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giovedì 23 luglio 2009

Appocundria! Intervento di Vito Antonio Conte su Del pesce e dell'Acquario di Ilaria Seclì (Lietocolle)

“L'appocundria me scoppia ogni minutu a 'mpietto...”, cantava Pino Daniele degli esordi, 1980 all'incirca, “Nero a Metà” si chiama l'album in cui è contenuto questo pezzo (che amo ancora), se mal non ricordo. Testo scarno e essenziale, come di anima che si palesa. Melodia di chitarra che compie il miracolo di unire fado flamenco e blues. Era il mio primo anno all'Università: questo lo ricordo bene. Quasi trent'anni addietro: cazzo, mi verrebbe da dire! E sia. L'appocundria, nella sua accezione dialettale (nella lingua napoletana, siccome in quella salentina), significa qualcosa di più del corrispondente (ipocondrìa) italiano... Non è afferente, all'evidenza, al significato psicologico di nevrosi o patofobia... né coincide appieno con quegli stati più strettamente evocati e cioè con la depressione, la malinconia, lo scoramento, lo sconforto, l'abbattimento, pur contenendoli (in qualche misura). È qualcosa di più. E di diverso. È quella sorta di apatia che ha il sapore dell'indolenza e dell'impotenza (equamente divise). Molto vicino alla refrattarietà. Io, per certe cose, sto così da un po': faccio quel che devo: quel che dovere impone, appunto. Senza passione. Senza entusiasmo. È necessario. E lo faccio. Nel modo migliore, s'intende! Ma farei volentieri altro, se non avessi bisogno di quel che il lavoro dà. Mezzi di sussistenza, li chiamano. Lasciamo stare. Non m'impelagherò in parole sociologicamente rilevanti, né ho voglia di bestemmiare, oggi. Ché dire male del mio lavoro, in periodi di precarietà e di crisi -come quello presente-, significa bestemmiare. E anche la bestemmia ha un suo valore. Riservo di essere blasfemo per altre -più meritorie- occasioni. Coltivo altre passioni. Che ci sono. Per fortuna. Scrivo sempre. Appunto l'ordinario. Segno incipit per lo straordinario (almeno credo). Annoto, per non perderla, la meraviglia (ritengo). Lascio tracce dell'incanto (ne sono certo). Ci sono cose nuove che mi frullano nel grigio incipiente de... i miei capelli. Mi limito a serbarne memoria con una parola. Aspetto altro tempo. Ché questo non basta per il resto. Per tutto quanto il resto. E per quel che resto non è. Non leggo più come fino a qualche settimana fa. Non ho voglia di reading e presentazioni (salvo rare eccezioni) e, in genere, di tutta quella cultura svenduta nelle serate che, pure, a lungo, ho assiduamente frequentato. Refrattarietà! Non riesco a respirare certe atmosfere d'aria falsa. Meglio la campagna. E la fatica. Col sudore. E il silenzio. Non fraintendete: è uno stato mio. Sicuramente aiutato dal clamore e dalla frenesia inutili d'intorno, ma mio. C'è che ho voglia d'altro. E quell'altro, grazie al cielo, c'è. Non esattamente siccome vorrei, ma c'è. E anche quando non ci sarà più, semmai non ci sarà, so che “è” per sempre. No, non gioco con le parole. Non faccio sofismi. Non pratico strambe filosofie. Oddio, mi perdo ancora nei versi, da ultimo in quelli di Ilaria Seclì: “Del Pesce E Dell'Acquario” si chiama la sua ultima raccolta, edita da Lietocolle (pagg. 72, tutto compreso, € 13,00). Ma è un perdersi lieve e doloroso insieme. Un andare verso mondi toccati senza conoscerli, ovvero verso mondi conosciuti senza averli mai toccati. Non spetta a me aggiungere altro sull'opera di Ilaria Seclì. Su di lei qualcosa potrei aggiungere. Di buono. Ma non lo faccio. Dico soltanto, e lo dico a lei personalmente, che -è vero- una vita sola spesso non basta: ce ne vorrebbero almeno due!?! Ma -io (oggi)- guardo la mia e penso: una vita è tutto... Poi, aggiungo e chiudo, è il coraggio che manca; è la responsabilità che inchioda; è capire questo che difetta; comprendere questo e lasciarsi andare lo stesso; e dire: Grazie, ancora... “io, sposa del dio estinto, del figlio perduto, se il cielo rovescia / ciò che la terra solleva tu tieni e sposti nella misericordia / della valle senza vento”, così scrive Ilaria ed è solo la fine del primo componimento della raccolta poetica citata. Non perdetevi questo libro! Perdetevi in questo libro. Perdetevi in “vite infette” (uno dei versi che amo di più). Poi, tornate alle vostre occupazioni. Se ci riuscite. Io torno alla mia refrattarietà. Non mi tangono le vostre corse ultronee. L'indifferenza verso quel che ho scritto su (e, di contro, la pienezza di quell'altro che ha il più alto nome divino e ch'è madre di tutti...), adesso mi fa stare qui, tra note sempre nuove (bellissime quelle di Mario Fasciano & C. in “Porta San Gennaro - Napoli”), davanti a quello ch'è aperto da oltre un mese, che non può essere definito libro, ma di carta è fatto. Carta di ottima fattura, con parole sussurrate, immàgini di una bellezza sconvolgente, tavole note che mi appaiono come mai viste, acquerelli che fotografano anime in viaggio nella più reale delle camminate, chine di un'essenza fatta di pochissimi tratti e che evocano soprattutto quel che segno non è né potrà mai diventarlo e intanto (così) lo vedi lo tocchi lo annusi lo accarezzi e ti accarezza, tecniche miste di indicibile forza: quella che cattura l'occhio e lo fa godere... Il “LIBRO”, di grande formato (29 x 27), è “Periplo Segreto” di Hugo Pratt (a cura di Patrizia Zanotti e Thierry Thomas), edito nella scorsa Primavera da Rizzoli-Lizard (su progetto editoriale della CONG SA, Losanna), e conta ben 415 pagine (€ 70,00), con traduzione in inglese e in francese, delle quali la gran parte illustrate con gli splendidi sogni fermati nella sospensione lirica del vivere l'onirico dell'insuperato Hugo. Quest'opera si apre con una splendida fotografia (del volto in primo piano) di Hugo Pratt; quindi troviamo la “Premessa” di Patrizia Zanotti e “Sotto il segno dell'ironia” di Thierry Thomas. Prosegue con i disegni di Pratt: “Tecniche miste: 1950/1995”; poi con una sezione dedicata a “Hugo Pratt. La vita e i viaggi”. Si chiude con una “Bibliografia essenziale”. Più volte ho scritto (anche su queste pagine) di lui e delle sue opere... Ma quella di cui dico adesso è la “summa” straordinaria delle singole prodigiose storie di Pratt, frutto della sua infinita fantasia artistica. Quella che gli permetteva di vivere quel che immaginava. Quella resa immortale nelle tavole disegnate attingendo alla sua stupefacente memoria. Ricordo vivido dei fatti della sua esistenza e di tutto quello che aveva conosciuto. Di tutto ciò Pratt sapeva evocare e rendere appieno ogni espressione con pochi tratti. “Quanta musica, movimento e allegria ci sono nella Josephine Baker appena tracciata con due gesti di carboncino? Una volta in una libreria di Parigi in occasione dell'uscita del suo libro "Lettere dall'Africa" di Rimbaud, un ragazzo, molto timido e emozionato di trovarsi di fronte a Pratt, gli chiese un ritratto di Rimbaud, ma Hugo capì "Rambo" e, anche se piuttosto sorpreso, gli tracciò un bel ritratto di Silvester Stallone. All'inizio di "Aspettando Corto" c'è un passaggio che evidenzia molto chiaramente l'entusiasmo, ma al tempo stesso lo stupore per le possibilità che gli si aprivano nella vita grazie alla sua capacità di disegnare, e naturalmente, grazie al fatto che qualcuno avesse riconosciuto queste capacità e potenzialità. "Immaginate di aver sognato l'America per cinque anni. Non un posto preciso dell'America, a nord a sud o al centro. No. Avete sognato l'America come un nome, una situazione, una droga, un rinvio, una dilatazione, un'evasione, un inizio, un Eldorado, un'avventura, una chiavata o una fuga (…) e un giorno vi trovate sulla nave con un biglietto e tutto (…) con l'orizzonte che precipita a poppa mentre la prua della nave, ondata dopo ondata, apre per voi le porte del mondo. E avete poco più di vent'anni (…) Ero in viaggio per l'Argentina (…) biglietto pagato e contratto di lavoro con l'Editorial Abril. Mi chiedevo: sei un disegnatore? Sono passati vent'anni da quella prima partenza per l'America e ancora non mi sono risposto.". La sua era la "generazione entusiasta", mi diceva alla fine dei vari racconti. Erano entusiasti di tutto, ma soprattutto di essere sopravvissuti alla Guerra. Una guerra che Pratt aveva conosciuto da vicino in Africa e disegnato negli "Scorpioni del deserto" conservando un'incredibile memoria dei dettagli: delle divise, delle mostrine, degli stemmi che evidentemente aveva memorizzato inconsapevolmente da bambino. Anche nel rigido mondo militare Pratt riusciva a far entrare l'ironia, attraverso personaggi che col loro linguaggio denunciavano l'assurdità delle guerre che lui raccontava.” (Dalla premessa di Patrrizia Zanotti). Quell'ironia che gli ha permesso di raccontare disegnando mille altre realtà stordendo i lettori col suo tratto poetico e facendoli risvegliare con una domanda in più. “Per nessun disegnatore realista (cioè autore di un fumetto di avventure e non di una serie che vuol essere comica) l'ironia ha avuto tanta importanza come per Hugo... i clichè delle sue storie hanno perso il loro carattere artificiale, e i suoi personaggi sono diventati veri, quando lui è stato in grado di iniettare nelle sue strisce quell'ironia che gli era connaturata. Quando ha saputo, semplicemente, disegnarla. Ma l'ironia, viene da dire, non si disegna! Invece sì: grazie alla semplicità, appunto, grazie alla rarefazione e alla rapidità. "Il mio modo di lavorare è cercare sempre di andare oltre..." dichiarava Hugo. Di fatto il suo stile si è rivoluzionato in modo decisivo quando ha iniziato a epurare il disegno. Da quel momento tutto è diventato più leggero, e più profondo.” (Thierry Thomas). Più leggero. E più profondo. Insieme. Gli opposti. Ciò che -apparentemente- sta agli antipodi. Che si toccano. Coincidendo. Forse. Mia vecchia fisima!?! Un po' come questo pezzo. In cui ho finito per dirvi che sono impenetrabile dal mondo parlandovi di tanti mondi... E ce ne sarebbe da dire, ancora, e ancora, sì ancora... ma c'è “Il Libro” che mi reclama, questo LIBRO. Che non è un libro. Ma è fatto di carta. Come certi sogni. Di fragile carta. Tanto fragile che devi trattarla con cura e attenzione. Così fragile che può vivere (e, spesso, vive) oltre una vita. Amatela.

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