Io sono uno di quelli che la leggono, la prefazione. E spesso da lì decidono se vogliono andare avanti o no. Sono l’esca attaccata all’amo, le prefazioni: ci sono volte che funzionano, altre che sarebbe meglio strappar via le pagine. Questa, è tra quelle del primo gruppo: mette curiosità, e non la soddisfa. Offre spunti, e non li sviluppa. Racconta, senza raccontare la storia, ma solo impressioni, impulsi: il resto, quello è – dovrebbe essere - affidato al libro che segue.
Mi piacerebbe davvero dire che si è rivelato sempre allo stesso livello delle pagine che l’introducono, questo esperimento fiammingo di matrioske una nell’altra. Che il giochino della storia nella storia – la stanza nella stanza della famiglia Aldobrandini – funziona alla perfezione, e l’autore riesce nella sua scommessa giallo-horror, camminando senza scivolare sul filo di un plot che ha le dimensioni di un frattale. Premetto: in realtà, non è che si tratti di innovazione (basti pensare al film nel film della Donna del tenente francese, o, restando nel filone dark, a REC) ma resta un espediente che se riuscito dà naturalezza a storie altrimenti incredibili, ed è questo che è l’orrore, una piccola bottega di cose e vicende assurde, fuori dalla nostra logica, da quello che possiamo vedere e toccare. Perché ci spaventino, devono sembrarci possibili: dobbiamo esserne trascinati al punto da trovarci lì, con l’uomo nero a un metro, non al sicuro dentro a un cinema. Altrimenti, è tutto inutile.
Purtroppo, non sempre è così, per queste duecento e fischia pagine scritte in un italiano trapunto di riferimenti eterogenei il cui filo conduttore è l’opera omnia di King – ma, forse, davvero non è possibile scrivere di orrore lasciandoselo alle spalle - lavorato di cesello anche quando vorrebbe esser basso.
Intanto, la storia, anzi le storie. L’agiografia di una santa semisconosciuta – radiata o no dal calendario non importa – il cui martirio sembra l’opera di un ispirato Ted Bundy, e che riappare nel finale come vendicatrice adolescente, una Milla Jovovich coperta di sangue con in mano uno spadone più grande di lei per la regia di Luc “Leon” Besson.
Poi, l’estate del ’62 e la banda di piccoli protagonisti, Stand By Me di una generazione, prima che tutto cambi e che ciascuno si trovi al suo posto, nelle schiere dei buoni o dei cattivi, e il ragazzino in vacanza diventi uno scrittore, e muoia schiacciato dal peso dei ricordi.
Miriam piccola vittima, e tutte le altre senza nome, sacrificate a un culto pagano da adoratori del grano come Nicholas Cage arso vivo sull’isola de Il Segreto, che magari fosse così facile, e non esistessero mostri travestiti da papà, che fanno infinitamente più paura.
La ragazza morta che compare a provocare incidenti, leggenda metropolitana universalmente nota su cui circolano filmati su You Tube e un film spagnolo carino, di cui non ricordo il titolo.
E – sopra a tutto -il rumore del male, che è quello dei Langolieri (by S.K., of course), e insieme lo scampanellio dei monatti.
Quello che ne viene fuori è un meltin’ pot frenetico, in cui Stephen IT mantiene assieme i pezzi, e sorvolo sull’ amante scosciata/pettoruta/carrierista che diventa detective (protagonista di una fiction di Rete 4?) che si converte alla maternità salvifica, e allo speriamo che sia femmina del finale.
Anche se, in realtà, è la prevalenza – letteralmente, nel senso di superiore valore - di donne che colpisce, come nella saga di Alien.
Sono donne i capi, del bene – Sigourney Weaver - Tenente Ripley uguale la carrierista di cui sopra, e, al sommo livello, santa Milla – e del male – la regina degli alieni, uguale Lisetta cresciuta dalla parte sbagliata, gli aliens con acido al posto del sangue uguale le zannute arpie, e via dicendo.
Gli uomini, solo comprimari: i carabinieri sbranati, il detective che finisce fuori strada, persino lo scrittore Morgan (complimenti per il nome…fosse stato Marco, avrebbe sicuramente convinto di più, e lo dico io che mi chiamo come l’avversario più famoso dell’antica Roma, peccato che della guerra civile siano rimasti in pochi a saperne qualcosa) restano sullo sfondo, non capiscono, e se provano a farlo non trovano il bandolo della matassa e perdono il senno o addirittura la vita.
Solo che il primo Alien è del ’74, se non sbaglio, e all’epoca – popolata da fragili eroine sistematicamente bisognose di essere salvate – si trattava davvero di un nuovo modo di leggere la storia. Oggi, dopo Resident Evil, Tomb Raider e Xena principessa guerriera, è un filone collaudato, come tanti altri.
Quanto al dono di generare dal proprio corpo un altro corpo – sommo mistero/miracolo, alla base del matriarcato e del culto celtico della dea di Avalon, per non dire del Codice da Vinci – non credo si possa dire niente di nuovo.
Tranne, forse, che la maternità non è l’unica dimensione possibile per una donna, ma soltanto una scelta: se la carrierista che si ritrova incinta dopo il suicidio dello scrittore – per inciso: cosa abbastanza incredibile, in un’epoca in cui gli adulti non fanno i bambini per caso - si converte velocemente al nuovo ruolo di mammina, la Pia, ritardata stuprata che muore di parto nella colonia abbandonata e fatiscente, è solo una vittima, del branco, prima, e del mondo, che continua a dormire mentre lei si dissangua nella notte di san Valentino, poi.
Peccato siano solo poche righe. È la parte più riuscita: l’emarginazione, l’indifferenza, lo squallore che le permeano fanno paura davvero.
Perché sembrano – sono – reali.
Circa vent’anni fa, Giordano Bruno Guerri ha scritto un libro, su un’altra martire vergine, Maria Goretti, e sul suo stupratore. S’intitola “Povera santa”, povero assassino.
È lo stesso titolo che meriterebbe questa storia di provincia fonda dove l’ignoranza fa buio nella mente, e il resto – anche l’orrore di Stephen – viene da sé.
La colonia degli orfanelli/vittime di regime poteva essere un ottimo inizio.
Peccato che le metafore soprannaturali abbiamo smorzato la disperazione che poteva venirne fuori, e tenere sveglio chiunque, anche uno come me che non crede in niente che non si può toccare.
Peccato che di King manchi l’orrore più incredibile, quello quotidiano: il bullismo di cui è vittima l’incendiaria Carrie, la famiglia sfasciata del bambino di Cujo. La stanza del figlio, su cui si basa Pet Semetary. Tutto quello che fa davvero paura, nelle storie di quest’uomo del Maine, che non per niente in Danze Macabre dà lezioni di horror.
Ammesso che servano, è chiaro. Perché i libri sono come la musica e i quadri e le torte e i tuffi, e non si può farli identici a quelli di un altro. Ci si può provare per imparare, come gli studenti d’arte che disegnano su blocchi enormi, seduti per terra nei saloni degli Uffizi o del Louvre, con le matite sparse tutt’attorno e le facce contratte come velocisti ai blocchi. Alcuni di loro diventeranno pittori veri, altri no, torneranno a casa, e s’inventeranno altre vite. Perché ci vuole la Fortuna dell’imponderabile per realizzare i sogni, sì. Ma soprattutto perché ce ne vuole anche di più per trovare una strada nuova, solo tua, e il coraggio di percorrerla, senza che nessun altro l’abbia asfaltata, prima.
Montebuio witch project, ovvero Danilo Arona e il suo L'estate di Montebuio (Gargoyle Books)
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sabato 25 luglio 2009
lunedì 1 giugno 2009
Gemini di Fabio Rossi (Lupo editore)
E’il mio genere, d’accordo. Amo autori come Isaac Asimov, Ken Follett o Richard Matheson, adoro film come “Ventotto settimane dopo” per la magistrale regia di Juan Carlos Fresnadillo. In teoria non dovrei sbilanciarmi più di tanto quando recensisco titoli che si nutrono di atmosfere e sfumature appartenenti a latitudini della scrittura a me così care, dal momento che rischierei di avere uno sguardo troppo corto e forse un tantino miope nel parlare di narrazioni a me più congeniali. Eppure in questo caso sento di sbilanciarmi, di poterlo fare tranquillamente. E’ il caso del primo lavoro di Fabio Rossi dal titolo molto accattivante, ovvero “Gemini” (Lupo editore), e dalla copertina (illustrazione a cura di Giovanni Nori, grafica di Paolo Guido) in bianco, rosso e nero, secondo gli ultimi trend cromatici del design e dell’arte contemporanea da due anni a questa parte. Fabio Rossi è riuscito ad affascinarmi con la sua scrittura, fresca, incalzante nel ritmo, mai ridondante. Un sentire la parola e il suo potere immenso di resa immaginifica, non è solo questione di mestiere: quando si crea un contesto narrativo, si struttura una trama, la complessità dell’operazione in sé, che non deriva solo da una padronanza del mezzo tecnico, è anche il risultato di una capacità quasi immaginifico-predittiva di altre dimensioni e altri universi. Non è mistica della scrittura: è Visione! E “Gemini” è un romanzo che si muove a ridosso di due universi paralleli (partendo da una base teorica dei viaggi nel tempo a metà strada tra le fondamenta della fisica quantistica e i multiversi di Stephen Hawking secondo il quale l'universo non ha confini nello spazio-tempo, e dunque secondo il suo modello del non-contorno, esisterebbero punti di contatto tra diverse dimensioni dove altri noi e altre realtà accadono simultaneamente ma con possibili e infiniti sviluppi fenomenologici) dove nel primo in una natura selvaggia e ostile, un giovane uomo, un giovane cacciatore, si misura a mani nude con il suo destino, che lo ha portato sulle tracce di chi ha massacrato senza troppi scrupoli e con una ferocia inaudita il suo clan, nel suo villaggio natìo; nel secondo veniamo catapultati nel sottosuolo di Europa (l’unica megalopoli ad aver conservato le tracce di una vecchia civiltà e sinceramente mi ricorda un po’ Resident Evil ) dove si trova Babilonia, un laboratorio scientifico in cui ci si dedica a ‘Gemini’, il progetto nato da una scoperta sconvolgente ed elaborato da Ulisse, sociologo dell’evoluzione, con ’obiettivo di bloccare la deriva antropologica nella quale l’uomo si è andato a ficcare con le sue mani , giungendo sull’orlo dell’auto-distruzione. Un cammino, forse, senza ritorno, dove le viscere della terra possono nascondere qualcosa di mostruoso. Un libro da leggere e gustare, non solo per il fatto che ti tiene incollato alle pagine, ma anche perché l’autore è stato in grado di creare una fitta interconnessione di spunti di riflessione provenienti dalla sociologia e dall’antropologia culturale ed evolutiva … anche se parliamo di quelle del futuro ovviamente!
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