Il Gargano è un posto mistico. Grosse chiazze di pietra e cemento sono spalmate sui suoi pendii. Nel mezzo boschi che invitano all'ascesi. Paesaggio sempre da scoprire specialmente per chi lo guarda nella duplice veste di indigena e turista. Ciò fa diventare inevitabilmente ciceroni compiaciuti. Nell'anno Mille ci passò San Francesco da queste parti. Se ci si addormenta nel silenzio della Foresta Umbra si sentono ancora i calpestii dei pellegrini che stanno nelle stanze del tempo trasportate dall'inconscio. San Giovanni Rotondo: non si perde occasione per rimarcare il fatto che la sconosce da prima, da prima del Mac Donald's piantato tra i parcheggi per i pullman che ormai arrivano quasi fino a Manfredonia. "Casa Sollievo della Sofferenza": il nome già da sè allevia le ferite. Il Grand Hotel delle prestazioni sanitarie fa bella mostra di sè con i suoi marmi bianchi attaccato alla collina su cui si sono espansi poliambulatori nel corso dei suoi ormai quattro decenni di vita. Davanti, viavai continuo di macchine e pedoni e sembra di essere sulla Costa Azzurra.
Sacro e profano nel merchandasing dell'omino con le stimmate che marchia la vita quotidiana di questi posti e non solo. "Cartoleria Padre Pio ", "Centro estetico Padre Pio" e via andando col franchising della ditta Padre Pio, marchio di garanzia su tutto ciò che si può fabbricare ad uso e consumo degli sciami di persone che ininterrottamente attraversano queste strade da qui all'eternità.
"L'unica cosa che mi manca da vedere è: " Casa di tolleranza Padre Pio". La sarcastica affermazione si leva blasfema tra la massa indistinta che si infila nell'imbuto del percorso obbligato verso la cella di Padre Pio con i suoi feticci pervicacemente sigillati per sfidare la polvere del tempo. Occhiate di blanda disapprovazione dai moderni pellegrini catapultati qui dal battage mediatico del santo dei Vip. Una comparsata a San Giovanni Rotondo è come una comparsata al Festival di Cannes.
Perciò, casa di tolleranza magari no, ma qualche velina redenta la si può pure trovare. Ci sono infatti due tocchi di ragazze che sono ferme all'entrata della chiesa per ritirare i coprinudità indispensabili perchè la casa di Dio non sia offesa dalla vista della deprecabile pelle femminile.
Bambine, sembrano bambine con la snaità insita nelle gambe che si muovono giocose senza apparente malizia e nei capelli lunghi che chissà quante volte hanno fatto ondeggiare davani allo specchio sognando di continuare a giocare davanti a una telecamera. E' la luce indolente di fine estate che illumina la prospettiva della nuova chiesa ad opera di Renzo Piano. Il vento sale dal golfo e il nuovo che si vede, dalla chiesa al nuovo centro oncologico cancellano dalla memoria mediatica l'immagine della chiesetta da cui si affacciava Padre Pio in una delle poche immagini in bianco e nero subito dopo la guerra. I mercanti sono sempre fuori dal tempio e i turisti procedono nei soliti rituali. E' questo il nostro tempo e qui, in questo ex paesino di montanari come l'abbiamo sempre chiamato con disprezzo noi residenti in riva al lago, il turismo della religione e la religione del turismo trasmettono ininterrottamente lo show. Il fiume dei visitatori, passato attraverso il condotto di corridoi che si si strozza davanti alla cella di padre Pio, è ora arrivato a prendere fiato nella cripta della chiesa dove la tomba del santo è ripresa H24 da una telecamera che trasmette sul satellite: Tele Padre Pio, naturalmente. Milioni di vite passate da qui non hanno niente a che vedere con la spiritualità ma comunque danno un senso di eternità. Chiunque, da qualsiasi parte del mondo, può essere arrivato qui e se i respiri lasciassero segni si potrebbe trovare l'orma di quel ragazzo incrociato in un treno o di quella vecchia amica di scuola. L'apoteosi del connubio tra il cattolicesimo e il suo antico vizio a monetizzare la grazia divina avviene alla fine del viaggio attraverso le reliquie del santo. E' una stanza che assomiglia tanto alla sala d'aspetto di un aereoporto. Arrivi e partenze di anime da tutto il mondo. Pit stops ai banconi che vendono frasi, ex voto, talismani, lasciapassare per il perdono nell'aldilà, non si sa mai. Tutto come in una catena di montaggio, con il mumerino e le code incanalate come a Gardaland. E poi fuori, a respirare di nuovo l'aria dolce di queste colline che profumano di mare, consci di avere fatto quello che andava fatto, di essere venuti almeno una volta a San Giovanni Rotondo, come i musulmani almeno una volta vanno alla Mecca.
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domenica 9 agosto 2009
domenica 26 luglio 2009
Nero di Vito Antonio Conte
Tende da campo. Tante. Grandi, piccole e canadesi. Tutte colorate. Prevale l'azzurro. Fili con biancheria appesa ad asciugare. Auto e furgoni ai margini. Movimento. Poco. Lento. Ma non è un camping. Non sono al mare. Percorro la strada che ogni giorno devo per recarmi al lavoro. A Nardò. Ad appena un kilometro dal passaggio a livello, prima della città, sulla destra, tra gli ulivi, quel riparo improvvisato. No, non è un campeggio. E il colore dominante, a ben vedere, è un altro: nero. Nero d'Africa. Di uomini che non sono in vacanza. Di uomini che aspettano un'occasione di lavoro. Nero. Come il colore della loro pelle. Splendidi uomini d'ebano. Tra panni stesi ad asciugare dalle poche donne presenti. Nere anche loro: bellissime. Il vento asciugherà quegli indumenti, bagnati di sudore. Loro, gli uomini, aspettano un'altra giornata di sole. Attendono che qualche “caporale” bianco li ingaggi per la raccolta delle angurie (ma non solo). Si tratta di “ingaggio” senza regole, qualche volta arriva da un loro “fratello”. Attendono dignitosamente una chiamata. Altri sono per strada, a piedi. Raggiungono la prima stazione di servizio che s'incontra entrando (da Lecce) a Nardò, quasi di fronte allo stadio di calcio, subito dopo la chiesetta nel cui giardino si erge la statua di Padre Pio. Attendono il miracolo di un altro giorno di lavoro. Con dignità statuaria pari a quella del santo. Qualche giorno addietro l'attesa si è materializzata -non nel bianco “caporale”, ma- nelle divise della polizia. Ne hanno portati via una ventina, clandestini. I “caporali” circolano ancora. Per gli “schiavi dell'anguria”, invece, la polizia segna un altro VIA nella loro odissea iniziata con la fuga (dalla guerra, dalla fame, da mille altre insidie...) da uno dei cinquantatre Stati del continente Madre. L'ennesima ingiustizia quotidiana è compiuta. La vedo ogni giorno: sulla pelle luccicante di fatica di questi uomini tra i campi mentre raccolgono questi grandi frutti-sauri tondeggianti succulenti dolci croccanti e dissetanti, li ripongono in grandi contenitori di plastica, li caricano su camion, grandi e piccoli, spesso articolati che raggiungono il Nord d'Italia, dove fette rosse e fresche (del loro sudore malpagato e senza garanzie) vengono vendute a caro prezzo. Li vedo ogni giorno. Ognuno li può vedere, passando da lì. Ogni giorno di tutti gli anni, in questo periodo. In passato trovavano riparo in vecchi fatiscenti ruderi di campagna che il degrado ha fatto crollare rovinosamente. Nessun servizio igienico, nessuna garanzie contrattuale, nessuna tutela per loro. La dignità slavata dalla mancanza di dignità di chi li ingaggia illegalmente e di chi questo permette. Il bisogno sfruttato come sempre. Il sudore lavato dai frequenti temporali di questi giorni che fa di questa Terra sempre più luogo d'Africa caraibica. Io intanto raggiungo il mio Ufficio. Che non è un bell'Ufficio. Ma neppure decoroso. Né idoneo a svolgervi le funzioni cui è destinato. Ne avrei da sprecare parole per dire di quest'altra fatiscenza... Chi di dovere ne è a conoscenza. Da tempo. E non cambia nulla. Ma il mio lavoro, per quanto mal retribuito in un ambiente invivibile, almeno è... “regolare” e non posso lamentarmi se l'immobile in cui è allocato l'Ufficio (del Giudice di Pace di Nardò) in cui lavoro è squallido e in degrado, pressoché senza impianto di condizionamento (che d'estate si schiatta dal caldo), coi caloriferi insufficienti (che d'inverno fa freddo), senza scala antincendio (e già una volta un incendio c'è stato: al piano terra, col Personale al primo piano...), senza alcun sistema di sicurezza, senza alcuna vigilanza, senza collegamenti a internet, intranet e REGE, senza niente di niente, tranne muri scrostati e richieste (…) rimaste inevase (tranne qualche sporadico palliativo che non può chiamarsi intervento...). Eppure a Nardò c'è il Nuovo Palazzo di Giustizia. Proprio vicino al luogo dove sostano gli extracomunitari in attesa di un cazzo di lavoro del loro stesso colore! Dovrei dirla tutta, mi dice Maria. Prima o poi lo farò (e a lei, invero, ho detto sempre tutto... quel che ero, quel che sono, senza reticenze... ciò che voglio... e di solito -poi- non ho riserve mentali con alcuno... e quel prima o poi allora significa altro... sì, prima o poi racconterò un'altra storia, l'unica per cui è giusto vivere di cuore...) Ma, in questo caso, c'è che è sordo chi non vuol sentire e cieco chi non vuol vedere. E allora perché sprecare ancora parole? Le ho già sprecate con chi di competenza! Da tempo. E non cambia nulla! Ma io un lavoro “regolare” almeno ce l'ho. Loro no. E quando arriva è quel che è sotto gli occhi di tutti. Non c'è paragone. Perdio! E lungi da me la tentazione di farne (paragoni). Un dato, però, è comune tra la loro situazione e la mia... Se ne parla. Sempre. Ma non cambia niente. E non posso chiudere così. Avevo promesso che avrei bestemmiato soltanto per qualcosa per cui ne valesse la pena: beh, in questo caso la mia scurrilità è d'obbligo: io la destino a chi so, voi a chi vi pare: vaffanculo! E se proprio devo indicare un'altro finale e dare ancora colore e ritmo a questo pezzo, la cosa migliore che mi viene in mente è il ritornello di una canzone di Enzo Avitabile: “chest'è l'africa favurite/bonappetito”.
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