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mercoledì 30 settembre 2009
Intervista a Marco Candida a cura di Marco Montanaro. Oltre la mania per l'alfabeto
Intervistare Marco Candida è stata una gran faticaccia. Non sto a spiegare perché. Alla fine sono contento del risultato ottenuto. Molte delle difficoltà, credo, sono state causate dall’effetto che il suo primo romanzo, La mania per l’alfabeto (Sironi), ha avuto su di me. Un libro intenso, che mi ha prosciugato. Di Candida ho poi letto Il mostro della piscina (Intermezzi), che ha confermato il piacere che mi dà leggere questo mio coetaneo; e molto, di questo piacere, dipende dal fatto che Marco Candida non dà l’impressione di essere un mio coetaneo, quando scrive. Adesso MC è impegnato nel progetto Websitehorror, sempre con Intermezzi Editore.
M.M. - Il tuo primo romanzo, La mania per l’alfabeto, è un inno alla fantasia, almeno per quanto mi riguarda; ed è anche la storia del percorso che il protagonista compie per arrivare ad accettarsi, accettare il suo demone, per poi potersi donare al mondo, a chi, nel mondo, è disposto ad accettarlo. Ma è anche una narrazione che procede per frammenti, come se fosse possibile raccontarsi solo attraverso alcuni ‘pezzi’ di sé, ricomponendo un’identità a partire da diversi aspetti del proprio animo. Questo è ciò che ho trovato in questo libro.
M.C. - La mania per l’alfabeto è un meta romanzo che si compone di centocinquanta post-it. La frammentazione in post-it si propone di comunicare per l’appunto un’idea di frammentarietà che però è soltanto apparente. Infatti basta togliere la suddivisione in post-it e leggere i capitoli come semplici paragrafi per rendersi conto che tutto è unitario e direi fortemente tradizionale. A venticinque anni desideravo scrivere qualcosa che fosse il più possibile un messaggio per gli altri. A partire anche dalla struttura. L’apparente frammentarietà è esattamente una metafora della nostra vita che per quanto sembri tutta a pezzetti e striscioline, per quanto apparentemente sgangherata, e incoerente, rimane comunque la nostra vita, e ai nostri occhi la nostra vita rimane unitaria e sensata – e soprattutto non meno preziosa di altre. Quando avevo venticinque anni evidentemente questo tema doveva starmi molto a cuore se ci ho scritto sopra trecento pagine.
M.M. - A un certo punto Michele (il protagonista) afferma che l’unico modo per comprendere gli altri diventare gli altri; io credo che il riferimento principale sia alle possibilità che la scrittura offre di reinterpretarsi (liberarsi?); ma il concetto mi ha fatto pensare anche ad Internet, al fenomeno delle identità multiple (proteiformi, stando a Rifkin). Esagero?
M.C. - Non ci ho capito niente.
M.M. - Michele è convinto che scrivere possa servire ad “aggiustare la realtà”. Detto così può sembrare ingenuo: eppure nel libro diventa – sempre grazie ai meccanismi metanarrativi del post-it – una teoria molto credibile. Qual è il tuo rapporto con questo “aggiustare la realtà” come autore?
M.C. - Non capisco come i “meccanismi metanarrativi del post-it” rendano “credibile” (parole tue) l’”aggiustare la realtà” (semplificazione tua, sebbene l’espressione sia presente in un racconto del romanzo, e quindi l’espressione non sia attribuibile a Michele, ma al narratore del racconto di cui Michele è l’autore). Forse questo potresti chiarirlo tu a me. Ad ogni modo, il mio rapporto come autore con “l’aggiustare la realtà” è che alcune volte mi illudo che scrivere possa essere terapeutico. Il racconto dove è presente l’espressione “aggiustare la realtà” parla di un giovane scrittore a cui viene regalato un “foglio magico” dove qualsiasi cosa viene scritta “accade” nella realtà. Soltanto che quando il giovane scrittore si mette a scrivere si rende conto che non succede un bel niente, per il semplice motivo che le parole sono inadeguate a rappresentare le cose. Così noi pensiamo di parlare della realtà con la scrittura, ma invece quella se ne sta tranquilla e beata là fuori senza venire minimamente sfiorata, cambiata, “aggiustata”.
M. M. - Ti ho già detto che il tuo libro mi ha prima di tutto impressionato per la sua potenza, dopodiché mi ha bloccato; infine, tempo fa l’ho definito di “una certa potenza”, come a volerlo ridimensionare, come se avessi sviluppato una sorta di rifiuto per il tuo libro dopo esserne stato totalmente assorbito. Sono riuscito a ristabilire un certo equilibrio rileggendo la recensione che scrissi per un sito. Hai idea del perché La mania per l’alfabeto scateni queste reazioni nel lettore (magari sono l’unico a cui è successo)?
M.C. - Oh, no. Ho ricevuto elogi e anche qualche critica. Credo che tu abbia descritto bene ciò che succede quando leggiamo un’opera che sta cercando di dirci qualcosa. Credo tra l’altro che la cosa fondamentale in un’opera sia il tipo di patto che si stipula con il lettore. Questo patto deve essere chiaro il più possibile. Ogni volta che il patto è chiaro, allora non sono più possibili equivoci. Voglio dire. Se scrivo un romanzo sciocco facendolo passare per un romanzo serio, allora sto tradendo il mio lettore. Il lettore si sentirà disorientato e perplesso e alla fine nella migliore delle ipostesi se si tratta di un tipo umile e pacifico tirerà un sospiro dicendo “Vabbé, sarò io che non capisco…”. Invece quando il patto è chiaro posso scrivere anche il romanzo più demenziale di questa terra ma starò facendo onestamente il mio lavoro e il lettore, se sta ai patti, non potrà non apprezzarlo. Lasciami generalizzare e dire che la maggior parte dei libri pseudo intellettuali che sono nelle librerie sono quelli che non tengono conto di questo elemento fondamentale che è il patto con il lettore o che semplicemente sono incapaci di stabilirne uno reale o che addirittura credono di poterlo tradire – perché tanto gli autori di questi libri hanno editori pronti a pubblicare anche le macchie d’inchiostro della loro stilografica. Facciano quello che gli pare, naturalmente, però se poi la letteratura collassa e non la legge più nessuno magari non si incolpi altri che noi stessi. Parlo eminentemente della letteratura italiana che è quella sempre in emergenza e moribonda da decenni.
M. M. - Cosa c’è dietro il rigore formale a cui si sottopone Michele? Intendo l’abolizione degli aggettivi, degli avverbi, l’uso degli // per contraddistinguere espressioni abusate e luoghi comuni (mi è capitato per un po’ di tempo, mentre parlavo, di immaginare le mie parole delimitate appunto dagli //). E’ certamente ossessione, ma è un’ossessione… può esistere un’ossessione positiva?
La risposta è contenuta nella domanda. Dietro al rigore formale di Michele c’è una ossessione. Talvolta essere ossessivi può portare a risultati che si giudicano positivi. Quindi questa ossessione può risultare positiva: può essere un’ossessione necessaria. Però, purtroppo, non esistono formule magiche e risposte definitive – specialmente quando si scrive. Esistono metodi – uno stile è un metodo. Questi metodi possono essere efficaci.
M. M. - «La felicità è scegliere la propria dipendenza», questo sei tu. «Ciò da cui siamo dipendenti possiamo chiamarlo Dio», questo è Wittgenstein. Hai altro da aggiungere?
M. C. - Per me la felicità è l’eudaimonia ossia un buon demone che si impadronisce di noi, ci accompagna e che come ogni demone ci mangia pezzo dopo pezzo.
M. M. - Nel romanzo citi Rushdie, per cui i racconti sono i fantasmi dei racconti che avrebbero potuto essere. L’argentino Fresàn, invece, dice più o meno lo stesso a proposito dello stile: uno stile è il fantasma di tutti gli stili che un autore avrebbe potuto avere. A leggerti, sembrerebbe che hai pochi fantasmi.
M. C. - La mania per l’alfabeto parla di un ragazzo di venticinque anni che è ossessionato da un “fantasma” che è il libro che vuole scrivere. Pensa che scrivendo questo libro, riuscendo a fare qualcosa che gli dimostri il suo valore nel mondo, la sua vita tutta pezzetti e striscioline si ricomporrà e il fantasma cesserà di tormentarlo. Mentre scrivevo il romanzo mi trovavo più o meno nella stessa situazione del protagonista. Non dico fossi proprio lui. Che il personaggio fosse il suo autore. Invece era più come essere due compagni imbarcati nella stessa impresa. Francamente non so che cosa ne sia stato di lui perché nel romanzo non si dà notizia se poi questo libro lui sia riuscito a scriverlo e a pubblicarlo e nemmeno nel terzo romanzo Domani avrò trent’anni dove quello stesso personaggio ricompare per qualche pagina si danno notizie in questo senso. Ad ogni modo, che lui ce l’abbia fatta o no, quel che conta è che io ce l’ho fatta. Il libro l’ho scritto e pubblicato. Almeno io il mio fantasma l’ho sconfitto. Ah, Marco, spero di averti risposto, perché non so se ho capito la domanda.
M. M. - Leggendo Il mostro della piscina, insieme ai vari post-it inseriti nel tuo primo romanzo, è chiaro che hai frequentato molti generi, tra cui l’horror o il thriller. Da quanto covavi l’idea di un sito come Websitehorror?
M. C. - L’idea del sito si trova formulata per la prima volta nel mio terzo romanzo Domani avrò trent’anni, Eumeswil Edizioni. Il mostro della piscina è un racconto che ho scritto a diciannove anni e di cui parla già (ne offre un riassunto, per così dire) il protagonista del mio primo romanzo La mania per l’alfabeto.
M. M. - Ho letto che non hai autori di riferimento. Non ci credo, di certo però non saprei isolare singoli autori che hanno influenzato la tua scrittura – che è soprattutto limpida, trasparente, leggerti è immergersi in una storia, a patto di credere a ciò che racconti, e non pensare ad altro.
M. C. - Sì, è così. Non ho autori di riferimento. Adesso ad esempio sono felicemente assorbito dal progetto del Websitehorror. Scrivere racconti dell’orrore è stato per me come la possibilità di ritagliarmi un hobby continuando a fare la cosa che amo di più che è scrivere – come prendersi un pausa dal proprio lavoro continuando a fare il proprio lavoro. Ho la possibilità di lasciarmi andare e di produrre una scrittura dozzinale, non lavorata, che non parte da presupposti etici sfociando in un’estetica precisa. Scrivo un racconto horror al giorno. E’ un lavoro di puro artigianato e mi piace. E’ anche un’ottima occasione per mettere a frutto tutte le acquisizioni tecniche sulla scrittura che si sono depositate in me negli anni. Se ho bisogno di rappresentare un certo personaggio in una certa situazione prendo a prestito un certo stile di scrittura. Il punto dove voglio arrivare è che uno stile di scrittura io l’ho imparato leggendo gli altri autori – e poi esercitandomi molto dai dodici ai quindici-sedici anni. Perciò in questo momento ho moltissimi autori di riferimento, tutti quelli che mi sono necessari per arrivare ai miei scopi che è in questo caso solamente raccontare una storia ben congeniata. Scrivere racconti horror è un buon ripasso. Mi diverto un mondo.
M. M. - Sei stato in America per un po’ di tempo. Per me l’America è un luogo mentale, creato attraversato libri o musica o alcuni scorci della campagna pugliese che sembra un angolo di Montana. Cosa ti resta, come sensazioni, di quel Paese? E’ stato attraverso il tuo reportage su Nazione Indiana che ti ho conosciuto, del resto.
M. C. - Tornerò negli Stati Uniti molto presto. La sensazione che per ora mi è rimasta è che gli americani siano un grande popolo.
Fonte: http://malesangue.wordpress.com/
Su concessione dell’autore Marco Montanaro
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