Il lettore troverà nel testo poetico, scandito in capitoli, una ricchezza insolita, perché l’autore non si limita a registrare eventi – stazioni talora dolenti di un’intera vita – e a lasciarsi traghettare da questi come un corpo inerte. Accetta invece la sfida dell’esistere, si logora nel confronto, sapendo che si può anche soccombere. Purché si salvi almeno un’idea o un’emozione, all’insegna di una ricerca conoscitiva compiuta passo dopo passo, senza affanni. Il che si traduce in una costante carica empatica che tiene coinvolti fino all’ultima pagina, sul filo della narrazione. - Francesco Giannoccaro
"Pubblicata lo scorso anno nella collana Pretesti di Manni Editori, Polvere del bene (pp. 96, euro 12) è la prima raccolta poetica di Giacomo Leronni, quarantacinquenne poeta di Gioia del Colle, nel Barese, data alle stampe dopo aver pubblicato, in particolar modo tra gli anni 1999 e 2002, alcune liriche di questa raccolta su riviste, perlopiù specializzate, e dopo aver partecipato con buon successo a diversi premi letterari (si ricordano qui soltanto il Premio Nazionale di Poesia “LericiPea”, conseguito nel 1998 per la categoria poesia inedita - in giuria era presente, tra gli altri, Stefano Verdino, tra i più acuti studiosi dell’opera di Mario Luzi, nonché curatore delle sue opere - e per il quale è semifinalista anche quest’anno, e il Premio “A. Contini Bonacossi” che sarà assegnato all’autore per questa stessa raccolta il prossimo 6 settembre)."
di Stefano Savella tratto da Puglialibre (www.puglialibre.it)
casa editrice Manni: http://www.mannieditori.it/index_x.asp
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mercoledì 26 agosto 2009
sabato 1 agosto 2009
Acasadidio di Giorgio Morale (Manni)
Ho assolto al mio obbligo di leva, ormai sono passati quasi dieci anni, all’interno di una organizzazione non governativa che si occupava di immigrazione (gestiva un CPT nella provincia di Lecce), ed estendeva inoltre la sua azione nell’ambito del volontariato professionalizzato in più attività: dall’assistenza ai bisognosi, ai minori stranieri non accompagnati, alle donne (moldave, ucraine, africane) che volevano in qualche modo uscire dal giro della prostituzione, a extracomunitari in cerca di lavoro per regolarizzare la loro situazione nel nostro paese. Non avrei mai impugnato un’arma, e dunque per estinguere il mio debito nei confronti dello Stato, l’unica alternativa restava quella del servizio civile. Per mia natura sono stato sempre una persona che è vissuta di ideali, e quando ho sposato una causa (in qualunque ambito della mia vita) ho dato anima e corpo, senza risparmiarmi su nulla, rinunciando a orari e famiglia. No, non un martirio nel senso masochistico del termine, ma un essere per gli altri. Stavo bene, e volevo far star bene gli altri, anche se magari ero solo una piccola rotella nell’ingranaggio di una gigantesca macchina chiamata solidarietà! E di fatto vivendo questa esperienza, ho acquisito diverse competenze certo, ho vissuto momenti difficili indubbiamente, ma che non rimpiango. Ricordo nei confronti del “presidente” di questa ong, una mia disponibilità totale, perché per me chi era a capo di una struttura che aiutava il prossimo, non poteva essere che da premio nobel per la pace. A tratti, nel vorticoso caos di quei mesi, in piccoli barlumi di lucidità, spesso tra gli “effettivi” dello staff notavo qualcosa di stonato, percepivo che il loro forse era solo un desiderio di sopravvivere, avendo trovato un lavoro più o meno decoroso, piuttosto che l’altruismo o spirito di fratellanza, quello cristianamente autentico, quello evangelico. Ero giovane, e non molto smaliziato, non ancora pronto a leggere tra le righe. Ora rivedendo quel piccolo tracciato della mia biografia, ho capito più cose, e più cose mi sono state manifestate ancora più lucidamente, dopo che ho letto il lavoro, splendido, di Giorgio Morale dal titolo “Acasadidio” edito da Manni. Un romanzo senza troppi fronzoli e che parla di solidarietà, della sua struttura, della sua operatività, del volontariato, delle diverse gradazioni di moralità o a/moralità delle persone che vi lavorano, di quali sono gli intrecci affaristici (tra politica e media nella maggior parte dei casi), ricchi e fruttuosi che vanno nelle tasche di chi gestisce associazioni di volontariato, i quali fanno di una missione per il prossimo (certo ci sono le eccezioni) un vero e proprio Ministero della Propaganda falso/perbenista per incensare demagogicamente la propria generosità, e rendere le acque ancora più torbide di quello che non sono. Così, e deve essere così, non si riesce a vederci chiaro! Giorgio Morale, spiega, e lo fa in maniera da romanzo, con uno stile brillante e calibrato, a chi pensa che il mondo delle onlus nel volontariato professionalizzato sia tutto rose e fiori, come spesso il grigiore della superficialità, e il puro interesse la facciano da padroni. La storia viene ambientata nella periferia di Milano, parla di un’associazione di volontariato e i locali e corridoi sono descritti con forti connotazioni da iper/realismo oggettivo: tutto è tappezzato di «crocifissi [...] madonne, frasi del vangelo e di madre Teresa di Calcutta [...]. Aria cattolica: un po’ di gioia, un po’ di penitenza». Figura cardine il Presidente, figlio di immigrati, che dopo molte umiliazioni ce la fa, arriva a trovare una posizione di prestigio in una Milano non da bere, e lo fa facendo i soldi con gli “sfigati”. Il Centro è mandato avanti dalla diabetica Martina, da Ombretta, Teresa, Vanna e poi dalla peruviana Dora e Sonia. Il resto solo comparse, che seppur ben delineate nelle caratterizzazioni, rimangono figure dalla consistenza di ombre! Giorgio Morale ha dimostrato un immenso coraggio per due motivi: il recupero della letteratura come impegno civile, e il disvelamento dell’ipocrisia di un mondo che alla fine ha dimenticato nella maniera più assoluta cosa significhi spirito di servizio, assistenza alla persona, generosità, solidarietà, amore per il prossimo!
giovedì 2 luglio 2009
Il libro del giorno: L' angelo dalla faccia sporca. Goal e guai di Valentín Angelillo di Dario Salvatori (Mannni)
La vicenda di Antonio Valentín Angelillo scorre a cavallo tra la fine degli anni Cinquanta e l'inizio dei Sessanta, in un'Italia fra cambiali e boom economico, oriundi fuoriclasse e bidoni fuoriquota, tra inibizioni e peccati. In questo clima si incendia e si brucia la love-story fra Antonio e Ilya, calciatore e ballerina, pura premonizione di ciò che nel calcio accadrà. A completare il volume un inserto fotografico con le figurine Panini e le copertine dei rotocalchi dell'epoca.
"Salvatori si interessa di musica, non sa nulla di calcio però ha scritto questa bella, tenera storia di Angelillo, campione perseguitato da Herrera per amore"
di Antonio D'Orrico tratto da "In venticinque parole" del Corriere della Sera Magazine, n. 26 del 2/07/09, p. 102
casa editrice Manni: http://www.mannieditori.it/index_x.asp
L' angelo dalla faccia sporca. Goal e guai di Valentín Angelillo
di Dario Salvatori, Mannni editore (2009)
"Salvatori si interessa di musica, non sa nulla di calcio però ha scritto questa bella, tenera storia di Angelillo, campione perseguitato da Herrera per amore"
di Antonio D'Orrico tratto da "In venticinque parole" del Corriere della Sera Magazine, n. 26 del 2/07/09, p. 102
casa editrice Manni: http://www.mannieditori.it/index_x.asp
L' angelo dalla faccia sporca. Goal e guai di Valentín Angelillo
di Dario Salvatori, Mannni editore (2009)
domenica 7 giugno 2009
Seconda lettura di Silla Hicks su Stralune di Antonio Errico (Manni)
No, non mi sono dimenticato che chi parla è colui che ha tradito, né mentre leggevo né dopo. Ci ho pensato tutto il tempo, piuttosto, alle frasi scritte prima del racconto, finchè all’ultima pagina non ho finalmente capito che tutto sommato era un monito inutile, perchè non serve a niente continuare a pensare dove stava il giusto e dove l’errore, quando la guerra è finita e conta solo chi ha vinto. E non serve a niente dire nient’altro che una sola parola, soldato, termine vituperato e glorificato assieme che usiamo senza accorgercene per indicare le foglie che stanno sugli alberi d’autunno e che un soffio di vento basta a staccare e portare chissà dove. Perché è questo che è l’uomo che torna a casa, una notte qualsiasi dopo una guerra qualsiasi per trovare un mondo che non è più suo, in cui qualche brandello di muro è il monumento visibile del cimitero senza lapidi che si porta nel cuore. E pazienza se ha disertato, e pazienza perfino il perché, non ha senso incollare etichette a chi è corso in braccio alla morte con una granata stretta nella mano, perché altri potessero continuare indisturbati a dormire. È facile, facile, dio, dire che le guerre non dovrebbero esistere: ma esistono, invece, e ovunque, e qualcuno deve combatterle, e morirne, anche, privato di tutto se non di un vestito uguale che lo rende amico per alcuni e avversario per altri. Per questo i posti dove li mandano li chiamano teatri, perché possano pensare che sia tutto un gioco, tutto finto, e che nessuno verrà fatto a pezzi per davvero: quando capiscono il trucco è tardi, ora la chiamano sindrome da choch post-traumatico, tornano e non sanno chi sono, da dove vengono, hanno solo i loro incubi a farli compagnia. Ed è questo che è lui, quando torna, senza volto né nome né età per essere il soldato di tutte le guerre, con addosso una divisa che non è di nessun esercito, e per questo potrebbe essere quella di tutti, che non ha più nessuno da abbracciare né nessuno che lo aspetti, avrebbe fatto meglio a non tornare.
Vent’anni fa, John Rambo diceva che in Vietnam era un eroe, ma a casa non lo volevano nemmeno come guardiamacchine, mentre i suoi occhi lacrimosi di cane da caccia cercavano in quelli del suo ufficiale un appiglio qualsiasi per riconoscersi umani: e lui – il colonnello – gli metteva una mano sulla spalla, come ogni padre e ogni Paese dovrebbe fare e raramente fa, e se lo portava via, da tutto, gli ridava un senso nell’appartenenza a qualcosa, crepi Ho chi Min viva il corpo dei Marines, non sarai mai più così solo, non ti sentirai mai più così vuoto.
Ma quello era un film, e quella era l’America spaccona di Reagan, e il lieto fine ci doveva essere per forza, perché c’era ancora il bene e il male, era il mondo di Walker Texas Ranger, dove i cattivi sono i cattivi e i buoni i buoni e vincono sempre: invece, la vita è un’altra cosa, e anche questo racconto.
Colui che torna è un soldato, ed è solo, solo veramente, e non c’è più nessuno cui importi di lui, soltanto i suoi ricordi che impattando con la realtà si sgretolano, e forse non sono nemmeno mai stati veri: finirà coi carabinieri che lo portano in caserma, infreddolito clochard che dormiva su una panchina, sotto la neve.
Non è una storia facile, perché non finisce bene né smussa gli angoli taglienti di una tragedia individuale che diventa cosmica, e non è scritta in modo facile, anche, periodare cesellato e ritmico che sembra più adatto ad essere cantato che letto, continui refrain che impietosamente ti impediscono di non cogliere lo strazio di un’anima persa, che non ha nessuno dio che le tenda la mano e nessun colonnello che le prometta che andrà tutto bene, che se la porti via e le dia un’altra guerra per cui continuare, disperata ballata di un uomo che è solo una foglia, e l’autunno è arrivato e un mulinello di vento se lo porta via, appallottolandolo alla carta straccia della strada.
Non è una storia facile, e non si legge rapidamente, nemmeno, è impervia nella prosa (prosa poetica? Scusate, non so cosa sia. Diciamo che di sicuro ha un bel suono, ma che è difficile da dipanare nella testa e richiede continue pause per tornare indietro e non perdere il filo e contestualmente una buona dose di impegno per non farsi ipnotizzare dai ritornelli e perdersi nella sua musica) e ancor più nel contenuto, se si è capaci di dimenticare il monito del principio di ricordare che chi parla è colui che ha tradito e si riesce a vederlo uomo, sopra che soldato e disertore e qualsiasi altra cosa.
Perché a quel punto davvero diventa difficile non sentire nelle ossa il suo freddo e negli occhi le sue lacrime quando, dal balcone della caserma dei carabinieri, all’ultima pagina, finalmente vede, e capisce, ed è libero, e finalmente può andare, e lasciarsi tutto alle spalle, allontanandosi a piedi da quel mondo che è andato avanti senza di lui e che si scolora nella luce della neve.
LA STRALUNATA BALLATA DEL SOLDATO CHE EBBE IL CORAGGIO DI TORNARE
(STRALUNE, di Antonio Errico, Manni, San Cesario, 2008)
Vent’anni fa, John Rambo diceva che in Vietnam era un eroe, ma a casa non lo volevano nemmeno come guardiamacchine, mentre i suoi occhi lacrimosi di cane da caccia cercavano in quelli del suo ufficiale un appiglio qualsiasi per riconoscersi umani: e lui – il colonnello – gli metteva una mano sulla spalla, come ogni padre e ogni Paese dovrebbe fare e raramente fa, e se lo portava via, da tutto, gli ridava un senso nell’appartenenza a qualcosa, crepi Ho chi Min viva il corpo dei Marines, non sarai mai più così solo, non ti sentirai mai più così vuoto.
Ma quello era un film, e quella era l’America spaccona di Reagan, e il lieto fine ci doveva essere per forza, perché c’era ancora il bene e il male, era il mondo di Walker Texas Ranger, dove i cattivi sono i cattivi e i buoni i buoni e vincono sempre: invece, la vita è un’altra cosa, e anche questo racconto.
Colui che torna è un soldato, ed è solo, solo veramente, e non c’è più nessuno cui importi di lui, soltanto i suoi ricordi che impattando con la realtà si sgretolano, e forse non sono nemmeno mai stati veri: finirà coi carabinieri che lo portano in caserma, infreddolito clochard che dormiva su una panchina, sotto la neve.
Non è una storia facile, perché non finisce bene né smussa gli angoli taglienti di una tragedia individuale che diventa cosmica, e non è scritta in modo facile, anche, periodare cesellato e ritmico che sembra più adatto ad essere cantato che letto, continui refrain che impietosamente ti impediscono di non cogliere lo strazio di un’anima persa, che non ha nessuno dio che le tenda la mano e nessun colonnello che le prometta che andrà tutto bene, che se la porti via e le dia un’altra guerra per cui continuare, disperata ballata di un uomo che è solo una foglia, e l’autunno è arrivato e un mulinello di vento se lo porta via, appallottolandolo alla carta straccia della strada.
Non è una storia facile, e non si legge rapidamente, nemmeno, è impervia nella prosa (prosa poetica? Scusate, non so cosa sia. Diciamo che di sicuro ha un bel suono, ma che è difficile da dipanare nella testa e richiede continue pause per tornare indietro e non perdere il filo e contestualmente una buona dose di impegno per non farsi ipnotizzare dai ritornelli e perdersi nella sua musica) e ancor più nel contenuto, se si è capaci di dimenticare il monito del principio di ricordare che chi parla è colui che ha tradito e si riesce a vederlo uomo, sopra che soldato e disertore e qualsiasi altra cosa.
Perché a quel punto davvero diventa difficile non sentire nelle ossa il suo freddo e negli occhi le sue lacrime quando, dal balcone della caserma dei carabinieri, all’ultima pagina, finalmente vede, e capisce, ed è libero, e finalmente può andare, e lasciarsi tutto alle spalle, allontanandosi a piedi da quel mondo che è andato avanti senza di lui e che si scolora nella luce della neve.
LA STRALUNATA BALLATA DEL SOLDATO CHE EBBE IL CORAGGIO DI TORNARE
(STRALUNE, di Antonio Errico, Manni, San Cesario, 2008)
venerdì 5 giugno 2009
Notte di nebbia in pianura di Angelo Ricci (Manni)
Angelo Ricci, è un avvocato di Novara, nato nel 1964. “Notte di nebbia in pianura” è il suo primo lavoro. Le vicende narrate appartengono al sub-universo di una qualsiasi provincia italiana, che talvolta può incrociare le nostre esistenze attraverso un trafiletto di cronaca nera sulle pagine di un quotidiano, o nei casi più eclatanti, tra le prime notizie date da un tg nazionale. Notizie che alla fine si perdono in un momentaneo malumore, per poi scomparire negli archivi della nostra memoria. E parlo di un sub-universo non a caso, dal momento che gli elementi che lo compongono rivelano realtà altre, totalmente diverse rispetto a quelle che fanno parte della maggior parte dei tracciati biografici di ognuno di noi, forse agli antipodi sotto alcuni aspetti come quelli sociali e culturali. Quello che Ricci racconta è un mondo a parte, grigio, anonimo, brutale nella completa assenza di valori e cultura, che la piccola borghesia di provincia (indistintamente potrebbe essere qualsiasi interland milanese, vercellese, brianzolo) sembra tollerare benissimo. Questo lavoro sicuramente è un esordio molto interessante soprattutto per due aspetti: il primo riguardante l’incalzante giustapposizione di piani sequenza, proprio da regista cinematografico di grande esperienza; il secondo riguardante una logica dell’interpunzione, del periodare, e della resa semantica che s’incunea magistralmente nella descrizione di un orizzonte degradato e degradante. Altra peculiarità in tal senso, la copiosa ripetizione quasi mantrica di frasi, come se il sistema della narrazione andasse in cortocircuito. Potrebbe essere in futuro considerato l’antesignano archetipico del romanzo per eccellenza della provincia italiana? Senza ombra di dubbio. Ma più di tanto non mi sento di scrivere, dal momento che pur sempre di esordio si tratta. Aspettiamo i suoi prossimi lavori. Ogni personaggio descritto dall’autore è non presente a se stesso, in quanto le sue emozioni le sue sensazioni sono come deprivate di qualsiasi slancio vitale, come se recitasse un copione su un palco dinanzi ad una platea invisibile. E forse la causa non è da ricercarsi in un malessere esistenziale tout court, quanto perché la sostanza in cui sono immersi – il “latte grigio” come definisce la nebbia Angelo Ricci – rende molto più semplice l’abbandono in un nulla senza centro né principio! La nebbia nasconde, avvolge, occulta tutto dalle emozioni alla vita intera. I personaggi: un ragazzo perde sua madre, e diventa passivo spettatore di una vita monotona e incolore che non lascia nemmeno un ricordo significativo dopo l’ultimo e definitivo addio, quasi fosse routine; Sticazzi ecolalico cazzeggiatore alcolico da Ceres in endovena perenne; un giovane carabiniere alle prese con una certa Sandri Anna, indolente italiana che si trova invischiata in un presunto giro di terrorismo islamico; il bauscia Panza, descritto insieme ai suoi amici e alle sue amichette ucraine, magistralmente; una emigrata dell’Europa dell’Est, e della viziata e viziosa Italia che ha incontrato e ossessionata dalle doppie e dagli articoli della nostra lingua. Insomma un affresco intrigante di un’italietta piccola piccola!
mercoledì 3 giugno 2009
Seconda lettura di Vito Antonio Conte su "I Bruchi" di Giovanni Bernardini (Manni)
Avevo letto qualcosa di Giovanni Bernardini su antologie e altro. Poi “Provincia difficile”, un vecchio libro del 1969, trovato in un banchetto di libri usati. L'ho conosciuto personalmente l'anno scorso, davanti al bel camino acceso della “Serrizùla”, quando si sradicò dai suoi tanti malanni fisici, da lui stesso elencati a mò di esorcismo, e ci concesse una parte di sé, leggendoci -tra l'altro- un suo racconto pubblicato su “L'Albero”, la storica rivista di Girolami Comi. Devo conservarne una copia autografata da qualche parte, tra le infinite carte che conservo quasi maniacalmente. Tante carte. Troppe. Nonostante il mio periodico selezionare, eliminare, disfarmi. C'è che dovrei -come pure mi è già accaduto di fare- liberarmi di tutto. Carte, libri, quaderni, zibaldoni, agende, copie, fotocopie, oggetti e chincaglieria d'ogni tipo e andare via. Dovrei andare via. Vorrei andare via. Sparire, perdermi, ricominciare. Forse. C'è che qualcosa in un modo qualunque è morta. C'è che è viva più che mai. Dovrei andare altrove. Disfarmi di questa vita e andare via. Questa vita che amo. Qualche giorno addietro, ho finito di leggere l'ultimo libro di Giovanni Bernardini, “I bruchi ovvero Il ragazzo in fondo al mare”, edito da Manni. Ho detto l'ultimo: credo di sbagliare: Mimma mi dice che n'è stato appena pubblicato un altro. Mi dice anche il titolo, ma non lo ricordo. E non ho voglia di cercarlo. Adesso, dopo una funzione religiosa in swahili per un grande uomo, con canti che mi hanno aperto il cuore, già spezzato di suo e d'altro, ascolterò la voce di lei e non aggiungerò niente (...), dirò qualcosa, invece, su “I bruchi”. Titolo che mi piace poco. Molto di più mi piace il sottotitolo “Il ragazzo in fondo al mare”. È un romanzo schizoide e razionale, è schizzato e naturale, è folle e meditato, è vecchio e nuovo, è patologico e sano, è antico e moderno. È tutto. È niente. È memoria che vuole affogare la memoria. È memoria che vuol ricordare la memoria. È un atto dovuto a se stesso. È un atto doveroso verso qualcun altro. È un atto voce del verbo dare. Rendere, meglio, a sé e agli altri. Ma, soprattutto, è una scrittura fuori dagli schemi, fuori da ogni schema, fuori da qualsiasi possibile schema. E non chiedetemi di spiegare ciò che dico. So ch'è così. Lo sento. È istinto il mio. Potrei cercare le ragioni per quanto dico, ve le potrei indicare. Potrei farlo. Ma oggi non è cosa. E non lo sarà più. Ché di questo libro parlo oggi e mai più. Fidatevi di quel che dico. Fidatevi di me. Non ho mai raccontato fandonie. Per questo, anche quando capita che sto male, vivo bene. Questo libro è fuori, scritto da uno ch'è fuori, come si può essere soltanto quando non si deve rendere più conto a nessuno, tranne a Uno, ma con quell'Uno hai rapporti talmente chiari che non ci potranno mai essere equivoci, né fraintesi, ché ci si conosce bene ormai. Questo libro è fuori, scritto da uno ch'è fuori, come si può essere soltanto quando sei ultraottuagenario e somigli a un novenne: ne hai viste tante e tali che non te ne può fottere più di niente di quel che per una vita forse t'ha intristito, t'ha fatto male, t'ha dato scazzo, t'ha angosciato, t'ha addolorato... E le cose della vita continuano a toccarti, eccome se ti toccano, ma dentro c'è la forza di un bambino, quell'incoscienza così saggia che te la fa dire tutta esattamente siccome è, come vuoi ed è la parte migliore che c'è. C'è il talento e anni e anni di studi di ricerche di conoscenze di esperienze di sofferenze di gioie di soddisfazioni. Poi c'è qualcosa che ha spazzato via tutto: tabula rasa. Tutto dimenticato. Rimangono gli strumenti. E quel talento. Gli strumenti per dare forma al talento, fermandolo in una creazione d'arte. E il divertimento: quello impareggiabile irraggiungibile e ineguagliabile di un bambino. E allora il linguaggio (a tratti anche ricercato, aulico e barocco) è così fresco confidenziale ed essenziale che ti fa arrivare dritto alle viscere temi d'una pesantezza inaudita con la leggerezza pari al dire di mio figlio Federico quando mi racconta le ultime notizie scolastiche o calcistiche (e Federico a giorni avrà nove anni). Un dire meraviglioso, fiabesco, disarmante, ingenuo e vero. Così “Il ragazzo in fondo al mare” è la metafora che svela la cecità di un'epoca, l'ignoranza del passato, l'illusione del ventennio, con i suoi sogni e i suoi incubi, la vita e la morte, l'anacronismo di un impero e la grande disfatta, lo scintillìo dell'apparenza e le nubi funeree dei tanti crimini: quelli di tutte le guerre, del primo regime totalitarista (nato e coniato in Italia) e di tutti quelli successivi, d'ogni colore e in ogni angolo del mondo. “I bruchi” sono la causa e l'effetto dei fasti e del disfacimento prodotti dal fascismo, sono la patologia di quel sistema politico, sono lo schifo sotteso ai proclami, sono i risultati del grande imbroglio, sono le brutture e le storture d'ogni politica che pensa a sé e non ai governati, sono quel che porta la “guerra guerreggiata”; “Il ragazzo in fondo al mare” è il naufrago di quel periodo! È quel che resta in tutti quelli che grazie all'accettazione di sé, vuoi per fatto genetico vuoi per scelta vuoi per entrambe, non hanno mai smesso di guardare all'altro e l'hanno guardato sempre e comunque al di là d'ogni parvenza... Quella del ventennio, del primo totalitarismo (termine inesistente prima), è stato il primo esempio di politica fatta utilizzando i mass-media (fotografia e radio), è storia di cui si continua a parlare in tutti i modi possibili: attualmente c'è un quotidiano (se non erro) che regala dei diari di Mussolini (mai menzionato nel libro...) o qualcosa del genere. Se ne parla troppo? Se ne parla male? Se ne parla bene? Sarebbe meglio non parlarne più? Non appartengo alla schiera di quelli che sostengono che se di qualcosa non si parla significa cancellarne l'esistenza. E, quindi, nel caso dell'argomento in parola, è bene. E nemmeno alla schiera di quelli che di qualcosa di cui non si parla e si dovrebbe bisogna parlarne a tutti i costi pur di affermarne l'esistenza. E, dunque, in generale, non parlarne è male. In realtà non appartengo a schiera alcuna. Sono un uomo libero che dice e scrive quel che pensa (dopo aver contato sino al numero necessario) e che crede fermamente che ognuno possa dire ciò che vuole (nei limiti del lecito e del legittimo...) intorno a ciò che gli pare. Sta a me, come a ognuno di voi, far debito e appropriato uso di critica e decidere da quale parte stare. Senza scomodare il Male e il Bene. Io sto dalla parte di Giovanni Bernardini, ma non del Bernardini de “I bruchi”, non dalla parte della fobia, ma del Bernardini de “Il ragazzo in fondo al mare”, dalla parte della follia, di quella ch'è prossima alla salvezza (o, per dirla con l'Autore, della pazzia che confina con la saggezza). Io sto dalla parte dello zio un po' scemo, quello che con i gessetti colorati disegnava sui muri il ragazzo in fondo al mare abbracciato a una sirena e sotto scriveva AMORE.
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lunedì 1 giugno 2009
Il libro del giorno: Il Prete grasso di Piero Manni (collana I Chicchi di Manni)
Manni racconta il Cristianesimo contadino, contaminato delle tradizionali religioni naturalistiche animistiche, di miti pagani, di riti magico-astrali-divinatori; i poveracci che vanno a messa prima, onorano i santi e invitano anche se li odiano i preti al pranzo di matrimonio, che votano lo scudo crociato per ottenere la pensione d'invalidità in attesa di Baffone; e racconta l'infanzia di un fanciullo, e poi di un altro, e di un altro ancora, a comunicare con le api o a consentirsi giochi impertinenti; insomma, l'infanzia di una civiltà già antica millenni, che bestemmia i suoi santi e cucina per loro le tagliatelle coi ceci.
"Un libricino che si legge d'un fiato, e già dalle prime pagine regala il piacere di un linguaggio diretto ma dai termini ricercati. Un Salento che non c'è più si dipana tra le pagine di Il Prete grasso di Piero Manni per la collana Chicchi di Manni. Una trentina di pagine e si torna indietro in un tempo in cui i bambini avevano un rapporto così privilegiato con la natura da potersi permettere di accarezzare le api"
di C.D. tratto da QuiSalento - giugno 2009, p. 36
casa editrice manni: http://www.mannieditori.it/index_x.asp
Il prete grasso di Piero Manni
2009, 32 p., brossura, Editore Manni (collana Chicchi)
"Un libricino che si legge d'un fiato, e già dalle prime pagine regala il piacere di un linguaggio diretto ma dai termini ricercati. Un Salento che non c'è più si dipana tra le pagine di Il Prete grasso di Piero Manni per la collana Chicchi di Manni. Una trentina di pagine e si torna indietro in un tempo in cui i bambini avevano un rapporto così privilegiato con la natura da potersi permettere di accarezzare le api"
di C.D. tratto da QuiSalento - giugno 2009, p. 36
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Il prete grasso di Piero Manni
2009, 32 p., brossura, Editore Manni (collana Chicchi)
martedì 26 maggio 2009
I bruchi ovvero il ragazzo in fondo al mare di Giovanni Bernardini (Manni editore, collana Pretesti)
La crisi che colpisce tutta l’Europa dopo la prima guerra mondiale, mostra i suoi effetti ancora più devastanti in Italia. Una guerra di quattro anni, con oltre 600.000 morti, provoca contraccolpi economici, sociali e morali, a cui si sommano risentimenti e rancori, diffusi un po’ in tutti gli strati della popolazione. Serpeggia un generale senso di delusione e molto più spesso di rabbia per l’inconsistenza di tutti quei benefici che si credeva sarebbero stati raggiunti con la vittoria. Questo è il contesto storico, da cui parte il romanzo di Giovanni Bernardini dall’emblematico titolo “I bruchi ovvero Il ragazzo in fondo al mare”(Manni editore, collana Pretesti). Il protagonista principale, Anselmo, nato in un venerdì 13 alle 13, racconta la sua vita, e la storia della sua famiglia negli anni più bui della storia della nostra nazione: l’ascesa al potere di Mussolini e l’ingresso in guerra dell’Italia. Ma le vicende storiche sono solo unno splendido ornamento alla ancora più splendida narrazione di come un bambino diventi prima ragazzo e poi uomo. E così con grande eleganza e magistrale padronanza di uno stile inconfondibile, il lettore partecipa delle gioie e dei dolori della vita di Anselmo, che si sviluppa sotto i suoi occhi: dalle prime esperienze amorose nelle case di tolleranza, alla vita universitaria, agli orrori della trincea, sino al baratro della follia. Un ventennio di storia italiana visti attraverso gli occhi di questo novello Forrest Gump, dal grande cuore, che narra della sua infanzia, della sua Pescara, del suo rapporto con parenti ed amici, della guerra, ma soprattutto che racconta di un’amore smisurato per la vita e per le donne. E i bruchi allora? Un’inquietante citazione del grande Antonio Galateo, introduce il lettore ad un mistero che si cela tra le pagine di quest’opera: “ Produce questa contrada i bruchi… che col solo tatto corrompono ogni cosa, divorano tutto, tutto devastano a guisa di un nemico vincitore”. Si tratta di un romanzo che senza alcun dubbio può essere colto come una magistrale satira del regime fascista, visto dagli occhi dell’autore come grottesco e irreale. Scrive nell’Introduzione Donato Valli: “È come se il pensiero, trasformatosi in scrittura, designasse una fedeltà troppo umana per poter invadere il guscio del surreale. Così il fatto rimane fatto in se stesso, puro nella sua essenzialità, rinsaldato da un tale impegno di fedeltà da sorpassare l’amore della scrittura in sé e traboccare nel piacevole eden d’una sognata surrealtà.”, Ma la bellezza di questo lavoro di Bernardini, forse uno tra i migliori rappresentanti di quella letteratura contemporanea salentina esportabile e apprezzabile anche dalla critica nazionale, sta nel costruire e ricostruire frammenti di memoria, di vita che ci appartengono in maniera totale assoluta, e non solo per i riferimenti storico-culturali che nelle pagine di questo libro si respirano. Vi consiglio caldamente di acquistarlo e leggerlo, perché Bernardini è un autore completo, che riesce a parlare al cuore, e che soprattutto ci lascia a bocca aperta quando in pochi tratti di penna delinea personaggi, storie, vicende, sentimenti … e questo lo può fare solo un grande scrittore!
Giovanni Bernardini, nato a Pescara, dal dopoguerra opera nel Salento, dove vive a Monteroni di Lecce. Ha pubblicato narrativa, poesia, saggistica e, con Manni, le prose Il bivio e le parole (1989) e i volumi di versi Emblema e metafora (1988) e Nel mistero del tempo (2005).
Giovanni Bernardini, nato a Pescara, dal dopoguerra opera nel Salento, dove vive a Monteroni di Lecce. Ha pubblicato narrativa, poesia, saggistica e, con Manni, le prose Il bivio e le parole (1989) e i volumi di versi Emblema e metafora (1988) e Nel mistero del tempo (2005).
giovedì 30 aprile 2009
Stralune di Antonio Errico (Manni editore). Recensione di Elisabetta Liguori
Quanto c’è di noi alla fine di un viaggio? Questo sembra essere il tema principe dell’ultimo romanzo di Antonio Errico, Stralune, di recente pubblicato dalla casa editrice Manni. All’interno del viaggiare, direi, Errico è più catturato dal ritorno, che dalla partenza. Quale è la trama di questo viaggiare? Un ipotetico disertore sfuggito ad un’ipotetica guerra torna nella sua ipotetica casa ed al suo ipotetico passato, finendo per cedere all’inganno del raccontarsi, qui inteso come esito drammatico ma necessario di un qualunque percorso.
Perché questo titolo?
Un buon titolo è sempre o un’anticipazione o una conferma di quello che il testo contiene, in una sorta d’accordo preliminare tra lettore e scrittore. A mio avviso il titolo scelto da Errico per questo nuovo romanzo è una confessione appassionata, è la descrizione sincera di un occhio che scrive. Quella che l’occhio di Errico produce, infatti, non è solo poesia, né solo prosa. È voce pastosa che parla nel sonno, voce implicita, libera, fasica, simbolica. Sincerità ispirata, grondante fisicità. Del sonno ha la stessa vaghezza. La densità, l’indolenza rivelatrice, la visionarietà ombrosa che procede per fasi umorali, illuminando la notte. Da questo titolo è quindi naturale tornare al tema principale, dunque. Il tema del viaggio, dobbiamo dirlo, non può che confrontarsi con quello del tempo, da sempre caro ad Antonio Errico. Il tempo passato qui diventa soggetto attivo, attraverso il ricorso ad un ombra/personaggio. L’ombra insegue la narrazione, la stimola e la rende più profonda, consapevole e acuta. L’ombra avverte, l’ombra ripete, in un gioco sapiente di contrasti l’ombra riesce persino a far luce. L’ombra frammenta i luoghi nelle diverse voci che agitano il paese del ritorno. La madre, il padre, l’amata: queste voci si alternano stralunate; a volte prese dallo stupore, altre dallo sgomento, reagiscono come possono alla tirannia della memoria. Altro punto fondante la narrazione di Errico, infatti, è proprio la memoria, della quale il ritorno e il tempo attraversato si nutrono inevitabilmente. Memoria intesa come balsamo o come malattia? Il disertore, dopo i primi passi incerti nella notte e i primi silenzi angosciosi, comincia a domandarsi a cosa potrà mai servire il suo ritorno, cosa potrà ritrovare, salvare, restituire, sanare. È inevitabile domandarselo, per lui come per tutti, ma quello che più colpisce il lettore è che la risposta a questa domanda universale per Antonio Errico passa essenzialmente attraverso la conoscenza del proprio padre, l’osservazione della propria ombra, l’attesa dell’alba.
I propri passi ripetuti nella casa di famiglia, soprattutto quelli sembrano essere l’aituo fondamentale. Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un altro romanzo che, se pure con toni del tutto diversi, affronta lo stesso tema. Penso a “ La madre che mi manca” di Joyce Carol Oates. In questo ultimo caso è la morte violenta della madre della protagonista ad obbligarla a tornare nella casa di famiglia, a calpestare passi antichi eppure incompresi, a toccare e ritoccare le vecchie mura deserte per tentare di comprendere tutto quello che è andato perso. Perché, per capire qualcosa di sé, è necessario ritornare, ma è pur vero che tutto quanto ci riguarda intimamente, tutto ciò che condiziona il nostro modo di essere, è accaduto quando eravamo troppo distratti e vivi per rendercene conto. Se è vero che il padre è l’origine, la ragione, il perché, l’ombra, è altrettanto vero che nulla sappiamo di quel “perché”, mentre accade. Cogliere a pieno il senso e il dettaglio di quella che è stata la vita dei nostri genitori è sempre gesto a posteriori. Non semplicemente memoria, ma ricostruzione tardiva. Dove ero io quando mia madre aveva quaranta anni e le cose più importanti della nostra vita si compivano? Dove eravamo noi? Chiedersi oggi “dove sono?” equivale per tutti a chiedersi “dove ero?”. La protagonista della storia della Carol Oates, come il reduce di Errico, tornano a se stessi dopo il tempo giusto, col giusto ritardo, e lo fanno per capire e capirsi. Entrambi toccano, calpestano, osservano i vecchi luoghi come se non li conoscessero affatto. Questo stupore stralunato, quindi, accomuna due romanzi seppur diversissimi per stili, atmosfere, ricercatezza del lessico, ambientazione, ma non solo questo. Anche il successivo bisogno di dimenticare le mura del passato, il loro richiamo da sirena, al fine unico di salvare la pelle ed il cuore. E se Errico è sud, lirico, elegante, pietroso, la Oates è America, spumeggiante, ironica, glamour, ma la vera narrazione è vita che va e ritorna come spola sul telaio. Sempre e ovunque.
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special tank to Mauro Marino
Perché questo titolo?
Un buon titolo è sempre o un’anticipazione o una conferma di quello che il testo contiene, in una sorta d’accordo preliminare tra lettore e scrittore. A mio avviso il titolo scelto da Errico per questo nuovo romanzo è una confessione appassionata, è la descrizione sincera di un occhio che scrive. Quella che l’occhio di Errico produce, infatti, non è solo poesia, né solo prosa. È voce pastosa che parla nel sonno, voce implicita, libera, fasica, simbolica. Sincerità ispirata, grondante fisicità. Del sonno ha la stessa vaghezza. La densità, l’indolenza rivelatrice, la visionarietà ombrosa che procede per fasi umorali, illuminando la notte. Da questo titolo è quindi naturale tornare al tema principale, dunque. Il tema del viaggio, dobbiamo dirlo, non può che confrontarsi con quello del tempo, da sempre caro ad Antonio Errico. Il tempo passato qui diventa soggetto attivo, attraverso il ricorso ad un ombra/personaggio. L’ombra insegue la narrazione, la stimola e la rende più profonda, consapevole e acuta. L’ombra avverte, l’ombra ripete, in un gioco sapiente di contrasti l’ombra riesce persino a far luce. L’ombra frammenta i luoghi nelle diverse voci che agitano il paese del ritorno. La madre, il padre, l’amata: queste voci si alternano stralunate; a volte prese dallo stupore, altre dallo sgomento, reagiscono come possono alla tirannia della memoria. Altro punto fondante la narrazione di Errico, infatti, è proprio la memoria, della quale il ritorno e il tempo attraversato si nutrono inevitabilmente. Memoria intesa come balsamo o come malattia? Il disertore, dopo i primi passi incerti nella notte e i primi silenzi angosciosi, comincia a domandarsi a cosa potrà mai servire il suo ritorno, cosa potrà ritrovare, salvare, restituire, sanare. È inevitabile domandarselo, per lui come per tutti, ma quello che più colpisce il lettore è che la risposta a questa domanda universale per Antonio Errico passa essenzialmente attraverso la conoscenza del proprio padre, l’osservazione della propria ombra, l’attesa dell’alba.
I propri passi ripetuti nella casa di famiglia, soprattutto quelli sembrano essere l’aituo fondamentale. Qualche tempo fa mi è capitato di leggere un altro romanzo che, se pure con toni del tutto diversi, affronta lo stesso tema. Penso a “ La madre che mi manca” di Joyce Carol Oates. In questo ultimo caso è la morte violenta della madre della protagonista ad obbligarla a tornare nella casa di famiglia, a calpestare passi antichi eppure incompresi, a toccare e ritoccare le vecchie mura deserte per tentare di comprendere tutto quello che è andato perso. Perché, per capire qualcosa di sé, è necessario ritornare, ma è pur vero che tutto quanto ci riguarda intimamente, tutto ciò che condiziona il nostro modo di essere, è accaduto quando eravamo troppo distratti e vivi per rendercene conto. Se è vero che il padre è l’origine, la ragione, il perché, l’ombra, è altrettanto vero che nulla sappiamo di quel “perché”, mentre accade. Cogliere a pieno il senso e il dettaglio di quella che è stata la vita dei nostri genitori è sempre gesto a posteriori. Non semplicemente memoria, ma ricostruzione tardiva. Dove ero io quando mia madre aveva quaranta anni e le cose più importanti della nostra vita si compivano? Dove eravamo noi? Chiedersi oggi “dove sono?” equivale per tutti a chiedersi “dove ero?”. La protagonista della storia della Carol Oates, come il reduce di Errico, tornano a se stessi dopo il tempo giusto, col giusto ritardo, e lo fanno per capire e capirsi. Entrambi toccano, calpestano, osservano i vecchi luoghi come se non li conoscessero affatto. Questo stupore stralunato, quindi, accomuna due romanzi seppur diversissimi per stili, atmosfere, ricercatezza del lessico, ambientazione, ma non solo questo. Anche il successivo bisogno di dimenticare le mura del passato, il loro richiamo da sirena, al fine unico di salvare la pelle ed il cuore. E se Errico è sud, lirico, elegante, pietroso, la Oates è America, spumeggiante, ironica, glamour, ma la vera narrazione è vita che va e ritorna come spola sul telaio. Sempre e ovunque.
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giovedì 9 aprile 2009
Michele Caccamo, La Sindone è una morte solo umana. Poesia tratta da La stessa vertigine, la stessa bocca (Manni editori)
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