non arriva la vita e li strattona o - raramente - li prende per la mano.
Non so di chi è la colpa, ammesso che ce ne sia una: ma non credo che dipenda dal lavoro che non c’è, sarebbe troppo facile, e poi non è nemmeno vero: i miei colleghi sono stranieri, soprattutto slavi, e sì che Valerio non l’avrebbe presi, lui che ha cercato in tutti i modi camionisti italiani se solo ne avesse trovati da assumere, tempo indeterminato e orario completo e tutto, venti giorni l’anno di ferie pagate più i riposi, invece niente, lauree quante ne vuoi, ma patente E e CAP praticamente nessuna.
Perché è dura, questa vita, sì, e la paga non ti fa ricco ma solo tranquillo di mangiare ogni giorno, anche se noi c’abbiamo pagato il mutuo quindici anni, e c’avremmo mantenuto i bambini che volevamo e che non potevamo avere: a tratti ho l’impressione che semplicemente non s’abbassino, e d’altronde sono troppo in alto, hanno studiato e via dicendo, e pazienza se quando nomini Proust credono corresse in Formula 1 e di Fassbinder non hanno visto niente, figurarsi parlare di Fritz Lang. Il fatto è che crescere costa sforzo, e questo è tutto: costa sforzo camminare da soli per andare da qualche parte, e combattere e ferirsi le nocche e innamorarsi, soprattutto, perché cazzo se è vero che l’amore fa male.
Costa sforzo alzarsi dal letto, ed uscire là fuori e affrontare i giorni come un’autostrada, dove ci sono caselli, e code, ma alla fine, prima o poi – se non t’addormenti dopo dodici ore di guida, o non muori di freddo in una piazzola sotto la neve della bassa, o non ardi in un traforo perché le porte tagliafuoco hanno lucchetti che nessuno s’è ricordato di aprire – alla fine, insomma, se dio vuole, arrivi. Sia pure a sederti a un tavolo coperto da una tovaglia di plastica, in una casa vuota, con una birra in mano a scrivere, tenendo tra le braccia il tuo fascio di ricordi, che è tutto quello che ti resta, ma ce l’hai, cazzo, ce l’hai, e se ti tocchi le cicatrici capisci che ci sei ancora, anche se ti coricherai dentro un letto vuoto e t’addormenterai piangendo.
Così, basta, cazzo, basta, non si vive nolente, si vive volente, e vaffanculo se fa – e lo fa, è da credere – un male cane.
Questo è ciò che mi resta tra le dita, di questo libro che ho finito in due giorni e ci ho pensato due settimane, cercando di darci un senso che non fosse la rabbia che provo davanti a questa inettitudine che non ha niente a che vedere con Zeno Cosini, ma solo con il tempo in cui vivo. Questo ragazzo – ragazzo? No, mi spiace: uomo, perché a vent’anni sei ragazzo, ma a trenta no, e questo è quanto, lo si ammetta o meno non cambia – che ciondola in ambiente universitario fuori tempo massimo e frequenta ragazzine fuori sede mi fa rabbia, tanto più quanto più so che non è un parto di fantasia. Mi fa rabbia perché non fa niente, niente e dico niente, per avere una vita e non serbatoio di ore: mi fa rabbia perché persino quando crede di amare non si scuote, e dio sa se l’amore non è un elettrochoc per chicchessia l’abbia mai provato. Mi fa rabbia pensare che esista – che esistano – e mi fa rabbia non trovarci una ragione: non perché io abbia la pretesa di capire il mondo, no, ma perché ho il brutto vizio di farmi domande, e l’incapacità di trovare risposte mi frustra, né più né meno come uscire dal cinema senza vedere la fine.
Quindi, è la rabbia, che mi resta, di questo libro: la rabbia di non riuscire a spiegarmi perché ci siano tanti miei quasi coetanei – io sono nato il 10 novembre del ’72, non nell’anno mille – che non vanno da nessuna parte, mentre la clessidra li si vuota tra le mani. Perché – lo si accetti o no – il tempo passa. E diventa sempre tardi, non importa quanto sia stato presto, fino a ieri.
Così, non so dire se di queste pagine, fiumana di quello che vorrebbe essere stream of consciousness, questo sì a tratti – nelle intenzioni - Sveviano, che scorre lenta, tortuosa, persino incerta, come il protagonista, mi resti altro.
Ma che volete farci, sono un camionista, io. Un operaio. Non ci sono andato neanche un giorno, all’università. Convivevo già, a diciannove anni. Volevo crescere, diventare grande. L’amore mi ha fatto a pezzi. Non posso capire, cosa significhi avere trent’anni, oggi. Avere il mondo in mano e il cuore vuoto e ignorarli entrambi, e lasciarsi nolentemente vivere.
Perché ci ho provato a vivere, io, prima di diventare questo. Non so se Ettore/Italo – ironia della sorte, come me sospeso tra questo paese e quell’altro – mi definirebbe un lottatore o no, ma so che ci ho provato, a non essere un inetto, a piangere e ridere ed esistere. So che ci ho provato, a sentire l’amore. E che ne è valsa la pena di tutto. Anche del dolore, anche di stasera. Che ne vale sempre la pena, perché, altrimenti, allora sì che non c’è nessun senso.
E tra il nolente e il niente – per me, sempre per me – è meglio il niente.
No, non mi riferisco al nichilismo, abusato dal protagonista come la frase ti amo sulla bocca della maggior parte della gente. Voglio dire il niente che è niente davvero. Staccare la spina. Game over.
Certo, è un peccato. Perché, credetemi, c’è sempre la vita, là fuori.
VOLENTE O NOLENTE Rec. Di Silla Hicks
(NOLENTE di Tony Sozzo – Lupo Editore, Copertino, 2008)
domenica 7 giugno 2009
Seconda lettura di Silla Hicks su Stralune di Antonio Errico (Manni)
No, non mi sono dimenticato che chi parla è colui che ha tradito, né mentre leggevo né dopo. Ci ho pensato tutto il tempo, piuttosto, alle frasi scritte prima del racconto, finchè all’ultima pagina non ho finalmente capito che tutto sommato era un monito inutile, perchè non serve a niente continuare a pensare dove stava il giusto e dove l’errore, quando la guerra è finita e conta solo chi ha vinto. E non serve a niente dire nient’altro che una sola parola, soldato, termine vituperato e glorificato assieme che usiamo senza accorgercene per indicare le foglie che stanno sugli alberi d’autunno e che un soffio di vento basta a staccare e portare chissà dove. Perché è questo che è l’uomo che torna a casa, una notte qualsiasi dopo una guerra qualsiasi per trovare un mondo che non è più suo, in cui qualche brandello di muro è il monumento visibile del cimitero senza lapidi che si porta nel cuore. E pazienza se ha disertato, e pazienza perfino il perché, non ha senso incollare etichette a chi è corso in braccio alla morte con una granata stretta nella mano, perché altri potessero continuare indisturbati a dormire. È facile, facile, dio, dire che le guerre non dovrebbero esistere: ma esistono, invece, e ovunque, e qualcuno deve combatterle, e morirne, anche, privato di tutto se non di un vestito uguale che lo rende amico per alcuni e avversario per altri. Per questo i posti dove li mandano li chiamano teatri, perché possano pensare che sia tutto un gioco, tutto finto, e che nessuno verrà fatto a pezzi per davvero: quando capiscono il trucco è tardi, ora la chiamano sindrome da choch post-traumatico, tornano e non sanno chi sono, da dove vengono, hanno solo i loro incubi a farli compagnia. Ed è questo che è lui, quando torna, senza volto né nome né età per essere il soldato di tutte le guerre, con addosso una divisa che non è di nessun esercito, e per questo potrebbe essere quella di tutti, che non ha più nessuno da abbracciare né nessuno che lo aspetti, avrebbe fatto meglio a non tornare.
Vent’anni fa, John Rambo diceva che in Vietnam era un eroe, ma a casa non lo volevano nemmeno come guardiamacchine, mentre i suoi occhi lacrimosi di cane da caccia cercavano in quelli del suo ufficiale un appiglio qualsiasi per riconoscersi umani: e lui – il colonnello – gli metteva una mano sulla spalla, come ogni padre e ogni Paese dovrebbe fare e raramente fa, e se lo portava via, da tutto, gli ridava un senso nell’appartenenza a qualcosa, crepi Ho chi Min viva il corpo dei Marines, non sarai mai più così solo, non ti sentirai mai più così vuoto.
Ma quello era un film, e quella era l’America spaccona di Reagan, e il lieto fine ci doveva essere per forza, perché c’era ancora il bene e il male, era il mondo di Walker Texas Ranger, dove i cattivi sono i cattivi e i buoni i buoni e vincono sempre: invece, la vita è un’altra cosa, e anche questo racconto.
Colui che torna è un soldato, ed è solo, solo veramente, e non c’è più nessuno cui importi di lui, soltanto i suoi ricordi che impattando con la realtà si sgretolano, e forse non sono nemmeno mai stati veri: finirà coi carabinieri che lo portano in caserma, infreddolito clochard che dormiva su una panchina, sotto la neve.
Non è una storia facile, perché non finisce bene né smussa gli angoli taglienti di una tragedia individuale che diventa cosmica, e non è scritta in modo facile, anche, periodare cesellato e ritmico che sembra più adatto ad essere cantato che letto, continui refrain che impietosamente ti impediscono di non cogliere lo strazio di un’anima persa, che non ha nessuno dio che le tenda la mano e nessun colonnello che le prometta che andrà tutto bene, che se la porti via e le dia un’altra guerra per cui continuare, disperata ballata di un uomo che è solo una foglia, e l’autunno è arrivato e un mulinello di vento se lo porta via, appallottolandolo alla carta straccia della strada.
Non è una storia facile, e non si legge rapidamente, nemmeno, è impervia nella prosa (prosa poetica? Scusate, non so cosa sia. Diciamo che di sicuro ha un bel suono, ma che è difficile da dipanare nella testa e richiede continue pause per tornare indietro e non perdere il filo e contestualmente una buona dose di impegno per non farsi ipnotizzare dai ritornelli e perdersi nella sua musica) e ancor più nel contenuto, se si è capaci di dimenticare il monito del principio di ricordare che chi parla è colui che ha tradito e si riesce a vederlo uomo, sopra che soldato e disertore e qualsiasi altra cosa.
Perché a quel punto davvero diventa difficile non sentire nelle ossa il suo freddo e negli occhi le sue lacrime quando, dal balcone della caserma dei carabinieri, all’ultima pagina, finalmente vede, e capisce, ed è libero, e finalmente può andare, e lasciarsi tutto alle spalle, allontanandosi a piedi da quel mondo che è andato avanti senza di lui e che si scolora nella luce della neve.
LA STRALUNATA BALLATA DEL SOLDATO CHE EBBE IL CORAGGIO DI TORNARE
(STRALUNE, di Antonio Errico, Manni, San Cesario, 2008)
Vent’anni fa, John Rambo diceva che in Vietnam era un eroe, ma a casa non lo volevano nemmeno come guardiamacchine, mentre i suoi occhi lacrimosi di cane da caccia cercavano in quelli del suo ufficiale un appiglio qualsiasi per riconoscersi umani: e lui – il colonnello – gli metteva una mano sulla spalla, come ogni padre e ogni Paese dovrebbe fare e raramente fa, e se lo portava via, da tutto, gli ridava un senso nell’appartenenza a qualcosa, crepi Ho chi Min viva il corpo dei Marines, non sarai mai più così solo, non ti sentirai mai più così vuoto.
Ma quello era un film, e quella era l’America spaccona di Reagan, e il lieto fine ci doveva essere per forza, perché c’era ancora il bene e il male, era il mondo di Walker Texas Ranger, dove i cattivi sono i cattivi e i buoni i buoni e vincono sempre: invece, la vita è un’altra cosa, e anche questo racconto.
Colui che torna è un soldato, ed è solo, solo veramente, e non c’è più nessuno cui importi di lui, soltanto i suoi ricordi che impattando con la realtà si sgretolano, e forse non sono nemmeno mai stati veri: finirà coi carabinieri che lo portano in caserma, infreddolito clochard che dormiva su una panchina, sotto la neve.
Non è una storia facile, perché non finisce bene né smussa gli angoli taglienti di una tragedia individuale che diventa cosmica, e non è scritta in modo facile, anche, periodare cesellato e ritmico che sembra più adatto ad essere cantato che letto, continui refrain che impietosamente ti impediscono di non cogliere lo strazio di un’anima persa, che non ha nessuno dio che le tenda la mano e nessun colonnello che le prometta che andrà tutto bene, che se la porti via e le dia un’altra guerra per cui continuare, disperata ballata di un uomo che è solo una foglia, e l’autunno è arrivato e un mulinello di vento se lo porta via, appallottolandolo alla carta straccia della strada.
Non è una storia facile, e non si legge rapidamente, nemmeno, è impervia nella prosa (prosa poetica? Scusate, non so cosa sia. Diciamo che di sicuro ha un bel suono, ma che è difficile da dipanare nella testa e richiede continue pause per tornare indietro e non perdere il filo e contestualmente una buona dose di impegno per non farsi ipnotizzare dai ritornelli e perdersi nella sua musica) e ancor più nel contenuto, se si è capaci di dimenticare il monito del principio di ricordare che chi parla è colui che ha tradito e si riesce a vederlo uomo, sopra che soldato e disertore e qualsiasi altra cosa.
Perché a quel punto davvero diventa difficile non sentire nelle ossa il suo freddo e negli occhi le sue lacrime quando, dal balcone della caserma dei carabinieri, all’ultima pagina, finalmente vede, e capisce, ed è libero, e finalmente può andare, e lasciarsi tutto alle spalle, allontanandosi a piedi da quel mondo che è andato avanti senza di lui e che si scolora nella luce della neve.
LA STRALUNATA BALLATA DEL SOLDATO CHE EBBE IL CORAGGIO DI TORNARE
(STRALUNE, di Antonio Errico, Manni, San Cesario, 2008)
giovedì 4 giugno 2009
MARAVA’ PIEDI DI GOMMA di Gianni De Santis (Lupo Editore). Recensione di Silla Hicks
Premetto che - da camionista - mi fanno comodo gli audiolibri, almeno da quando il dolore nella musica – in qualsiasi musica – è diventato così forte che non riesco più a stare con la radio accesa, e leggere di notte quando mi fermo mi stanca. (Non è da me, lo so, come so che questa non è vita, ma non ne ho altre, e ormai non penso nemmeno più possa essere diverso, il mio corpo ha ripreso il coraggio di dormire e la necessità di stare sveglio, per quanto sia difficile sopravvivo, ed è tutto).
Però riconosco che leggere la carta è un’altra cosa, e difatti questo libro l’ho ascoltato, e poi l’ho letto, e sulla carta le parole hanno tutto un altro suono, un altro senso, sono lì, e sei tu a scegliere quando fermarti e quando ripartire, ed il tono da usare, anche: mi dispiace, lo so che sul CD le voci sono di attori e che di sicuro cadenzano il ritmo meglio di quanto possa fare io, ma so anche che un libro è di chi lo legge, se si decide di pubblicarlo, e quindi credo anche che ciascuno abbia il diritto di ritagliarselo addosso, di appropriarsi della storia, e farne ciò che vuole. La storia: all’inizio ricorda un po’ il cacciatore di aquiloni, parla di quell’amicizia che è essere fratelli di chi abbiamo scelto e ci ha scelto, miracolo possibile solo quando si è bambini. E loro due, Antonio e Raffaele, sono bambini, appunto, che insieme crescono in un mondo rurale e primitivo – l’esplosione del padre di uno dei due per la gomma bucata della bici è proto-umana se non dis-umana e basta – da cui insieme tentano di proteggersi e da cui insieme sognano di andarsene, di volare via, sulla luna dove gli astronauti rimbalzano coi loro piedi di gomma.
Finché non succede qualcosa che spezza loro le ali una volta per tutte, e si ritrovano inchiodati a una sedia a rotelle, per cause diverse ma tutti e due insieme, di nuovo, abbracciati ai loro sogni morti, e a questo punto subentra il mare dentro, tanto più che uno dei due s’è fracassato la schiena con un tuffo mal riuscito, e nell’acqua ha incontrato all’improvviso la faccia cattiva della vita, dopo cui niente è più uguale. Non discuto la scelta “buona” (politically correct, dicono oggi) di far trovare un senso a quello che il senso non ce l’ha, io, che non ho fede né speranze, e ho amato negli occhi disperati di Berdem/Ramon Sanpedro il mare cui decide di tornare, perché è quello che al suo posto farei io.
Come non discuto la forma epistolare, anche se oggi come oggi sarebbe stato più credibile un flusso di mail (va bene, io non ho il gusto per gli espedienti letterari, e anche quello del pupazzo-confidente non m’ha entusiasmato, ma è un problema mio) e anche se alla fine non si tratta di lettere ma di pagine di diario, un soliloquio in cui il dramma si scolora nella speranza di tornare a volare di nuovo. Quello di cui mi interessa parlare, piuttosto, è di quello che resta sullo sfondo, e da cui vengono gli spunti più interessanti, quello che io chiamo “quel che rimane” quando il libro l’ho chiuso.
Il mondo in cui i personaggi si muovono, in primo luogo, che è un sud primordiale, sonnacchioso e feroce, un mondo dentro il mondo tutto resta fermo anche mentre cambia, pastoia per i sogni dei due protagonisti e per chiunque altro vi resti invischiato, claustrofobico e livido pur sotto un sole che abbaglia.
E poi l’emigrazione, lo sradicamento precoce, tema che purtroppo porto cucito addosso, io che ho fatto il cammino inverso, sì, ma ugualmente senza che fossi io a sceglierlo, e con uguali conseguenze di emarginazione e incapacità d’integrarsi, perché i pregiudizi verso lo straniero/diverso sono sempre uguali, e la stupidità di chi li coltiva anche. E l’incapacità di confrontarsi con l’amore, anche: se c’è un rigo che vale tutto il libro, è a pagina 115, L’AMORE NON È UN SENTIMENTO MA UN BISOGNO/TORMENTO, scritto in maiuscolo, peraltro, perché è l’inizio di un paragrafo, in realtà, ma a me piace pensare per scelta consapevole che si tratti di verità folgorante e assoluta.
Maria: forse l’unica che davvero si ribella e paga la sua ribellione sulla propria pelle, perché in un mondo arcaico essere uomo è una lotta, ma essere donna può essere solo sconfitta.
È lei che mi resta, di questo libro. Lei, l’unica che ha davvero creduto di avere piedi di gomma. Non è rimasta bambina, no: non si è arresa, che è cosa diversa.
Così, è lei che mi resta, di questo libro.
Non la speranza che si possa imparare serenamente a rassegnarsi quanto piuttosto l’ammirazione per chi sceglie di non farlo, comunque vada a finire.
Chi sceglie il coraggio di provare a cambiare la propria vita, e non importa se ci riesce, almeno ci avrà provato, ci credo poco alla serena rassegnazione, io, o meglio non voglio crederci, io sono ancora negli occhi di Sanpedro, quando parla del mare, di come continui a sentirlo dentro, e sono sicuro che mentre s’addormentava abbia sentito l’acqua, non sono capace di dire “così sia”.
Ma questo è altro, da questo libro e dal suo senso.
Anche se in un certo modo ne fa parte, perché un libro è di chi lo legge, ed è questo, per me, quel che rimane.
UN TUFFO FUORI DAI SOGNI
(MARAVA’ PIEDI DI GOMMA, di Gianni De Santis, Lupo Editore, Copertino, 2009)
Però riconosco che leggere la carta è un’altra cosa, e difatti questo libro l’ho ascoltato, e poi l’ho letto, e sulla carta le parole hanno tutto un altro suono, un altro senso, sono lì, e sei tu a scegliere quando fermarti e quando ripartire, ed il tono da usare, anche: mi dispiace, lo so che sul CD le voci sono di attori e che di sicuro cadenzano il ritmo meglio di quanto possa fare io, ma so anche che un libro è di chi lo legge, se si decide di pubblicarlo, e quindi credo anche che ciascuno abbia il diritto di ritagliarselo addosso, di appropriarsi della storia, e farne ciò che vuole. La storia: all’inizio ricorda un po’ il cacciatore di aquiloni, parla di quell’amicizia che è essere fratelli di chi abbiamo scelto e ci ha scelto, miracolo possibile solo quando si è bambini. E loro due, Antonio e Raffaele, sono bambini, appunto, che insieme crescono in un mondo rurale e primitivo – l’esplosione del padre di uno dei due per la gomma bucata della bici è proto-umana se non dis-umana e basta – da cui insieme tentano di proteggersi e da cui insieme sognano di andarsene, di volare via, sulla luna dove gli astronauti rimbalzano coi loro piedi di gomma.
Finché non succede qualcosa che spezza loro le ali una volta per tutte, e si ritrovano inchiodati a una sedia a rotelle, per cause diverse ma tutti e due insieme, di nuovo, abbracciati ai loro sogni morti, e a questo punto subentra il mare dentro, tanto più che uno dei due s’è fracassato la schiena con un tuffo mal riuscito, e nell’acqua ha incontrato all’improvviso la faccia cattiva della vita, dopo cui niente è più uguale. Non discuto la scelta “buona” (politically correct, dicono oggi) di far trovare un senso a quello che il senso non ce l’ha, io, che non ho fede né speranze, e ho amato negli occhi disperati di Berdem/Ramon Sanpedro il mare cui decide di tornare, perché è quello che al suo posto farei io.
Come non discuto la forma epistolare, anche se oggi come oggi sarebbe stato più credibile un flusso di mail (va bene, io non ho il gusto per gli espedienti letterari, e anche quello del pupazzo-confidente non m’ha entusiasmato, ma è un problema mio) e anche se alla fine non si tratta di lettere ma di pagine di diario, un soliloquio in cui il dramma si scolora nella speranza di tornare a volare di nuovo. Quello di cui mi interessa parlare, piuttosto, è di quello che resta sullo sfondo, e da cui vengono gli spunti più interessanti, quello che io chiamo “quel che rimane” quando il libro l’ho chiuso.
Il mondo in cui i personaggi si muovono, in primo luogo, che è un sud primordiale, sonnacchioso e feroce, un mondo dentro il mondo tutto resta fermo anche mentre cambia, pastoia per i sogni dei due protagonisti e per chiunque altro vi resti invischiato, claustrofobico e livido pur sotto un sole che abbaglia.
E poi l’emigrazione, lo sradicamento precoce, tema che purtroppo porto cucito addosso, io che ho fatto il cammino inverso, sì, ma ugualmente senza che fossi io a sceglierlo, e con uguali conseguenze di emarginazione e incapacità d’integrarsi, perché i pregiudizi verso lo straniero/diverso sono sempre uguali, e la stupidità di chi li coltiva anche. E l’incapacità di confrontarsi con l’amore, anche: se c’è un rigo che vale tutto il libro, è a pagina 115, L’AMORE NON È UN SENTIMENTO MA UN BISOGNO/TORMENTO, scritto in maiuscolo, peraltro, perché è l’inizio di un paragrafo, in realtà, ma a me piace pensare per scelta consapevole che si tratti di verità folgorante e assoluta.
Maria: forse l’unica che davvero si ribella e paga la sua ribellione sulla propria pelle, perché in un mondo arcaico essere uomo è una lotta, ma essere donna può essere solo sconfitta.
È lei che mi resta, di questo libro. Lei, l’unica che ha davvero creduto di avere piedi di gomma. Non è rimasta bambina, no: non si è arresa, che è cosa diversa.
Così, è lei che mi resta, di questo libro.
Non la speranza che si possa imparare serenamente a rassegnarsi quanto piuttosto l’ammirazione per chi sceglie di non farlo, comunque vada a finire.
Chi sceglie il coraggio di provare a cambiare la propria vita, e non importa se ci riesce, almeno ci avrà provato, ci credo poco alla serena rassegnazione, io, o meglio non voglio crederci, io sono ancora negli occhi di Sanpedro, quando parla del mare, di come continui a sentirlo dentro, e sono sicuro che mentre s’addormentava abbia sentito l’acqua, non sono capace di dire “così sia”.
Ma questo è altro, da questo libro e dal suo senso.
Anche se in un certo modo ne fa parte, perché un libro è di chi lo legge, ed è questo, per me, quel che rimane.
UN TUFFO FUORI DAI SOGNI
(MARAVA’ PIEDI DI GOMMA, di Gianni De Santis, Lupo Editore, Copertino, 2009)
giovedì 21 maggio 2009
LISA JANE SMITH, IL DIARIO DEL VAMPIRO: IL RISVEGLIO, LA LOTTA E LA FURIA, NEWTON COMPTON EDITORI. REC. DI SILLA HICKS
So che ha avuto successo, che ha venduto milioni di copie e che in un mondo mercato è questo che conta. So che uno scrittore ha lavoro se vende, e che il fatto che probabilmente oggi Gadda non lo comprerebbe nessuno non cambia niente, è così che va il mondo. Ma non ce la faccio, a parlare di questi tre libri – uno solo, in realtà, in tre puntate perché si triplicasse il prezzo di copertina – che sono un fumettone per quattordicenni che guardano Amici e il Grande Fratello - lo dico con buona pace dei genitori che rivendicano figli culturalmente impegnati, e invito a ricordare che non ho pretese di analisi sociologica, io, sono uno che si guarda attorno e basta - per di più scritto da una signora agee che sul risvolto di copertina si fa fotografare con un unicorno magicamente evocato dal photoshop.
Perché mi spiace, ma questo non è un libro, non è una storia, ma a stento la sceneggiatura di uno zuccheroso teen movie: e non sto dicendo che è un libro per ragazzi, no, i libri per ragazzi, se sono libri veri vanno bene per tutti, da quando s’impara a leggere finchè ci vedi abbastanza per farlo.
Questo è un raccontino schematico sulla più figa del liceo che lascia il suo altrettanto figo boyfriend per un misterioso giovanotto che è in realtà un vampiro millenario e che per giunta ha un fratello ancora più tenebroso di lui, con cui si contende la preda: sullo sfondo, la schiera delle amiche wannabees e i riti quotidiani del paesello di provincia USA, che più USA non si può, dal ballo di fine anno in avanti. Niente contro le storie di vampiri, lo sottolineo due volte: Intervista col vampiro di Anne Rice è tutt’altra cosa, per non parlare di quella straordinaria storia d’amore che è Dracula di Bram Stoker.
Il soprannaturale non è un campo che mi appartiene, è vero: ma Lestat e il Conte non si dimenticano, sono personaggi veri, canini da cinque centimetri o meno, creature tormentate, innamorate, smarrite, che lottano per sopravvivere e soprattutto per essere abbracciate, il loro vampirismo come metafora di quella diversità che ti emargina trasformandoti da predatore in preda, il mostro cui nessuno ha il coraggio di regalare quella carezza che lo trasformerebbe finalmente in uomo. Si può scrivere di vampiri, e scrivere storie che ti tengono sveglio a pensare in questo tempo in cui non possono più fare paura a nessuno: Lestat che prova a formarsi una famiglia con Luis e la bambina e che non si arrende al destino che lo vuole eternamente solo è Elephant Man, che decide di dormire sulla schiena pur sapendo che lo ammazzerà perché si rifiuta di continuare ad accucciarsi come una bestia, è Roy Batty, lavoro in pelle da combattimento che uccide chi l’ha progettato con una data di scadenza, è la rivolta di tutti i reietti del mondo contro il dio che li ha condannati all’incertezza del buio. Ma non c’è traccia di tutto ciòo, in questo best seller che trasforma il Vampiro in un ragazzone cool: non c’è dramma, non c’è dolore, non c’è perdita d’innocenza, niente: è tutto edulcorato, patinato, goth, come le unghie laccate di nero di una liceale di provincia, che ascolta Marilyn Manson senza capire una parola d’inglese. Niente ferite slabbrate, niente pus, niente nemmeno sensualità, e sì che lo sanno davvero anche i ragazzini che l’attrazione irrefrenabile delle vergini per il Vampiro è una metafora del richiamo sessuale ammantato di peccato in quasi tutte le culture occidentali: dopo circa 700 pagine (ma sarebbero 300, in pitch 12) chiudi questo libro, e anche se ci provi non trovi niente di cui parlare.
L’ex boyfriend tradito che si sacrifica per la fedigrafa avrebbe potuto essere un personaggio, se solo almeno lui avesse avuto più spessore del foglio su cui è descritto, invece niente: bene e male restano mondi separati, impera il manicheo dualismo che rassicura le giovani menti e le tiene lontane da quell’evoluzione che le porterebbe a spegnere la TV e a realizzare finalmente che la vita è altrove, che non ci sono due squadre e che non è una partita ma un labirinto in cui ciascuno si è perso, ed ha bisogno degli altri per ritrovare la via.
Non posso dire altro, se non che è un peccato, che questa “Mcstoria” abbia trovato un editore internazionale mentre chissà quante di certo migliori restano inedite a meno che di non pubblicarle a proprie spese, e solo qualche anno fa ho comprato a peso in un ipermercato, restando in tema vampiri, sia pure artificiali, Una notte a mangiare smania e febbre di Matteo Curtoni, altrimenti destinato al macero, che sì che è un libro, e avrei voluto parlarne: se lo trovate, compratelo, leggetelo, e rimarrete per giorni a pensarci.
Ovviamente, lo so, che è il mercato a governare il mondo, e che è il marketing a decidere chi e cosa. Ovviamente lo so, che finchè ci sarà chi paga € 280,00 un paio di scarpe solo per l’H sul lato quando un paio di ottimi anfibi di cuoio costano massimo € 50,00 in qualsiasi negozio di articoli militari e durano una vita è inutile parlare di qualità, perché è il brand che detta le regole, e non ditemi che è un fatto di stile, vi prego, che uno degli uomini più eleganti che ho visto in vita mia li porta sotto i pantaloni con la piega anche se potrebbe permettersi scarpe cucite a mano e sembra quello che è, un gattopardo, mentre le succitate H m’appaiono triste omologazione di periferia.
Per di più, i libri non sono oggetti come gli altri, ci parli e ti parlano, ti accompagnano mentre fai la tua strada e se sei fortunato te la indicano, anche: non posso rassegnarmi a che siano terreno di marketing, proprio loro che mi abitano, senza cui sarei vuoto.
Non voglio rassegnarmi a credere che sia per forza così, Mc libri come Mc lavori come Mc scuole e via dicendo: non voglio rassegnarmi a pensare che anche la mente non abbia scelta, che qualcuno la stia succhiando via, con grossi canini aguzzi, per costruire al suo posto un centro commerciale..
MC VAMPIRES’ H. SCHOOL STORY
(LISA JANE SMITH, IL DIARIO DEL VAMPIRO: IL RISVEGLIO, LA LOTTA E LA FURIA, NEWTON COMPTON EDITORI, ROMA, 2008)
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