I ragazzini di oggi guardano il grande fratello, non leggono Verne, ammesso che Verne sia uno scrittore da ragazzi. E quasi nessuno sa più cosa diavolo sia stato l’affare Dreyfuss. Intanto, perché sono passati cent’anni. Poi, perché la polvere è meglio metterla sotto il tappeto e scordarsene, con buona pace del nastro della storia, che si riavvolge intanto sempre uguale. Peccato, peccato tutt’e due le cose. Intanto, perché Verne è uno scrittore, uno di quelli veri, con l’X factor, direbbe qualcuno, uno che ha il dono di raccontare e perderti dentro al racconto, e tu leggi e sei lì, che corri nella neve, e senti l’ululato dei lupi e l’adrenalina contrarti le viscere, sei lì, nel mulino, e tendi i muscoli e gli orecchi al passo del mugnaio, pronto a uccidere, se necessario, perché non vuoi, ma forse dovrai farlo, come hai fatto coi lupi, dovrai perché devi restare vivo.
Tu sei lì, e la storia ti insegue, sei lì sulla diligenza che ha un nome russo e strano, sei lì, quando si capovolge sul ghiaccio, e senti l’odore del freddo, e gli occhi di Ilka, perché l’amore è ovunque, anche e soprattutto laddove non ce ne sarebbe spazio, l’amore che aspetta anni, che fa giri immensi e poi ritorna indietro. Un libro è buono quando non ti riesce di chiuderlo finché non l’hai finito. Verne è così. Peccato. Peccato che tanti non ne abbiano letto nemmeno una riga. Peccato, che anche i libri siano soggetti alle mode, come i jeans. Pur non avendo gli strumenti per decodificarlo appieno, il dramma della Livonia/Lettonia resta un racconto che ti porta via, e si giustificherebbe appieno già per questo: come per tutte le storie raccontate bene, che si reggono sole, anche senza il senso che spesso si riesce a dar loro solo dopo, quando si è capaci di leggerle per quello che chi l’ha scritte cercava di dire. E in questo libro Verne cercava di parlare di ottusità nazionalista, di cecità razziale, di quella che oggi va di moda chiamare intolleranza: cercava di raccontare – trasposta in una landa ghiacciata e tutta bianca – l’aula di tribunale in cui per dodici anni un ufficiale francese ebreo, Alfred Dreyfus, fu giudicato e poi ingiustamente condannato, vittima di un errore giudiziario intriso dell’antisemitismo del suo Paese profumato e moderno, una vie en rose di spine che non tollera(va) estranei. Non importa se davvero l’uomo Jules avesse cambiato idea, dando retta la figlio e schierandosi infine tra i sostenitori di Dreyfus capeggiati da Zola, oppure no :quello che conta, per Verne, che gli fa scrivere questo libro, è la riflessione sull’errore giudiziario montato ad arte, sobillato dal rancore verso il diverso, lievitato dai mass media che nutrono il colpevolismo nell’opinione pubblica che cerca sempre il (un?) colpevole. Così, anche la vicenda in sé non conta più, l’innocenza e la colpevolezza non contano più, e diventa tutto uno scontro tra fazioni e razze e partiti e ceti sociali, il panslavismo contro il pangermanesimo, ariani contro ebrei, guerra di religione e di etnia e di colore di pelle occhi e capelli, di lingua e canzoni, e chi vincerà sarà il più forte. Punto. Dreyfus è solo il pretesto, Dimitri Nicolef è solo il pretesto, la storia è più grande, gli interessi in gioco più grandi, i protagonisti solo pedine su una scacchiera ghiacciata, infinita, su cui qualcuno di invisibile e potente sta giocando, e qualsiasi mossa è lecita, pur di arrivare a dare scacco matto. Come il Vietnam, come l’Iraq. Come i processi mediatici e Cogne, come tanto di quello che succede ancora, parafrasi della vita e del mondo in quel momento e nell’eterno, castelli in cui tutti siamo K destinati a smarrirsi, in cui niente è come appare, come vorrebbero farcelo vedere. Russificazione, germanizzazione: parole impolverate dalla storia, certamente, ma che mutatis mutandis non cambiano, resistono, alle cadute dei regimi e delle ideologie e degli imperi, perché c’è sempre qualcuno che paga perché è dalla parte sbagliata, un nero, un portoricano, il colpevole ideale per l’omicidio di un mite commesso di banca, del paradigma dell’operosità borghese, della vita tranquilla sognata dagli angeli, il matrimonio e un posto sicuro.
Più comodo pensare che ci siano loro, là fuori, con le loro zanne e i loro artigli, loro, i diversi, con gli occhi azzurri se i nostri sono neri e neri se i nostri sono azzurri, circoscrivere l’orrore all’altrove, piuttosto che ammettere che Erika ed Omar sono bei ragazzi ben pasciuti e amati, potenziali figli di tutti.
Verne grida l’urgenza della libertà, dei magistrati e delle repubbliche baltiche assieme: è un bel libro, ma non è un libro facile, che lascia la coscienza e i sonni tranquilli: con il miracolo che solo la letteratura può fare tiene per la mano Sciascia e Kafka, resta sullo stomaco e nella mente: quanto poco è cambiato il mondo in cent’anni, quanto poco, forse, potrà cambiare, ancora.
Non ci crede, Jules, che ha viaggiato sulla mongolfiera e creduto nella scienza e nei suoi mondi che sembrano matrioske, uno dentro l’altro, ventimila leghe sotto i mari e su nell’alto, oltre il cielo.
Non ci crede, che bastino i cavalli a vapore a spazzare la nebbia che ci impedisce di vedere attraverso, il pregiudizio, sì, ma anche i nostri piccoli interessi guicciardini, che alla fine, poi, sono alla base dei panismi più grandi. E non ci credi nemmeno tu, quando il libro l’hai finito: ma sai qualcos’altro, adesso, qualcosa che non volevi sapere, che dirada la cortina spessa, confortevole e calda che t’hanno costruito attorno. E questo basta, a farti fare domande.
Le risposte, non puoi trovarle in un libro, ma questa è un’altra storia.
I ragazzini di oggi non leggono Verne, guardano il grande fratello. Loro non se le fanno, le domande.
Vorrei dire che prima o poi succederà.
Vorrei. Come vorrei salire, per una volta, su una mongolfiera.
(UN DRAMMA IN LIVONIA di Jules Verne, a cura di Giuseppe Panella e Massimo Sestili, 2008, I narratori, Altrimedia Edizioni, Matera)
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martedì 21 aprile 2009
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