Qualche tempo addietro. Poche settimane, un mese, l'anno scorso. Che sembra tanto, ma è poco meno di sessanta giorni fa... Non importa. Lascio l'auto parcheggiata. Bene. Più o meno. Non intralcia niente e nessuno! Ma, si sa, i vigili della polizia municipale di questa città se ne fottono, pensano a far cassa. Come d'istruzioni per l'uso. Ho bisogno di camminare. Giro senza intenzione per le strade del centro storico. Poi, come spesso mi capita, mi fermo in qualche libreria. Questa si chiama ERGOT. Saluto Simone, scambiamo qualche parola, curioso tra libri che altrove è raro trovare. Mi perdo tra lettere di tutti i tipi... torno, in fine, da dove avevo iniziato: fumetti. Non ho mai smesso di leggerli. Mai smetto di chiamare questo genere “letteratura disegnata”: è un modo come con altro per ricordare l'Autore che più di tutti ho amato e che continuo a amare: Hugo Pratt... (senza sentirmi un Corto Maltese, che che se ne dica in giro...). M'innamoro di un titolo: “Sonno Elefante” (“I muri hanno orecchie”, recita il sottotitolo). Rimane tra le cose da leggere. Qualche tempo dopo... È il primo libro di Giorgio Fratini (pubblicato per i tipi di BeccoGiallo Edizioni, nella Collezione Quartieri, 2008, pagine 112, € 14,00). Prima di questo libro, “Sonno Elefante” è il titolo di un pezzo di Paolo Conte (contenuto nell'album “Elegia” del 2004), una canzone ch'è, per testo arrangiamento orchestrazione atmosfera e potenza evocativa, tra le migliori mai scritte in assoluto. Giorgio Fratini lo sa. Me ne accorgo quando finisco di leggere e di vedere questa storia (ché il fumetto così è: parole e immagini, quasi come al cinema!) e passo in rassegna le “Note dell'Autore”, dov'è, tra l'altro, citata la canzone di Paolo Conte... Il libro è completato da una “Breve Cronologia” -degli eventi che hanno interessato la storia del Portogallo dall'indipendenza dalla Spagna (1640) sino all'avvento (a seguito di libere elezioni) della democrazia parlamentare (1976)- e da una bella nota critica (“Di elefanti e avvoltoi”) di Roberto Francavilla. Giorgio Fratini, attraverso la sceneggiatura e le tavole disegnate di questa storia, è riuscito a cristallizzare, in ottanta pagine, quarantotto anni di regime dittatoriale portoghese, il più lungo -e tra i più nefasti- della storia d'Europa. Ho usato il predicato verbale “cristallizzare” intendendo dare contezza di un azione che ferma e tramanda qualcosa di cui si è perduta o si rischia di perdere la memoria. Questo è il libro di Giorgio Fratini. Memoria sottratta all'oblio, alla cancellazione che gli uomini (sostituendosi innaturalmente al tempo) perpetrano di eventi scomodi e raccapriccianti. Penso alle nefandezze compiute durante il regime nazista in danno degli ebrei, degli omosessuali e di tutti quelli che osavano nutrire idee divergergenti dalla (schifosa) loro... Penso alle nefandezze del regime fascista nel nostro Paese... Penso alle nefandezze compiute dal regime comunista Jugoslavo (...) nelle foibe, con l'eccidio di migliaia di uomini per motivi etnici-politici... Penso al genocidio armeno... Penso all'esodo greco dall'Anatolia... e anche a quello tedesco dall'Europa orientale. Penso ai massacri di cui continuano a macchiarsi tutti i regimi totalitari... Penso a tutti gli scempi compiuti in Africa e altrove dalle potenze colonialiste e imperialiste -per restare in tema col libro basti l'esempio della Guerra Coloniale Portoghese in Angola Mozambico Guinea-Bissau Capo Verde Sao Tomè e Principe... Penso ai guasti delle attuali guerre, la gran parte delle quali manovrate da un altro potere, anch'esso economico-politico, quello dei signori delle armi... Penso alle odierne guerre pseudo religiose e mi chiedo: finiranno mai le crociate? Penso alle moderne guerre in nome della democrazia che celano il reale interesse al controllo delle aree ricche di fonti di energia... Penso allo sconvolgimento planetario per l'identico motivo testè detto con drastica riduzione delle foreste pluviali o deviazione dei grandi fiumi siberiani... Penso alla deriva che porterà a certo naufragio del non pensare in questo nostro “piccolo” Paese... E fa male. Tutto questo fa male. Sarà che oggi, venticinque febbraio, in questa splendida giornata di sole, sto male anche per altro... sarà, chissà!?! E tutto (o quasi...) per un fumetto. C'è che non è mai cosa buona mascherare le splendide rovine del ricordo con nuovi gioielli d'architettura che fanno sparire epoche e misfatti. L'oblio, appunto. Quello del sonno elefante. Nel tentativo di annichilire la memoria. Quella di una città, di una nazione, di un popolo, conservati e che ancora fa male. La città è Lisbona e la memoria risiede in Rua Antonio Maria Cardoso, nel Quartiere Chiado e, esattamente, in un palazzo in fase di ristrutturazione (per farne un condominio di lusso), già sede del PIDE. “PIDE. Un suono, un acronimo, una parola che ancora oggi, per molti portoghesi, provoca un brivido sulla schiena: Policia Internacional de Defesa do Estado. Il braccio armato del regime”. Quella polizia speciale che ha seminato, come -purtroppo- ancora accade in molte parti del mondo, terrore tortura morte per piegare il pensiero, la parola, l'arte, il dissenso, la libertà! Quella polizia speciale fatta di uomini (sic!) che incarceravano, riducevano al silenzio, facevano sparire altri uomini. Quella polizia speciale che ti vien voglia perdio soltanto di bestemmiare. Di bestemmiare. Soltanto di bestemmiare. E poi tacere. Per sempre. Come Leon. Che amava Maria. Che continuò a amarla in carcere. E quando ne uscì. Che l'amò per sempre. In silenzio. Nel suo silenzio. Come quello dell'elefante senza orecchi. Quello che aveva scelto l'oblio. Come me.
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lunedì 8 giugno 2009
lunedì 4 maggio 2009
Su John Fante. Intervento di Vito Antonio Conte
E... poi me ne sto in letargo per lunghi momenti. Mai quanto vorrei. Davvero. Come l'orso nella tana intanto che fuori l'inclemenza del tempo fa il suo. Così vorrei. Mi accontento di lunghi momenti. E faccio cose indicibili. E bellissime. Qualche tempo fa (questa posso dirla) ho rispolverato la mia (scarna) collezione di LP, vecchi vinili 33 giri, e tra questi: Teddy Pendergrass, Tiny Bradshaw, Randy Crawford, Count Basie, Jim Croce, Teddy Wilson, Paolo Conte, George Thorogood, Led Zeppelin e... King Crimson: “The Compact King Crimson”: un album doppio che raccoglie il meglio di questo gruppo e che allora non ho potuto ri-ascoltare perché il mio piatto-stereo l'avevo portato da tempo in campagna e, comunque, è (tutt'ora) privo di “puntina”... ho ordinato il CD dove ci sono i pezzi che amo di più: “In The Court Of The Crimson King”; adesso lo ascolto a go-go. Un'altra volta ho tirato giù tutti i libri della mia biblioteca: migliaia... In fine, ho ridisposto (secondo un ordine diverso da quello precedente) volume dopo volume nelle librerie fin quasi all'alba... Ogni tanto penso di liberarmi di ogni cosa. Talvolta l'ho fatto. Quella volta dei libri, pensavo: e se vendessi l'intera biblioteca al tizio romano di Ponte Milvio? Poi me ne sto in letargo per lunghi momenti, mai quanto vorrei. Alla lettera “effe” c'è ancora Fante, John Fante... Ho letto i libri di John ché me l'ha consigliato Charles. Posso leggere mille e mille poesie di altrettanti poeti, ma quando rileggo un solo verso di Bukowski, ogni volta, mi dico: questa è la poesia che amo di più. Il resto è tale. Residuo. Capite perché quando Bukowski dice che tra i pochi che val la pena di leggere c'è Fante, gli credo. Se Fante “circola” ancora è soprattutto merito di Hank (tra l'altro, lo ha citato in “Donne” e gli ha dedicato una raccolta di poesie). Di “Dago Red” (Einaudi, Stile Libero) ricordo (chissà perché) l'ultimo racconto, “Ave Maria”, e sul libro non c'è traccia del passaggio dei miei occhi e delle mie dita. D'altro sì. A pagina 231 di “Chiedi alla polvere” (Einaudi, Stile Libero) c'è scritto: “7 giugno '05, ore 13:59, se / qualcuno / parla / male / della / mia / poesia / c'è...”, che non so più perché l'ho scritto. A pagina 238 di “Aspetta primavera, Bandini” (Einaudi, Stile Libero) è annotata una data e un'ora: “23 agosto 2005, ore 10:50”. A pagina 228 di “La confraternita dell'uva” (Einaudi, Stile Libero), secondo altri “La confraternita del Chianti”, c'è soltanto una data annotata a matita: “2.9.2005”. A pagina 154 di “Sogni di Bunker Hill” (Einaudi, Stile Libero), con una biro a inchiostro azzurro, ho annotato, tutto a lettere: “è il quattro settembre duemilacinque, c'è un cielo nuvolo e triste, neppure un alito di vento, alle diciotto e trentasei il fumo della mia sigaretta ruba l'aria residua, la mia bmw ha problemi di carburazione (forse il ciclere di minimo?), il sudore appiccicato sul viso, più tardi a Sud (ancora), verso le Centopietre...”. Pagina 152 di “Full of Life” della Collana Tascabili di Fazi Editore era bianca: sopra c'ho scritto: “16.9.2005, John bella storia, sei (non eri) forte... davvero (...)”. A pagina 206 di “A Ovest di Roma” (Fazi Editore, Collana Tascabili), dopo l'ultimo rigo del romanzo (“Era l'alba quando tornammo a casa”), è scritto (sempre di mio pugno) “24.X.2006”. Nient'altro. Appena dopo l'inizio di questa primavera ho finito di leggere “Un Anno Terribile” (Fazi Editore, Collana Tascabili, pagine 142, € 7,74) e in nessuna pagina è annotato alcunché: dirò qualcosa adesso. Qualcosa in più delle -a dir poco- lapidarie notazioni sui libri su citati. Sempre meno di quanto hanno già notato Gianni Amelio, Emanuele Trevi, Vinicio Capossela, Niccolò Ammaniti, Domenico Starnone, Fernanda Pivano, Alessandro Baricco, Sandro Veronesi e altri ancora. Sempre meno. Ché, lo sapete, a parte tutto, mi piace sottrarre. Non vi dirò, quindi, che Fante è considerato tra i maggiori scrittori del Novecento americano, né che di lui e della sua scrittura si sono occupati, a diverso titolo, critici, artisti, scrittori e laureandi, i quali ultimi hanno speso la loro passione per le sue opere trasfondendola nelle loro tesi di laurea. Vi dirò, invece, di questo romanzo breve, inedito finché Fante è vissuto e pubblicato postumo per volere di sua moglie Joyce. Intanto c'è una bella copertina: “New Kids in the Neighborhood” (1967) di Norman Rockwell: tre ragazzi, due maschi e una femmina, davanti alla grossa ruota posteriore sinistra di un grande furgone (postale?) color avorio e, con loro, un cane seduto che rievoca un altro titolo fantiano: “Il mio cane Stupido”. Uno dei tre ragazzi è abbigliato da giocatore di baseball. E non è un caso. Tutta la storia di “Un anno terribile”, infatti, ruota intorno al diciassettenne Dom Molise e al suo Braccio mancino. Un ragazzo di umilissime origini che sogna di diventare un giocatore professionista di baseball, nonostante tutto il mondo, dal microcosmo in cui vive a quello che ancora ignora e che un giorno (sogna) non potrà fare a meno di parlare di lui tanto diventerà famoso, gli giri contro. Lo si comprende subito dall'incipit del romanzo: “Era duro, l'inverno del 1933. Quella sera, arrancando verso casa attraverso fiamme di gelo, con le dita dei piedi che mi bruciavano, le orecchie che andavano a fuoco, e la neve che mi turbinava intorno come un nugolo di suore furibonde, mi fermai di colpo. Era giunto il momento di tirare le somme. Con la pioggia o col sereno c'erano delle forze al mondo che cercavano di distruggermi” (mi ricorda qualcosa che non dirò per non citarmi addosso). Dom Molise è un lanciatore e non c'è avversità che possa distoglierlo dal sogno del baseball, non v'è umiliazione che possa ferirlo fino a far annichilire quel desiderio, non esiste condizione -per quanto miserrima- che possa far naufragare quell'illusione. Non il padre muratore disoccupato da mesi, non la madre ferita dall'assenza del marito, non la nonna e il suo dialetto abbruzzese sputato contro ogni cosa di quella giovane America, non i fratelli molto più concreti di lui, non la povertà amplificata dal tenore di vita del suo ricco miglior amico, non l'amore non corrisposto e irriso per Dorothy, non l'apparizione della Vergine Maria... “Il Braccio mi dava la forza di andare avanti, il mio dolce braccio sinistro, quello più vicino al cuore. La neve non poteva fargli male e il vento non poteva ferirlo perché lo tenevo ricoperto di Balsamo Sloan, una bottiglietta che avevo sempre in tasca. Ero intriso di quel fetore, a volte venivo mandato fuori dalla classe per andarmi a lavar via quell'acuto odore di pino, ma io uscivo a testa alta, senza vergogna, ben conscio del mio destino, corazzato contro i sogghigni dei ragazzi e i nasi tappati delle ragazze. Avevo un'andatura grandiosa in quei giorni, il portamento di un pistolero, la scioltezza del mancino classico, con la spalla sinistra leggermente calata, Il Braccio mollemente dondolante, come un serpente – il mio braccio, il mio benedetto, santo braccio che mi era stato dato da Dio, e se anche il Signore mi aveva creato figlio di un povero muratore, mi aveva però fatto un gran regalo quando aveva fissato sui cardini della clavicola quella centrifuga”. Questo libro (che Fante non volle pubblicare perché pur ritenendo il “materiale attraente” non stimava la storia “importante”), come tutti i libri di Fante, disvela un'altra parte della sua vita e, una volta ancora, l'odio-rancore-amore verso il padre e la sua famiglia d'origine. Questo libro è l'ennesima ricerca della storia di una saga famigliare, cui non è celata nessuna sfumatura, ma nel quale -anzi- si rinvengono pezzi che s'inseriscono perfettamente nel grande puzzle della scrittura di Fante e ne completano un'epopea. Chi vuol saperne di più della vita e della leggenda di John Fante legga (anche) la particolareggiata biografia scritta da Stephen Cooper “Una vita piena” (per i tipi di Marcos y Marcos, 2001, pagine 327, € 18,08). Adesso lascerei scorrere “I talk to the wind” ...poi me ne starei in letargo per lunghi momenti, mai quanto vorrei. Ma voglio dirvi un altro paio di cose: la prima: “e piansi per mio padre e tutti i padri, e anche per i figli, perché eravamo vivi in quell'epoca, per me stesso, perché sarei dovuto andare subito in California, e non avevo scelta, avrei dovuto farcela”. La seconda: mi accade, da un po' di tempo, di associare l'aggettivo “terrìbile” alle cose più importanti e più belle di questa esistenza e... non so cos'è (o, forse, sì); e chissà perché mi viene in mente che un giorno del 1980 Hank (Bukowski) andò a trovare John in ospedale (già minato dalla malattia che lo avrebbe progressivamente reso cieco, privato -per amputazione- delle gambe e portato altrove...) e (riferendosi a Camilla Lopez, splendido personaggio di “Chiedi alla polvere”) gli chiese: , Fante gli rispose: . Li vedo ancora ridere di gusto insieme. Circa tre anni dopo, l'otto maggio millenovecentottantatre, alle tre del meriggio, John si confuse con le rondini nel cielo che odorava di primavera. Qui, la primavera (ormai, mi dicono) porta soltanto rondoni. Io continuo a vedere le rondini.
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