
Persino rileggermi è a volte un tradimento, smussare gli angoli come una bugia: le cose buone escono già buone, e quelle cattive non c’è modo di aggiustarle. Scrivere non è come andare in bicicletta. Non si può imparare, né farlo a comando. Non si può decidere dove andare, sei solo un medium, la storia è già là, ed è un dono. Il cartellino del prezzo, un orpello osceno. Nella mia personale Utòpia (quella di Moore: non l’utopìa, che è una categoria, ma un mondo intero), tutti i libri sono gratis. Come l’open source di Linux.
E questo meriterebbe davvero di esserlo: è Le benevole, di Jonathan Littel, e il consiglio è uno solo, compratelo o fatevelo prestare, leggetelo, insomma, e poi piegatevi in due scossi da conati di vomito e ringraziatemi, perché questo Obersturmfurher mezzo francese chiamato Max Aue – incrocio ben riuscito tra Fernando Caretta e il Grillo Parlante di Pinocchio – è il cicerone ideale per raccontare la Germania impazzita che cercò di distruggere il mondo e che è obbligatorio visitare, per non riesumarla né ora né mai.
Max Aue (Maximilien Aue): da SS a dirigente di una fabbrica francese di merletti, a occhi spalancati attraversa un ventennio disumano con il distacco di un entomologo lobotomizzato al cuore, e senza scuse né giri di parole ammette ogni cosa, perché è quello che è stato, e non ci sono altri modi per dirlo.
In un tempo di collettiva perdita di coscienza, lui vede tutto e racconta tutto, senza metro di giudizio, perché non può essercene. È amante incestuoso, pederasta, matricida e assassino testimone di atrocità irrancontabili – la banda di bambini feroci, le fosse comuni, le amazzoni ariane ossessionate dal perdurare la razza – e tutto senza distogliere le sguardo, mantenendosi lucido mentre cammina scalzo tra cocci di follia. Il fronte orientale e i ricevimenti del Reich, il cranio fracassato del neonato e il morso al naso globoso del Furher, la fedeltà alla propria gemella Miriam che lo spinge tra nerborute braccia maschili, il riciclarsi con successo negli affari quando tutto è finito, facendo sparire le tracce di ciò che è stato assieme al compagno di una vita, Thomas, diventato pericoloso testimone: ogni fotogramma è asetticamente ripreso, senza censura né sensi di colpa, con la camera fissa di un Von Trier in stato di grazia, pacato monologo colto e accurato, e un finale alla Herzog nello zoo bombardato di Berlino, l’agonia dell’ippopotamo come visionaria metafora di quella di un’epoca e dell’universo del mondo.
Apocalittico, come apocalittico è stato il buio della mente che ci ha contagiato tutti, noi tedeschi in primis, ma tutti quanti dietro. Virus mai debellato che raffiora qua e là anche oggi, e che la teoria politically correct del rispetto della sovranità degli Stati vorrebbe costringerci a non riconoscere, così che finirà per divampare in universale epidemia, di nuovo.
Senza che nessuno faccia niente. Così che altri Max Aue ci trovino un habitat ideale.
Sperando che dopo resti qualcuno, ad ascoltarli raccontare.
BENEVOLE HORLA,(LE BENEVOLE, di JONATHAN LITTEL, EINAUDI, TORINO, 2007. Rec. di Silla Hicks)