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sabato 26 settembre 2009
Nino Rota: le musiche di un formidabile compositore di Maria Beatrice Protino
Nino Rota fu un artista assai precoce e senz’altro favorito dal fatto che nella sua casa si praticava la musica - nonno, padre e madre erano tutti musicisti: le sue prime composizioni risalgono a quando aveva otto anni. Il sodalizio con Fellini gli regalerà la notorietà, ma la sua capacità compositiva ha origini lontane e radicate, che lo proclamano “artigiano” della musica, un artigiano prolifico di undici opere, concerti, musica per orchestra e da camera, balletti e sonate, opere liriche, musica religiosa e teatro musicale. Già a undici anni Rota compone “L’infanzia di San Giovanni Battista”, un oratorio per soli, coro e orchestra: composizione che ebbe subito molto successo in Italia e in Francia. Negli anni successivi completa la sua prima opera lirica dal titolo “Il principe porcaro”, una fiaba musicale, e prosegue gli studi sino al diploma di magistero in Composizione all’Accademia di Santa Cecilia nel 1927. Fu grazie a Arturo Toscanini, amico di famiglia, che ottenne una borsa di studio presso il prestigioso Institute of Music di Philadelphia dove si trasferisce nel 1931 e incontra A. Copland - compositore statunitense di musica contemporanea con uno stile compositivo che risentiva dell’influenza della musica classica come del jazz e della componente folkloristica puramente americana – dal quale si lasciò senz’altro influenzare: inizia adesso la sua passione per la musica popolare e la sua dedizione alla teoria della musica per il cinema. Quando Rota torna in Italia nel 1933, dopo una poco felice esperienza come compositore per il cinema italiano, inizia a dedicarsi all’insegnamento e compone ancora ed è addirittura nella partitura per pianoforte “La Sinfonia sopra una canzone d’amore”, del 1947, che può ritrovarsi il richiamo per musiche di due film successivi: “La leggenda del monte di vetro” del 1949 e “Il Gattopardo” del 1962. Il primo vero contatto con Federico Fellini avviene per le musiche dello “Sceicco Bianco”: nacque così un sodalizio leggendario nella storia del cinema e non solo creativo, ma anche amicale che durò trent’anni. Rota collaborò anche con registi quali Visconti, Eduardo de Filippo, Monicelli, Soldati, Zeffirelli e con Francis Ford Coppola per “Il Padrino Parte II” ha conquistato il Premio Oscar. Ma soprattutto lo si ricorda come uomo sempre disponibile, molto colto e attento alla sensibilità umana.
lunedì 21 settembre 2009
Edward Hopper: inquadrature di tipo fotografico e studio della luce . Di Maria Beatrice Protino
Era capace di cogliere la bellezza nei soggetti più comuni e ancora oggi è possibile riconoscere quel taglio particolare con cui il pittore plasmava i paesaggi sterminati o le strade solitarie, le pompe di benzina o i binari della ferrovia della sua America. Tra le figure più originali dell’arte del Novecento, Edward Hopper – pittore statunitense nato a Nyack nel 1882 e morto a New York nel 1967 - è divenuto popolare in tutto il mondo per la sua pittura austera, insensibile alla modernità che pure le avanguardie europee di inizio secolo prospettavano.
Hopper aveva il gusto per una pittura ordinata, dal tratto nitido e lineare. Questa impostazione, che ad un primo esame poteva apparire accademica, in realtà era coniugata da un rapporto critico con le regole e veniva filtrata dalla sua forte sensibilità. Fin dagli esordi della sua carriera artistica, Hopper è interessato alla composizione figurativa urbana e architettonica in cui inserire un unico personaggio, solo e distaccato psicologicamente, come se vivesse in una dimensione isolata. Il suo genio artistico gli ha permesso di costruire una tavolozza coloristica del tutto originale e riconoscibile, un uso della luce teatrale - grazie anche allo studio degli impressionisti e in particolare di Degas – che poi faceva sposare con inquadrature di tipo fotografico.
Le sue opere sono dominate da un senso di attesa, dal silenzio, forse anche dalla malinconia e dalla noia o dall’inquietudine: infinite le possibili interpretazioni, stando l’impenetrabilità dei suoi personaggi - semplice gente comune accampata in scene che sembrano fotogrammi scelti a caso.
Quella che può sembrare una pittura realista, in realtà nasconde una componente di forte complessità, frutto di una sintesi di più immagini, colte in tempi e luoghi diversi e poi lì riportate così come la mente dell’artista era capace di trattenerle e rivederle nella sua memoria, senza dettagli rilevanti se non quelli che effettivamente risultavano necessari, urgenti.
Nascono, così, composizioni che sembrano effettive sceneggiature dipinte, storie raccontate in un fotogramma in cui Hopper ha voluto bloccare i protagonisti, come subito prima o subito dopo qualche evento importante.
Non stupisce, quindi, che le sue opere abbiano influenzato registi del calibro di Hitchock e dei fratelli Coen, di Ridley Scott e di Dario Argento.
sabato 19 settembre 2009
Millennium Trilogy di Stieg Larsson: un boom planetario e inatteso. Di Maria Beatrice Protino
Si tratta della trilogia di romanzi polizieschi dello scrittore e giornalista svedese Stieg Larsson pubblicati postumi, dopo la prematura scomparsa dell'autore appena cinquantenne nel 2004 e apparsi per la prima volta in Svezia tra il 2005 e il 2007. I tre romanzi hanno venduto dieci milioni di copie nei cinque continenti e decine di traduzioni. Ma centinaia sono i fan club e sempre affollati i blog dedicati. Le vicende narrate nei romanzi della trilogia vertono principalmente intorno alle inchieste direttamente o indirettamente svolte dai redattori e dai collaboratori della rivista Millennium, un mensile specializzato in inchieste su grandi scandali sociali ed economici. I romanzi che la compongono sono: uomini che odiano le donne, la ragazza che giocava con il fuoco e la regina dei castelli di carta. Grande l’attesa per i films, sempre ispirati alle avventure di M. Blomqvist, il giornalista paladino della lotta alla corruzione e dell’impegno politico-sociale e L. Salander, la poco socievole e imprevedibile hacker. Sfondo della trilofia è Stoccolma, il suo arcipelago e gli estesi boschi e campagne che la circondano e in particolare il quartiere di Sodermalm, quartiere edificato su una delle 14 isole che costituiscono la città. La diffusione planetaria della Millennium-mania ha fatto di Sodermalm la meta di un pellegrinaggio letterario, al punto che il Museo della Città di Stoccolma ha ideato e pubblicato una mappa e un itinerario con guida. È guerra per i diritti d’autore sull’opera di Larsson tra il padre e il figlio dello scrittore e Eva Gabrielsson, compagna di vita e di tante battaglie politico-sociali dello stesso. I due si erano conosciuti ad un raduno contro la guerra in Vietnam nel 1972, ma non si erano mai sposati. Stieg Larsson - considerato uno dei massimi esperti mondiali di movimenti antidemocratici e neonazisti - era il fondatore della rivista anti-razzista “Expo”, consulente di Scotland Yard e corrispondente dal Regno Unito, consulente del ministero di Giustizia, inviato per l'OSCE, esperto di informatica, di armi e di spionaggio internazionale, eppure costretto a vivere sotto scorta da quando indagava e scriveva su una serie di omicidi accaduti nella sua Svezia. Come racconta la sua compagna, il suo sogno era continuare a finanziare la sua rivista e fondare un centro di accoglienza per le donne maltrattate, ma lo stress, le troppe sigarette e il troppo caffè glielo hanno impedito.
domenica 23 agosto 2009
Alexander Calder: la scultura diventa gesto. Di Maria Beatrice Protino
Il suo lavoro è concettuale e allo stesso tempo intriso di poesia e giocosità.
Era un omone dall’aria burbera, ma dall’animo di un bambino. Si scopre subito il suo spirito ludico assistendo ai due filmati sul Circo Calder che dal 18 marzo al 20 luglio scorsi ha aperto la mostra “Les années parisiennes, 1926-1933” al Centro George Pompidou, a Parigi, dove si è voluto compiere un’esposizione dedicata allo scultore statunitense più influente del ventesimo secolo.
Famoso per l'invenzione di grandi sculture di arte cinetica - chiamata appunto i mobiles – si dedicò anche alla pittura, alle litografie e alla progettazione di giocattoli.
Quando arriva nella capitale francese è il 1926 e C. ha 27 anni: è già un giovane pittore e illustratore satirico formatosi nelle scuole di Philadelphia e New York carico dell’iconografia del nuovo mondo, fatta di pellerossa, cavalli e treni a vapore. A Parigi, attraverso una ricerca estetica che lo vedrà in contatto con i protagonisti delle avanguardie del ‘900 – da Picasso a Mirò, da Man Ray a Mondrian - inventerà il drawing in space, un’audace declinazione della scultura moderna, disegnata nello spazio da linee di forza in grado di rappresentare oggetti verosimili e figure astratte, che lo renderà uno dei più grandi scultori del 1900.
I mobiles degli anni '30 sono il risultato logico di una ricerca imperniata su segno e movimento, forse riferibili a una ricerca dell’artista di tipo costruttivista.
Calder compie nei confronti del materiale industriale un’impresa di détournement di matrice situazionista – per cui si opera uno straniamento che modifica il modo di vedere oggetti comunemente conosciuti, strappandoli dal loro contesto abituale e inserendoli in una nuova e inconsueta relazione per avviare un processo di riflessione critica: si pensi ad esempio al collage e al montaggio.
Creerà, così – dopo il passaggio attraverso l’astrazione geometrica, le sfere e le ellissi, e poi le forme biomorfe e organiche - i grandi stabiles, le monumentali opere fisse in metallo verniciato destinate al paesaggio urbano che oggi possono essere ammirati in molti parchi francesi e non solo – si pensi al Teodelapio in acciaio verniciato realizzato per Spoleto nel 1962.
Animali di piccola taglia di metallo piegato, una rivista di sue illustrazioni, giocattoli colorati, i mobiles circensi, i cavalli e i leoni, gli acrobati: i primi lavori di Calder offrono una chiave di lettura per la sua arte, l'arte di un ispirato DIYer, l’arte del fai-da-te, di un mago che con materiali di base, spesso riciclati, e meccanismi primitivi – in pratica oggetti tenuti insieme da fili - crea scultura.
Si passa poi ai personaggi quotidiani ispirati dalla stampa, dallo sport, dal mondo dello spettacolo, ma riprodotti sempre con umorismo caricaturale.
Ed è proprio nel Circo che si riassume tutto l’universo di C.: luogo dove il movimento diventa performance, la scultura gesto, l’infanzia coscienza collettiva.
mercoledì 19 agosto 2009
Le crew graffitare di Beirut lanciano messaggi di pace di Maria Beatrice Protino
In Libano c’è un singolare accordo: non si racconta la storia degli ultimi trent’anni.
Saro A., in arte Oras, ha 29 anni, fa il graphic designer e vive a Beirut, in Libano.
Nel 2006 inizia a dipingere sui muri della sua città, subito dopo lo scoppio dell’ennesima guerra tra Libano e Israele.
Come rilascia in un’intervista pubblicata su Ventiquattro del maggio scorso: «Beirut era sotto i bombardamenti e non era consigliabile uscire di casa. Non c’era da fare granché e abbiamo iniziato a scrivere sui muri a Karantina», il luogo di una delle peggiori stragi avvenute durante la lunga guerra civile degli anni settanta a opera della Falange cristiana. Eppure, loro, i graffitari, non scrivono niente di politico, niente che possa ricondurre la memoria a quella strage: del resto Saro non ha alcun ricordo di Karantina perché a scuola non si studia neanche la storia recente, per non rimettere in discussione i già precari equilibri libanesi.
I muri di Beirut, di Tripoli, di Sidone non possono essere usati per attaccare i concorrenti politici, ma solo per scrivere messaggi sociali, pacifici, costruttivi.
Le scritte sono coloratissime e spesso in inglese, altrimenti in arabo o in armeno e recitano: “Orsù, libanesi, svegliatevi!” o “Un solo Libano”, mentre le donne writer preferiscono i disegni e i graffitari più duri – quelli che fanno rap e graffiti insieme - usano le bombolette oro e argento, e poi, gli ultimi arrivati, i ragazzini di 13-14 anni, imbrattano i graffiti dei più grandi già presenti, in barba al principio dell’intoccabilità dell’opera di altri.
Il fenomeno della graffiti art è un fenomeno recente, anche se in linea con quello che già accadeva da anni sulla scena musicale rap. Naturalmente, dietro ai graffiti e alla scena hip hop c’è sempre la spinta verso la cultura underground e alternativa occidentale. D’altro canto, i graffiti hanno storia antica, se si pensa alle scuole calligrafiche arabe la cui eredità continua ad avere un ruolo importante nella cultura contemporanea: nelle terre del Levante sconquassate dalle guerre ha prodotto una precisa tendenza murale. Infatti, il graffito politico veniva usato già negli anni Ottanta, al tempo della prima intifada, quando i palestinesi usavano i muri di Gaza City e di Ramallah per scambiarsi parole d’ordine, appuntamenti, scioperi: erano i writers contro il potere, niente a che vedere con quelli libanesi.
Eppure, anche adesso e nonostante tutto, c’è qualcuno – come il saudita Saab B., anche lui graffitaro, ma sul web – che ritiene i murales di Karantina atti vandalici e contrari alla religione: a quanto pare tirare in ballo e agire in nome della cd. Religione è lo sport preferito ancora da molti – e purtroppo – nelle terre del sole Levante, anche quando sarebbe meglio non andare troppo per il sottile.
Saro A., in arte Oras, ha 29 anni, fa il graphic designer e vive a Beirut, in Libano.
Nel 2006 inizia a dipingere sui muri della sua città, subito dopo lo scoppio dell’ennesima guerra tra Libano e Israele.
Come rilascia in un’intervista pubblicata su Ventiquattro del maggio scorso: «Beirut era sotto i bombardamenti e non era consigliabile uscire di casa. Non c’era da fare granché e abbiamo iniziato a scrivere sui muri a Karantina», il luogo di una delle peggiori stragi avvenute durante la lunga guerra civile degli anni settanta a opera della Falange cristiana. Eppure, loro, i graffitari, non scrivono niente di politico, niente che possa ricondurre la memoria a quella strage: del resto Saro non ha alcun ricordo di Karantina perché a scuola non si studia neanche la storia recente, per non rimettere in discussione i già precari equilibri libanesi.
I muri di Beirut, di Tripoli, di Sidone non possono essere usati per attaccare i concorrenti politici, ma solo per scrivere messaggi sociali, pacifici, costruttivi.
Le scritte sono coloratissime e spesso in inglese, altrimenti in arabo o in armeno e recitano: “Orsù, libanesi, svegliatevi!” o “Un solo Libano”, mentre le donne writer preferiscono i disegni e i graffitari più duri – quelli che fanno rap e graffiti insieme - usano le bombolette oro e argento, e poi, gli ultimi arrivati, i ragazzini di 13-14 anni, imbrattano i graffiti dei più grandi già presenti, in barba al principio dell’intoccabilità dell’opera di altri.
Il fenomeno della graffiti art è un fenomeno recente, anche se in linea con quello che già accadeva da anni sulla scena musicale rap. Naturalmente, dietro ai graffiti e alla scena hip hop c’è sempre la spinta verso la cultura underground e alternativa occidentale. D’altro canto, i graffiti hanno storia antica, se si pensa alle scuole calligrafiche arabe la cui eredità continua ad avere un ruolo importante nella cultura contemporanea: nelle terre del Levante sconquassate dalle guerre ha prodotto una precisa tendenza murale. Infatti, il graffito politico veniva usato già negli anni Ottanta, al tempo della prima intifada, quando i palestinesi usavano i muri di Gaza City e di Ramallah per scambiarsi parole d’ordine, appuntamenti, scioperi: erano i writers contro il potere, niente a che vedere con quelli libanesi.
Eppure, anche adesso e nonostante tutto, c’è qualcuno – come il saudita Saab B., anche lui graffitaro, ma sul web – che ritiene i murales di Karantina atti vandalici e contrari alla religione: a quanto pare tirare in ballo e agire in nome della cd. Religione è lo sport preferito ancora da molti – e purtroppo – nelle terre del sole Levante, anche quando sarebbe meglio non andare troppo per il sottile.
sabato 25 aprile 2009
Caos e bellezza di Omar Calbrese. Recensione a cura di Maria Beatrice Protino
«La bellezza di oggi nasce dal caos, un caos che è complessità di linguaggi e di forze in gioco», scrive il professor Omar Calabrese nel suo saggio Caos e bellezza per i tipi di Domus Academy. Immagini del neobarocco, saggio volto a cogliere nelle arti visive per prime quell’unica tendenza stilistica che lui individua nel Neobarocco.
Il Neobarocco, scrive il professore, non è un movimento artistico o una tendenza, ma è lo spirito stesso dell’epoca che viviamo, è un fenomeno culturale, un atteggiamento, uno spirito al quale, com’è ovvio, non solo la letteratura, i mass-media, il cinema, ma anche le arti visive - e nel saggio si riconducono al Neobarocco diversi artisti contemporanei, dei quali vengono analizzate le opere - si adeguano, anzi ne occupano un ruolo particolarmente significativo: «Nella loro sfera convivono oggetti recuperati dalle discariche, pittura densa di citazioni e graffiti, progetto e improvvisazione: la bellezza nasce dal caos».
L’operazione terminologica vuole il concetto di “barocco” come contrapposto a quello di “classico”, dove per «classico s’intende far riferimento a categorizzazioni di giudizi fortemente orientati alla stabilità e all’ordine, mentre per barocco categorizzazioni di giudizi che eccitano l’ordinamento nel senso della sua destabilizzazione, sottoponendolo a turbolenza».
Calabrese, dunque, individua i principi del Neobarocco nel Ritmo e nella Ripetizione – si pensi all’estetica della ripetizione, appunto, fondata sugli elementi della variazione organizzata, dell’irregolarità regolata, del ritmo velocissimo - o nell’Eccesso – quella tensione, questa volta centrifuga, al limite: quella messa in discussione di una qualche regola che tende a destabilizzare il sistema -, nel Pressappoco e Non so che – il fascino dell’approssimazione, quanto nelle scienze tanto nelle filosofie -, nel Nodo e Labirinto, nella Distorsione e Perversione, nella cura del Dettaglio e del Frammento.
«Nella storia del pensiero filosofico il binomio disordine-caos è stato sempre considerato in senso negativo, come sinonimo, cioè, di irrazionale, casuale, irrisolvibile. Oggi, invece, il caos è semplicemente visto come un insieme di fenomeni altamente complessi, ma di cui si può arrivare a descrivere il funzionamento. Ovvero: l’ordine del disordine». Ed ancora: «Esiste un disordine oggettivo, che è disordine degli oggetti rappresentati, come si trattasse di una magia naturale; un d. soggettivo, cioè un d. della rappresentazione che è sfida alle leggi naturali; un d. cd. patemico, provocato dal rapporto tra opera e fruizione, che sarà poi la cultura a stabilizzare in un abbinamento tra oggetti rappresentati».
Non più, dunque, il caos come spiegato nella mitologia greca antica quale origine dell’universo, ma un totale cambiamento di gusto finalmente, per cui i fenomeni caotici sono considerati esteticamente belli.
special tank to Luciano Pagano
Il Neobarocco, scrive il professore, non è un movimento artistico o una tendenza, ma è lo spirito stesso dell’epoca che viviamo, è un fenomeno culturale, un atteggiamento, uno spirito al quale, com’è ovvio, non solo la letteratura, i mass-media, il cinema, ma anche le arti visive - e nel saggio si riconducono al Neobarocco diversi artisti contemporanei, dei quali vengono analizzate le opere - si adeguano, anzi ne occupano un ruolo particolarmente significativo: «Nella loro sfera convivono oggetti recuperati dalle discariche, pittura densa di citazioni e graffiti, progetto e improvvisazione: la bellezza nasce dal caos».
L’operazione terminologica vuole il concetto di “barocco” come contrapposto a quello di “classico”, dove per «classico s’intende far riferimento a categorizzazioni di giudizi fortemente orientati alla stabilità e all’ordine, mentre per barocco categorizzazioni di giudizi che eccitano l’ordinamento nel senso della sua destabilizzazione, sottoponendolo a turbolenza».
Calabrese, dunque, individua i principi del Neobarocco nel Ritmo e nella Ripetizione – si pensi all’estetica della ripetizione, appunto, fondata sugli elementi della variazione organizzata, dell’irregolarità regolata, del ritmo velocissimo - o nell’Eccesso – quella tensione, questa volta centrifuga, al limite: quella messa in discussione di una qualche regola che tende a destabilizzare il sistema -, nel Pressappoco e Non so che – il fascino dell’approssimazione, quanto nelle scienze tanto nelle filosofie -, nel Nodo e Labirinto, nella Distorsione e Perversione, nella cura del Dettaglio e del Frammento.
«Nella storia del pensiero filosofico il binomio disordine-caos è stato sempre considerato in senso negativo, come sinonimo, cioè, di irrazionale, casuale, irrisolvibile. Oggi, invece, il caos è semplicemente visto come un insieme di fenomeni altamente complessi, ma di cui si può arrivare a descrivere il funzionamento. Ovvero: l’ordine del disordine». Ed ancora: «Esiste un disordine oggettivo, che è disordine degli oggetti rappresentati, come si trattasse di una magia naturale; un d. soggettivo, cioè un d. della rappresentazione che è sfida alle leggi naturali; un d. cd. patemico, provocato dal rapporto tra opera e fruizione, che sarà poi la cultura a stabilizzare in un abbinamento tra oggetti rappresentati».
Non più, dunque, il caos come spiegato nella mitologia greca antica quale origine dell’universo, ma un totale cambiamento di gusto finalmente, per cui i fenomeni caotici sono considerati esteticamente belli.
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