Dal mondo di Passignaro
Salentino al mondo della disco e dei flash che ammazzano. Teresa, sorella
minore, cubista nei locali notturni quando non bada a un anziano professore. E
la maggiore Ester, bodybuilder e personaggio chiacchierato degli ambienti
romani. Da Passignaro allo scandalo. Sono le protagoniste, compreso lo
scandalo, del romanzo dello spericolato Nino G. D’Attis. La solitudine di due
sorelle, che avranno destino ovviamente diverso. A forza d'estremo
disorientamento nelle cose del mondo. Mentre i flussi di coscienza di Teresa
fanno il racconto della sconfitta. Il racconto della minore delle "Sorelle
Ficainfiamme". Per l'altra disperazione, questa volta del povero padre
Pietro; papà che per difendere l'onorabilità delle due figlie diede un
biglietto d'ingresso al pronto soccorso del paesello al presentatore di grido
Dubini. Tutto messo su you tube. Alla comoda cifra di 68.634.369
visualizzazioni. In realtà Teresa Malina, a differenza della sorella Ester,
passata tra gossippate ecc., è protagonista positivo della storia. Ovvero
l'unica figura, nemmanco la madre..., prova fermamente a contrastare la
"decadenza" del presente. Dove, comunque, la sua famiglia squazza.
Fino alla morte, per dire, del poverà Pietro. Le figure più belle del romanzo,
comunque, sono la madre delle Ficainfiamme e il professore che,
nell'immaginazione di qualcuno ?, da consigli ed esperienza, chiaramente, a una
Teresa già cubista per sbarcare il lunario nella suo domicilio romano. Scattano
flash in continuazione. Ma, soprattutto, dalla penna vibrante di D'Attis
nascono situazioni che tra luccichio del moto e lettura della psciche formano
un effetto imperdibile.
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martedì 8 luglio 2014
venerdì 25 settembre 2009
Le declinazioni affettive" di Alfredo Annicchiarico (Lupo editore) oggi al Caffè Letterario di Lecce
“Lei guarda oltre il finestrino per innamorarsi dei colori della terra, convinta che chi si innamora continuamente non tradisce mai la propria giovinezza, esercitando il dolce e malinconico esercizio dell’eternità, origliando alla porta della fine dei giorni”.In una Genova piovosa, attorno al letto di Stefano, attore teatrale finito in overdose, si dipanano i pensieri e i dialoghi delle persone importanti della sua vita. Mentre lui emerge da quello che forse non è stato un incidente di percorso, altre esistenze combattono la propria battaglia con la solitudine, con la sconfitta e con il bisogno di amare. Una storia di oggi.
Il libro "Le declinazioni affettive" di Alfredo Annicchiarico (Lupo editore), verrà presentato oggi alle 21,00 da Angelo Petrelli al Caffè Letterario di via Paladini a Lecce
Il libro "Le declinazioni affettive" di Alfredo Annicchiarico (Lupo editore), verrà presentato oggi alle 21,00 da Angelo Petrelli al Caffè Letterario di via Paladini a Lecce
lunedì 21 settembre 2009
RASSEGNA D’AUTORI QUASI INTERESSANTI
CARI CORTIGIANI, dopo una più o meno fertile pausa di riflessione riapre ufficialmente le danze Cortenumero9 a Lecce associazione (già "Curte Noscia") dedita alla creatività e al buon vino.
L' IDENTITA' non è opera che si risolve in una stagione, RELAX è l'unica parola da portare nel taschino una volta valicato l'ingresso di CORTE ANGELO MIALI. Vi segnaliamo la nostra allucinata rassegna letteraria che parte da VENERDI 25 SETTEMBRE. Ecco il programma di RASSEGNA D’AUTORI QUASI INTERESSANTI 2009a cura di Angelo Petrelli e Gioia Perrone.
Venerdì 25 settembre – corte numero 9, ore 21.00. Serata “Amare et Bene Velle”. Le Declinazioni Affettive, lupo editore, romanzo di Alfredo Annicchiarico. Presenta Angelo Petrelli intervista all’editore Cosimo Lupo.
Venerdì 2 ottobre – corte numero 9, ore 21. Serata “Parvum Parva Decent”. Le vicende notevoli di don Fefè, nobile sciupafemmine e grandissimo figlio di mammaggiusta, e del suo fidato servitore Ciccillo, Libri di Icaro, raccolta di racconti di Giuse Alemanno.Presenta Angelo Petrelli.
Sabato 10 ottobre – corte numero 9, ore 21. Serata “Pro Domo Sua”. Il ritorno dell’Ofisauro, Libri di Icaro, raccolta poetica di Gioia Perrone. Presenta Angelo Petrelli, special guest Jack Palma.
venerdì 11 settembre 2009
ALTRI VERSI di Elio Ria (Lupo editore). Rec. di Angelo Petrelli
Pubblicato dall’editore di Copertino “Lupo”, “Altri versi” di Elio Ria è un’interessante raccolta poetica. Il libro si apre con questi versi: “le mani sudano speranza oltre la ragione, e / gli occhi pietrificano nella clausura del dubbio / nella stanza ovattata della memoria” (p. 5).
Partendo dalla “clausura del dubbio”, la poesia di Elio Ria percorre fino in fondo la strada dell'irrequietezza spirituale dell'uomo contemporaneo. Se possiamo definire questa una “poesia metafisica” e filosofeggiante, altrettanto semplice sarà comprenderne la motivazione più intima: attraverso l’invocazione e la preghiera, così come l’immaginario biblico propone con la figura del profeta Isaia (nel sogno di Isaia la preghiera è rappresentata da una scala tra terra e cielo) la realtà del vivere quotidiano diventa una continua ricerca di sé in senso morale, prerogativa tanto cara alla letteratura del secolo scorso e in aperta polemica con il nichilismo etico del mondo contemporaneo. Scrive Ria: “senz’anima in un cielo sciupato / incompleto e disadorno / arranco in controverse verità / Edulcoro la realtà / invento dogmi immateriali / disperdo nella follia il limite” (p. 12).
Oppure: “ho messo piede nel bosco / il cuore strozzato dall’angoscia / rendeva il cammino incerto / ho provato con le mie mani lunghe / ad accarezzare i rami muscolosi / degli alberi fieri ma sonnambuli / in quel mondo di quiete / io sulla barella dell’urgenza / rinsavito dal profumo pungente / ho ceduto il sonno per la vita” (p. 26). Ora, sul piano tecnico, i versi proposti da Elio Ria non possono definirsi di certo originali, ma dimostrano di possedere la sufficiente solidità stilistica per essere letti e apprezzanti. Elio Ria è nato a Tuglie (Le) nel 1958. Ha in precedenza pubblicato altri lavori, tra cui ricordiamo la raccolta poetica “La mia solitudine” (Kimerik, 2007).
powered by Nuovo Quotidiano di Puglia
Partendo dalla “clausura del dubbio”, la poesia di Elio Ria percorre fino in fondo la strada dell'irrequietezza spirituale dell'uomo contemporaneo. Se possiamo definire questa una “poesia metafisica” e filosofeggiante, altrettanto semplice sarà comprenderne la motivazione più intima: attraverso l’invocazione e la preghiera, così come l’immaginario biblico propone con la figura del profeta Isaia (nel sogno di Isaia la preghiera è rappresentata da una scala tra terra e cielo) la realtà del vivere quotidiano diventa una continua ricerca di sé in senso morale, prerogativa tanto cara alla letteratura del secolo scorso e in aperta polemica con il nichilismo etico del mondo contemporaneo. Scrive Ria: “senz’anima in un cielo sciupato / incompleto e disadorno / arranco in controverse verità / Edulcoro la realtà / invento dogmi immateriali / disperdo nella follia il limite” (p. 12).
Oppure: “ho messo piede nel bosco / il cuore strozzato dall’angoscia / rendeva il cammino incerto / ho provato con le mie mani lunghe / ad accarezzare i rami muscolosi / degli alberi fieri ma sonnambuli / in quel mondo di quiete / io sulla barella dell’urgenza / rinsavito dal profumo pungente / ho ceduto il sonno per la vita” (p. 26). Ora, sul piano tecnico, i versi proposti da Elio Ria non possono definirsi di certo originali, ma dimostrano di possedere la sufficiente solidità stilistica per essere letti e apprezzanti. Elio Ria è nato a Tuglie (Le) nel 1958. Ha in precedenza pubblicato altri lavori, tra cui ricordiamo la raccolta poetica “La mia solitudine” (Kimerik, 2007).
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domenica 30 agosto 2009
MARAVA’ PIEDI DI GOMMA di Gianni De Santis (Lupo Editore) domani a Torre dell'Orso
“… ma noi cosa potevamo sapere, se guardavamo in alto immaginando di raggiungere il cielo per liberare il volo sulle ali della nostra fantasia? Correvamo nei campi spiccando salti incredibili, felici sui nostri piedi di gomma e ad ogni salto lasciavamo indietro un pezzo del nostro tempo, catapultati verso la strada del nostro destino…”
Devono essere sicuramente di gomma i piedi dei primi astronauti sbarcati sulla Luna, per consentire loro la lievità degli angeli. È quello che credono due ragazzini legati fin dalla prima infanzia da un ferreo vincolo di amicizia e dal sogno condiviso di volare: verso il futuro, verso la vita. Ma la vita a volte separa e dal sud semplice e agreste in cui è nato Antonio si trova quasi sperduto nelle solitudini e nelle fatiche di una precoce emigrazione. Decine di lettere mantengono vivo il rapporto con Raffaele, l’amico lontano. Al paese c’è anche Maria ad attenderlo, col suo amore sfuggente e possessivo, con i suoi sogni incapaci di venire a patti con la realtà. Antonio, Raffaele, Maria segnano tutti di “volare”, ciascuno a modo suo, andando incontro ad un destino che tradisce la loro giovane esistenza. Il romanzo parla di questa preziosa scoperta, dimostrando come dalla prigionia del corpo possano spuntare ali per lo spirito e grata consapevolezza degli affetti da cui si sono ricevuti gioia e nutrimento. Una intensa storia umana, un inno alla vita e all’amicizia.
Interverranno il Sindaco di Melendugno Dott. Vittorio Potì, il consigliere regionale Ing. Aurelio Gianfreda, introduce Ass. alla cultura del Comune di Melendugno avv. Anna Elisa Prete. Dialogherà con l’autore Stefano Donno. Letture a cura di Annamaria Mangia
A termine della serata aperitivo sulle note musicali e i canti in griko di Gianni e Rocco De Santis
lunedì 31 agosto 2009, Pro Loco di Torre dell'Orso, v.le dei Pini, h.20.30
Devono essere sicuramente di gomma i piedi dei primi astronauti sbarcati sulla Luna, per consentire loro la lievità degli angeli. È quello che credono due ragazzini legati fin dalla prima infanzia da un ferreo vincolo di amicizia e dal sogno condiviso di volare: verso il futuro, verso la vita. Ma la vita a volte separa e dal sud semplice e agreste in cui è nato Antonio si trova quasi sperduto nelle solitudini e nelle fatiche di una precoce emigrazione. Decine di lettere mantengono vivo il rapporto con Raffaele, l’amico lontano. Al paese c’è anche Maria ad attenderlo, col suo amore sfuggente e possessivo, con i suoi sogni incapaci di venire a patti con la realtà. Antonio, Raffaele, Maria segnano tutti di “volare”, ciascuno a modo suo, andando incontro ad un destino che tradisce la loro giovane esistenza. Il romanzo parla di questa preziosa scoperta, dimostrando come dalla prigionia del corpo possano spuntare ali per lo spirito e grata consapevolezza degli affetti da cui si sono ricevuti gioia e nutrimento. Una intensa storia umana, un inno alla vita e all’amicizia.
Interverranno il Sindaco di Melendugno Dott. Vittorio Potì, il consigliere regionale Ing. Aurelio Gianfreda, introduce Ass. alla cultura del Comune di Melendugno avv. Anna Elisa Prete. Dialogherà con l’autore Stefano Donno. Letture a cura di Annamaria Mangia
A termine della serata aperitivo sulle note musicali e i canti in griko di Gianni e Rocco De Santis
lunedì 31 agosto 2009, Pro Loco di Torre dell'Orso, v.le dei Pini, h.20.30
venerdì 28 agosto 2009
Keep YourSelf Alive di Massimiliano Città (Lupo editore) domani ai Sotterranei Arci
È il racconto della ‘strada’ di Enzo, figlio di tranquilla famiglia siciliana tradizionale, che tronca la sua giovinezza e taglia i ponti con il paesino d’origine per inseguire un sogno di trasgressione. Infatuato di Daniela, conosciuta durante l’estate dei suoi diciannove anni, che lo ha iniziato alla cocaina, il protagonista sale sul primo treno per Milano per raggiungerla. Privo di punti di riferimento, nonostante l’incontro con un prete che lo riconosce subito come sbandato, e nonostante il generoso slancio del napoletano Damiano, non sa cogliere le opportunità che gli vengono offerte e prosegue il suo percorso verso un degrado senza ritorno. Conosce la miseria dei marciapiedi, le perversioni di un universo di tossici a cui si lega in modo indissolubile, l’illusorietà di un facile successo da Dj che lo immerge per un certo periodo in un delirio di onnipotenza, schiavo della droga e disperatamente perduto alla società “normale”. A sei anni di distanza dal primo incontro ritrova Daniela, per assistere alla sua tragica fine; e dalla totale solitudine lo salva solo l’affettuosa presenza di una volontaria che lo assiste quando il suo fisico, debilitato dalla tossicodipendenza e aggredito dalla malattia, lo porta ad attendere la fine in un letto d’ospedale. Qui cerca faticosamente di scrivere di sé al fratello minore, per ricongiungersi in extremis, almeno idealmente, ad una famiglia la cui ‘voce’ significativa resta per lui quella del vecchio Gino, figura chiave del suo ricordo e dei suoi affetti, dopo la cui morte è stato solo il silenzio. È una storia “forte”, provocatoria, scritta in una prosa densa e coinvolgente che si destreggia tra memoria vicina e lontana, tra ambienti, personaggi e situazioni diversi che si richiamano l’un l’altro per associazione di pensiero o per analogie. La tecnica di scrittura è priva di sbavature ed ottiene un effetto-verità; i personaggi sono tratteggiati efficacemente anche con poche battute e/o gesti.
Keep YourSelf Alive di Massimiliano Città (Lupo editore), verrà presentato a I SOTTERRANEI , Centro Storico, via delle Grazie a Copertino, domani 29 AGOSTO 2009 ORE 21,00. Presenta ANNA CORDELLA, dialoga con l’autore RAFFAELLA DE DONATO. Reading a cura di VIVIANA INGROSSO, soundtrack live MASSIMILIANO CITTA’. Aperitivo e degustazione vino offerto dalla casa editrice a cura di FABRIZIO CHETRI e CHIARA CORDELLA( associazione GUSTAPULIA)
Keep YourSelf Alive di Massimiliano Città (Lupo editore), verrà presentato a I SOTTERRANEI , Centro Storico, via delle Grazie a Copertino, domani 29 AGOSTO 2009 ORE 21,00. Presenta ANNA CORDELLA, dialoga con l’autore RAFFAELLA DE DONATO. Reading a cura di VIVIANA INGROSSO, soundtrack live MASSIMILIANO CITTA’. Aperitivo e degustazione vino offerto dalla casa editrice a cura di FABRIZIO CHETRI e CHIARA CORDELLA( associazione GUSTAPULIA)
sabato 22 agosto 2009
Come fanno le serpi a primavera di Patrizia Ricciardi (Lupo editore)
Noi camminiamo al vento, gli occhi storti, soli di fatto e aspri nel respiro.
Nell’essenzialità espressiva di questa raccolta, la poesia appare come suprema dignità del dolore e della solitudine, come cifra di verità difficili e trasfigurazione del quotidiano.
C’è qualcosa di eversivo nelle poesie di Patrizia Ricciardi, un fermento sotterraneo che percorre il linguaggio di ogni giorno che si fa allegoria e percorso.
Cosa ci legherà di più di un mezzo
amore?
Un mezzo amore basta
per viversi oltre
per guardare il nulla
per trovarsi nel diniego
per lasciarsi,
questo è il meno
Nell’essenzialità espressiva di questa raccolta, la poesia appare come suprema dignità del dolore e della solitudine, come cifra di verità difficili e trasfigurazione del quotidiano.
C’è qualcosa di eversivo nelle poesie di Patrizia Ricciardi, un fermento sotterraneo che percorre il linguaggio di ogni giorno che si fa allegoria e percorso.
Cosa ci legherà di più di un mezzo
amore?
Un mezzo amore basta
per viversi oltre
per guardare il nulla
per trovarsi nel diniego
per lasciarsi,
questo è il meno
venerdì 21 agosto 2009
Robin Hood punto Net di Simona Ruffini (ed. Lupo). Una favola ai tempi della rete secondo Silla Hicks
Non ho mai creduto alle favole. Né io né mia sorella ci abbiamo mai creduto: non ne abbiamo avuto il tempo con tutto il casino che ci ha afferrato da piccoli e ci ha raccontato la vita prima che potessimo capirlo e scegliere se amarla o no.
E anche adesso preferisco il neorealismo e la crudezza del neon alle commedie romantiche e alle luci soffuse, e se penso a una storia d’amore penso a una tragedia, immensa e spietata, una lettera scritta col sangue … amare è un gioco di morte, non una passeggiata tra i fiori.
O almeno, è così che è se è amore, perché le coincidenze capitano di rado e quasi mai ci si incontra e ci si riconosce nello stesso istante, quando basterebbe stendere la mano e prima che altri corpi e altre storie ci vincolino, o dopo che sono svaniti via: quasi sempre, i tempi non coincidono, come per un uomo ed una donna a letto, siamo geneticamente condannati a rincorrerci e a smarrirci, e Marquez Gabriel Garcìa, vecchio saggio visionario ha ragione, ci vuole una vita per ritrovarsi, e ne vale la pena anche … ma frattanto è l’inferno, e un inferno che ci intrappola quasi sempre soli.
È la premessa che devo fare, prima di parlare di questo libro (Robin Hood punto Net di Simona Ruffini, Lupo editore), che è una favola, appunto, e che come tale non m’appartiene, e non poteva entusiasmarmi né commuovermi, perché non l’ho mai visto un film con Meg Ryan, io.
E avrei pensato persino fosse per bambini, visti i caratteri grossi e tondi con cui è stampato, se non ci avessi scovato dentro - a tradimento - citazioni densamente adulte, prima tra tutte quella November Rain dei Guns’n Roses che Giuseppe canta nel suo inglese storpio ogni volta che il pensiero di lei gli folgora il cervello, come ho imparato a intuire avendolo da una vita amico, e che anche per questo mi conquista e commuove, come nessun lieto fine sa fare.
Perché, superato l’impatto iniziale, questa storia che pare costruita di mattoncini Lego tanto è semplice e semplificata invece si rivela non esserlo per niente, come un quadro naif, in cui le pennellate ingenue sono frutto di elaborato studio, e per capirlo guardate da vicino la tigre di Ligabue.
Più che raccontino, è destrutturazione consapevole, e più che una favola appare essere un tool, uno strumento, nel senso di modello costruito eliminando le variabili inutili rispetto alla teoria che si vuol dimostrare per consentirne uno studio che punti dritto al senso.
Pur con tutti i limiti che questo processo di alleggerimento comporta, e che finiscono per condizionarne la voce, non si può non riconoscere a questo libro un registro autonomo, e non intravederne dietro tutto un percorso che è ricerca, e come tale entusiasmante, in una classe che in genere copia, e anche male.
Perché personalmente è questo che mi resta, quando leggo una riga o mille pagine, l’impronta: il resto, il contenuto, può starmi vicino oppure no, e spesso è no, quasi sempre, anzi, ma ammetto che non si può raccontare il mondo solo attraverso Roth, Palahniuk e Kureishi, guardarlo solo come io lo guardo, perché ognuno ha i suoi occhi di colore diverso, che vedono diverse cose uguali.
E di sicuro questa ragazza che dal risvolto di copertina sorride con la faccia da liceale anche se ha la mia età non ha il mio stesso sguardo, ma ha le palle di cercarsene uno suo, e pazienza se indulge nel buonismo – Omar lo zingaro/principe azzurro, giusto per citarne una – e tenta l’impresa disperata di una polaroid del nostro tempo finendo per tagliare troppe teste fuori dall’inquadratura.
Perché trattare – tutto insieme - d’immigrazione, precariato, licenziamenti, nuovi poveri, traffico d’organi e così via può riuscire nello spazio di un film solo se si è Ken Loach, e nemmeno sempre: pretendere di farlo in forma di tavoletta lieve, poi, è impossibile, ci vorrebbe lo sguardo disperato del Fellini migliore – quello di Zampanò – per almeno provarci.
Ma se non si vuole guardare ad occhi spalancati la tragedia nascosta dietro la maschera, bhè, allora non credo sia possibile. Non credo. Ma sto qui, e aspetto di leggere quello che la ragazza di cui sopra deciderà di scrivere, ancora. Non è detto che ci riprovi, tantomeno che ci riesca, è chiaro, ma questa volta ha tentato, ed è un miracolo, in questi giorni densi di parole ripetute, originali quanto temi di maturità estratti dalla cartucciera, che affollano scaffali e librerie e discorsi. Non concordo su quello che scrive, né su come lo fa, lo dico e lo ripeto, ma non credo le importi, e le sono grato. Perché sono quelli come lei, che fanno esperimenti, che prima o poi vanno da qualche parte. E intendo: da qualche parte nuova.
E anche adesso preferisco il neorealismo e la crudezza del neon alle commedie romantiche e alle luci soffuse, e se penso a una storia d’amore penso a una tragedia, immensa e spietata, una lettera scritta col sangue … amare è un gioco di morte, non una passeggiata tra i fiori.
O almeno, è così che è se è amore, perché le coincidenze capitano di rado e quasi mai ci si incontra e ci si riconosce nello stesso istante, quando basterebbe stendere la mano e prima che altri corpi e altre storie ci vincolino, o dopo che sono svaniti via: quasi sempre, i tempi non coincidono, come per un uomo ed una donna a letto, siamo geneticamente condannati a rincorrerci e a smarrirci, e Marquez Gabriel Garcìa, vecchio saggio visionario ha ragione, ci vuole una vita per ritrovarsi, e ne vale la pena anche … ma frattanto è l’inferno, e un inferno che ci intrappola quasi sempre soli.
È la premessa che devo fare, prima di parlare di questo libro (Robin Hood punto Net di Simona Ruffini, Lupo editore), che è una favola, appunto, e che come tale non m’appartiene, e non poteva entusiasmarmi né commuovermi, perché non l’ho mai visto un film con Meg Ryan, io.
E avrei pensato persino fosse per bambini, visti i caratteri grossi e tondi con cui è stampato, se non ci avessi scovato dentro - a tradimento - citazioni densamente adulte, prima tra tutte quella November Rain dei Guns’n Roses che Giuseppe canta nel suo inglese storpio ogni volta che il pensiero di lei gli folgora il cervello, come ho imparato a intuire avendolo da una vita amico, e che anche per questo mi conquista e commuove, come nessun lieto fine sa fare.
Perché, superato l’impatto iniziale, questa storia che pare costruita di mattoncini Lego tanto è semplice e semplificata invece si rivela non esserlo per niente, come un quadro naif, in cui le pennellate ingenue sono frutto di elaborato studio, e per capirlo guardate da vicino la tigre di Ligabue.
Più che raccontino, è destrutturazione consapevole, e più che una favola appare essere un tool, uno strumento, nel senso di modello costruito eliminando le variabili inutili rispetto alla teoria che si vuol dimostrare per consentirne uno studio che punti dritto al senso.
Pur con tutti i limiti che questo processo di alleggerimento comporta, e che finiscono per condizionarne la voce, non si può non riconoscere a questo libro un registro autonomo, e non intravederne dietro tutto un percorso che è ricerca, e come tale entusiasmante, in una classe che in genere copia, e anche male.
Perché personalmente è questo che mi resta, quando leggo una riga o mille pagine, l’impronta: il resto, il contenuto, può starmi vicino oppure no, e spesso è no, quasi sempre, anzi, ma ammetto che non si può raccontare il mondo solo attraverso Roth, Palahniuk e Kureishi, guardarlo solo come io lo guardo, perché ognuno ha i suoi occhi di colore diverso, che vedono diverse cose uguali.
E di sicuro questa ragazza che dal risvolto di copertina sorride con la faccia da liceale anche se ha la mia età non ha il mio stesso sguardo, ma ha le palle di cercarsene uno suo, e pazienza se indulge nel buonismo – Omar lo zingaro/principe azzurro, giusto per citarne una – e tenta l’impresa disperata di una polaroid del nostro tempo finendo per tagliare troppe teste fuori dall’inquadratura.
Perché trattare – tutto insieme - d’immigrazione, precariato, licenziamenti, nuovi poveri, traffico d’organi e così via può riuscire nello spazio di un film solo se si è Ken Loach, e nemmeno sempre: pretendere di farlo in forma di tavoletta lieve, poi, è impossibile, ci vorrebbe lo sguardo disperato del Fellini migliore – quello di Zampanò – per almeno provarci.
Ma se non si vuole guardare ad occhi spalancati la tragedia nascosta dietro la maschera, bhè, allora non credo sia possibile. Non credo. Ma sto qui, e aspetto di leggere quello che la ragazza di cui sopra deciderà di scrivere, ancora. Non è detto che ci riprovi, tantomeno che ci riesca, è chiaro, ma questa volta ha tentato, ed è un miracolo, in questi giorni densi di parole ripetute, originali quanto temi di maturità estratti dalla cartucciera, che affollano scaffali e librerie e discorsi. Non concordo su quello che scrive, né su come lo fa, lo dico e lo ripeto, ma non credo le importi, e le sono grato. Perché sono quelli come lei, che fanno esperimenti, che prima o poi vanno da qualche parte. E intendo: da qualche parte nuova.
mercoledì 12 agosto 2009
Visita di Stato di Alfredo Annicchiarico (Lupo editore). Rec. di Silla Hicks
Se mi ricordo di quant’era bella Alida Valli: certo che sì. E ho anche visto qualche film con Amedeo Nazzari, e Clara Calamai primo seno nudo del cinema italiano. Quello che non ho imparato a scuola – ben poco, tecniche di disegno a parte – l’ho imparato da seconde e terze e centesime visioni, con la tessera Dante Alighieri che con qualche spicciolo ti faceva entrare alle retrospettive, erano gli anni ’80 e non avevo il Moncler ma avevo visto De Sica e Rossellini, e un pomeriggio di sabato che davano Rashomon seduto accanto a me ho trovato Luca, che studiava al classico e voleva fare il regista, ma poi ha preso 60 e vinto un concorso in banca.
Adesso, almeno una volta al mese ceno a casa sua e di Gloria, e mentre i suoi figli fanno casino cerchiamo di parlare, davanti a un DVD di Kim Ki Duk, in genere, ma era Sciuscià il nostro film: il resto, Blade Runner compreso, m’ha intriso dopo.
Siamo una strana coppia, io e Luca, che non mi arriva alla spalla e ha 39 di scarpe eppure è solido come io – trenta centimetri almeno e 40 kg circa più di lui – non saprò mai essere.Gli devo molto, di quello che scriverò di questo libro. Perché è stato lui, a ricordarmeli, i telefoni bianchi, e a raccontarmi di Claretta e della sorella aspirante attrice, e dell’alcova del duce, e di tutta la propaganda sul suo vigore che ha curiosi parallelismi con quanto è sui giornali in questi giorni.
Ed è di questo che parla, questo giallo ambientato nel pieno dell’era littoria, alla vigilia di una visita del Führer che dovrebbe essere perfetta propaganda di regime e rischia invece di arrivare importuna, nel bel mezzo di un intricato groviglio di gerarchi, attricette, picchiatori, e ovviamente poliziotti ovviamente tenebrosi e tormentati (e chi non lo sarebbe, se avesse sposato la Sidney Bristow di Alias?). Una storia che ha di Camilleri, senza il sole che abbaglia di Montalbano e i suoi arancini, ma anche della Dalia Nera, e intendo il film con Hillary Oscar Swank elegantissima in velluto De LaRenta, purtroppo, è da credere, visto che lei è condannata a vincere la serata dell’Academy solo quando indossa quindici chili di muscoli e se si fa massacrare nel finale.
E su tutto questo, echi di Pericle il Nero, e persino di D’Annunzio, se non altro nella scelta dei nomi, chè Aspasia certo gli sarebbe piaciuto, per non dire di Vinzio.
Il fatto – un corpo ritrovato sulla spiaggia del litorale romano, una vedova allegra, il suo amante perfetto capro espiatorio e un commissario ribelle e in preda ai ricordi – obbedisce alle regole del giallo dalla zarina Agata in poi, come le spiega Carlo Lucarelli: ma l’Italia che ne esce assomiglia spaventosamente a quella di oggi, tanto che mutatis mutandis potrebbe essere un istant book.
Perché questo Impero di colonie è un’Italietta, che dietro gli altoparlanti della retorica nasconde tangentopoli, vallettopoli, i terreni pruriti del clero e i più recenti festini: solo il commissario almodovariamente sull’orlo di una crisi di nervi è inverosimile, tutto il resto è reale. Se non avessi letto sul risvolto di copertina che è questo libro è del 2007 penserei a una pasquinata in codice, e nemmeno cifrato, se persino io – che di politica italiana davvero non so niente – sono riuscito ad identificare quasi tutti.
Una fantastica satira, pungente e disillusa, che – pene d’amore perdute di Vinzio Ferrari a parte, che poi è un nome che è una contraddizione in termini, la Rossa di Schumi e la vittoria/sconfitta, Vinzio da Vittorio? O da Vinto? – nemmeno i fratelli Guzzanti al top della forma, con un piglio di denuncia da fare un baffo a “La casta”.
Sorvolo sui dialoghi che qua e là smaccatamente contemporanei (cazzo, come al limite e allucinante, sono linguisticamente figli degli anni ’70), sui troppi aggettivi/troppi avverbi (ma questa è davvero questione di gusti) e su alcuni gineprai del plot, tipo la spia di sua maestà. Questi sono dettagli.
Perché non è un giallo, in realtà, e non è nemmeno ambientato ai tempi del regime. È una sorta di quartina di Nostradamus che in anticipo ha tracciato – romanzandoli, ma solo un po’ - gli eventi di questa estate 2009.
Mi piacerebbe sapere se nella caccia al “chi-è-chi” c’ho preso. Certo, nessun produttore è stato trovato morto seminudo in spiaggia. Ancora, per lo meno. Ma dev’essere per forza un produttore? E per forza morto? Perché di grassoni seminudi (o tutti nudi) se ne sono visti parecchi. E anche di festini. Proprio alla vigilia di una visita importante. Anche se fortunatamente non esiste più nessun Führer. Però, ho sentito parlare di G8…
TELEFONI BIANCHI, CIOÈ GIALLI(VISITA DI STATO SECONDO SILLA HICKS)
Adesso, almeno una volta al mese ceno a casa sua e di Gloria, e mentre i suoi figli fanno casino cerchiamo di parlare, davanti a un DVD di Kim Ki Duk, in genere, ma era Sciuscià il nostro film: il resto, Blade Runner compreso, m’ha intriso dopo.
Siamo una strana coppia, io e Luca, che non mi arriva alla spalla e ha 39 di scarpe eppure è solido come io – trenta centimetri almeno e 40 kg circa più di lui – non saprò mai essere.Gli devo molto, di quello che scriverò di questo libro. Perché è stato lui, a ricordarmeli, i telefoni bianchi, e a raccontarmi di Claretta e della sorella aspirante attrice, e dell’alcova del duce, e di tutta la propaganda sul suo vigore che ha curiosi parallelismi con quanto è sui giornali in questi giorni.
Ed è di questo che parla, questo giallo ambientato nel pieno dell’era littoria, alla vigilia di una visita del Führer che dovrebbe essere perfetta propaganda di regime e rischia invece di arrivare importuna, nel bel mezzo di un intricato groviglio di gerarchi, attricette, picchiatori, e ovviamente poliziotti ovviamente tenebrosi e tormentati (e chi non lo sarebbe, se avesse sposato la Sidney Bristow di Alias?). Una storia che ha di Camilleri, senza il sole che abbaglia di Montalbano e i suoi arancini, ma anche della Dalia Nera, e intendo il film con Hillary Oscar Swank elegantissima in velluto De LaRenta, purtroppo, è da credere, visto che lei è condannata a vincere la serata dell’Academy solo quando indossa quindici chili di muscoli e se si fa massacrare nel finale.
E su tutto questo, echi di Pericle il Nero, e persino di D’Annunzio, se non altro nella scelta dei nomi, chè Aspasia certo gli sarebbe piaciuto, per non dire di Vinzio.
Il fatto – un corpo ritrovato sulla spiaggia del litorale romano, una vedova allegra, il suo amante perfetto capro espiatorio e un commissario ribelle e in preda ai ricordi – obbedisce alle regole del giallo dalla zarina Agata in poi, come le spiega Carlo Lucarelli: ma l’Italia che ne esce assomiglia spaventosamente a quella di oggi, tanto che mutatis mutandis potrebbe essere un istant book.
Perché questo Impero di colonie è un’Italietta, che dietro gli altoparlanti della retorica nasconde tangentopoli, vallettopoli, i terreni pruriti del clero e i più recenti festini: solo il commissario almodovariamente sull’orlo di una crisi di nervi è inverosimile, tutto il resto è reale. Se non avessi letto sul risvolto di copertina che è questo libro è del 2007 penserei a una pasquinata in codice, e nemmeno cifrato, se persino io – che di politica italiana davvero non so niente – sono riuscito ad identificare quasi tutti.
Una fantastica satira, pungente e disillusa, che – pene d’amore perdute di Vinzio Ferrari a parte, che poi è un nome che è una contraddizione in termini, la Rossa di Schumi e la vittoria/sconfitta, Vinzio da Vittorio? O da Vinto? – nemmeno i fratelli Guzzanti al top della forma, con un piglio di denuncia da fare un baffo a “La casta”.
Sorvolo sui dialoghi che qua e là smaccatamente contemporanei (cazzo, come al limite e allucinante, sono linguisticamente figli degli anni ’70), sui troppi aggettivi/troppi avverbi (ma questa è davvero questione di gusti) e su alcuni gineprai del plot, tipo la spia di sua maestà. Questi sono dettagli.
Perché non è un giallo, in realtà, e non è nemmeno ambientato ai tempi del regime. È una sorta di quartina di Nostradamus che in anticipo ha tracciato – romanzandoli, ma solo un po’ - gli eventi di questa estate 2009.
Mi piacerebbe sapere se nella caccia al “chi-è-chi” c’ho preso. Certo, nessun produttore è stato trovato morto seminudo in spiaggia. Ancora, per lo meno. Ma dev’essere per forza un produttore? E per forza morto? Perché di grassoni seminudi (o tutti nudi) se ne sono visti parecchi. E anche di festini. Proprio alla vigilia di una visita importante. Anche se fortunatamente non esiste più nessun Führer. Però, ho sentito parlare di G8…
TELEFONI BIANCHI, CIOÈ GIALLI(VISITA DI STATO SECONDO SILLA HICKS)
venerdì 7 agosto 2009
Per la Rassegna Lupi di mare domani a Torre S. Giovanni Raffaele Polo e Francesco Del Prete
L’ultimo menhir si legge in un paio di comode ore e non devi consultare il Novissimo Dizionario della Lingua Italiana. Voglio dire che si tratta di un racconto che, pur affrontando temi complessi, quali l’esoterismo, l’amore, l’età ultima, la follia e il contrario di tutto ciò, è reso in una lingua colloquiale e senza concessioni a certi inutili barocchismi e/o altre trovate letterarie o pseudo tali. C’è, in questo racconto velato di mistero, tutta l’energia che non ti aspetti, giocata nel paradosso tra i piccoli gesti quotidiani e i grandi temi esistenziali, accentuato dall’età senile del protagonista (e dalla completa assenza di ricordare qualunque passato) e da quel che gli capita. Il tutto tra un vecchio rebus e il nuovo numero della Settimana Enigmistica. Tra amori improbabili e persone reali. Tra vie visibili e campagne elettorali occulte. Tra la consapevolezza di essere tutti, in un modo qualunque, un po’ pazzi e non volerlo ammettere. Tra chi lo è davvero e ne soffre e diventarlo per finta e finalmente ch’è l’unica salvezza. Tra correnti sotterranee invisibili ma vere e un omicidio inesistente e sognato. Proprio come in un film. (Vito Antonio Conte)
“Eccolo, il menhir. Nella sua semplicità, una pietra alta e liscia, che sorprendeva perché, in effetti, non si sapeva nulla di quel simulacro di migliaia di anni fa. Né era sicuro che quella pietra fosse rimasta proprio là, in quel punto preciso, per tutto quel tempo. Stava qui attorno, certamente. Ma che sia rimasto proprio qui, equidistante dai muretti a secco e dalle case che sono vicine, non è plausibile. Tra l’altro, c’è una colata di cemento alla base, a segnalare l’intervento dell’uomo che non rispetta certo l’identità e il significato di una pietra che… Mi sono avvicinato e ho proteso la mano per appoggiarla contro la pietra liscia, nell’intento di sentire qualcosa. Un’impressione, magari, di vibrazioni lontane”.
Raffaele Polo (Piacenza, 1952) è uno scrittore e giornalista italiano. Vive e lavora a Lecce. Nei romanzi ha scelto sempre l'inconfondibile stile di ambientazione delle vicende nella sua terra, il Salento, con personaggi realmente esistenti, inseriti in un contesto fantastico ma contemporaneo.
L’Ultimo Menhir di Raffaele Polo (Lupo editore) Performance musicale di Francesco Del Prete (primo violino della Notte della Taranta)
Sabato 8 agosto 2009 h. 22,00, Gazebo Libreria Antica Roma, corso Annibale
Marina di Torre S. Giovanni (Ugento)
Info: Lupo editore, via Prov.le Copertino Monteroni, tel. 0832/931743
www.lupoeditore.com
“Eccolo, il menhir. Nella sua semplicità, una pietra alta e liscia, che sorprendeva perché, in effetti, non si sapeva nulla di quel simulacro di migliaia di anni fa. Né era sicuro che quella pietra fosse rimasta proprio là, in quel punto preciso, per tutto quel tempo. Stava qui attorno, certamente. Ma che sia rimasto proprio qui, equidistante dai muretti a secco e dalle case che sono vicine, non è plausibile. Tra l’altro, c’è una colata di cemento alla base, a segnalare l’intervento dell’uomo che non rispetta certo l’identità e il significato di una pietra che… Mi sono avvicinato e ho proteso la mano per appoggiarla contro la pietra liscia, nell’intento di sentire qualcosa. Un’impressione, magari, di vibrazioni lontane”.
Raffaele Polo (Piacenza, 1952) è uno scrittore e giornalista italiano. Vive e lavora a Lecce. Nei romanzi ha scelto sempre l'inconfondibile stile di ambientazione delle vicende nella sua terra, il Salento, con personaggi realmente esistenti, inseriti in un contesto fantastico ma contemporaneo.
L’Ultimo Menhir di Raffaele Polo (Lupo editore) Performance musicale di Francesco Del Prete (primo violino della Notte della Taranta)
Sabato 8 agosto 2009 h. 22,00, Gazebo Libreria Antica Roma, corso Annibale
Marina di Torre S. Giovanni (Ugento)
Info: Lupo editore, via Prov.le Copertino Monteroni, tel. 0832/931743
www.lupoeditore.com
giovedì 6 agosto 2009
Anteprima: Krill - Rivista d’immaginario (Lupo editore). Di Mino Degli Atti
Nel centro Manifatture Knos, cantiere delle arti e dei saperi nato a Lecce, si è costituita la redazione di una rivista quadrimestrale (edita da Lupo Editore) dal nome Krill . Il numero 00 è in uscita in questi giorni con il tema “Bene comune”.
Con il termine Krill si indicano i piccoli crostacei che compongono lo zooplancton, cibo primario di balene, mante, squali balena, pesce azzurro e uccelli acquatici. Il loro nome comune (la parola norvegese Krill) significa giovane frittura di pesce. Il Krill, presente in tutti gli oceani del mondo, con particolare concentrazione nelle acque fredde e polari, costituisce il plancton oceanico, quello che alimenta l'ecosistema marino e – alla lunga – globale. È il nutrimento originario.
Il krill è per le balene quello che l’immaginario è per l’essere umano. Ci nutriamo di esseri invisibili e il processo della nutrizione è continuo. L’immaginario è la sintesi di questa opera di continua sollecitazione sensoriale, la lente attraverso la quale il mondo assume una colorazione particolare.
Non crediamo a una differenza tra cultura d'élite e cultura pop.
La nostra proposta è uno spazio di sperimentazione di linguaggi che aboliscano le distinzioni di genere e di classe tra le scritture e tra le scritture e il segno grafico.
L’idea è quella di scegliere, di volta in volta, una parola chiave, un tema monografico che orienti la lettura senza pretese di esaustività.
Vogliamo dedicare questo primo numero al Bene Comune, ovvero l’opera incessante di costruzione di spazi della condivisione che permettano la circolazione di saperi arti e mestieri, vale a dire a quell’ideale che ispira ogni fatto, comportamento, riflessione che implichi la dimensione del condividere. Il Bene Comune è essenzialmente un modo di intendere le relazioni, è un punto di vista critico da cui osservare gli scenari collettivi, e scorgere i cambiamenti, o la perdita di senso. Krill-out, infatti, perchè è tempo di uscire. E’ tempo di lavorare alle relazioni, alla rete della produzione mitopoietica diffusa.
Lontano dalle angustie dei saperi di nicchia, delle scritture accademiche e iperspecialistiche, dei libri impolverati che restano sulle staggiere. Krill nasce dal profondo e nel profondo vuole affondare le mani. Sporcandosele. In tal senso vogliamo muoverci. Provando a dar vita a un'avventura editoriale che coniughi, in tempi di sfiducia e di disincanto, il tentativo di una generazione di appropriarsi nuovamente dell'interpretazione sui suoi prodotti culturali, sul suo tempo e sulle forme del suo immaginario. Sull'immaginario come alimento della nostra esistenza.
Krill out: fuori il nutrimento!
Krill - Rivista d’immaginario
Quadrimestrale – Lupo Editore
Numero 00 – Bene Comune
www.krillproject.it
Con il termine Krill si indicano i piccoli crostacei che compongono lo zooplancton, cibo primario di balene, mante, squali balena, pesce azzurro e uccelli acquatici. Il loro nome comune (la parola norvegese Krill) significa giovane frittura di pesce. Il Krill, presente in tutti gli oceani del mondo, con particolare concentrazione nelle acque fredde e polari, costituisce il plancton oceanico, quello che alimenta l'ecosistema marino e – alla lunga – globale. È il nutrimento originario.
Il krill è per le balene quello che l’immaginario è per l’essere umano. Ci nutriamo di esseri invisibili e il processo della nutrizione è continuo. L’immaginario è la sintesi di questa opera di continua sollecitazione sensoriale, la lente attraverso la quale il mondo assume una colorazione particolare.
Non crediamo a una differenza tra cultura d'élite e cultura pop.
La nostra proposta è uno spazio di sperimentazione di linguaggi che aboliscano le distinzioni di genere e di classe tra le scritture e tra le scritture e il segno grafico.
L’idea è quella di scegliere, di volta in volta, una parola chiave, un tema monografico che orienti la lettura senza pretese di esaustività.
Vogliamo dedicare questo primo numero al Bene Comune, ovvero l’opera incessante di costruzione di spazi della condivisione che permettano la circolazione di saperi arti e mestieri, vale a dire a quell’ideale che ispira ogni fatto, comportamento, riflessione che implichi la dimensione del condividere. Il Bene Comune è essenzialmente un modo di intendere le relazioni, è un punto di vista critico da cui osservare gli scenari collettivi, e scorgere i cambiamenti, o la perdita di senso. Krill-out, infatti, perchè è tempo di uscire. E’ tempo di lavorare alle relazioni, alla rete della produzione mitopoietica diffusa.
Lontano dalle angustie dei saperi di nicchia, delle scritture accademiche e iperspecialistiche, dei libri impolverati che restano sulle staggiere. Krill nasce dal profondo e nel profondo vuole affondare le mani. Sporcandosele. In tal senso vogliamo muoverci. Provando a dar vita a un'avventura editoriale che coniughi, in tempi di sfiducia e di disincanto, il tentativo di una generazione di appropriarsi nuovamente dell'interpretazione sui suoi prodotti culturali, sul suo tempo e sulle forme del suo immaginario. Sull'immaginario come alimento della nostra esistenza.
Krill out: fuori il nutrimento!
Krill - Rivista d’immaginario
Quadrimestrale – Lupo Editore
Numero 00 – Bene Comune
www.krillproject.it
martedì 4 agosto 2009
Roberto Vecchioni nel Salento per presentare il suo libro "Scacco a Dio" (Einaudi)
E se un giorno Dio, in piena crisi esistenziale, si travestisse da pittore del Rinascimento o da chitarrista rock, da trapezista o da cortigiana, per cercare di comprendere gli uomini, quelle sue creature ribelli che ormai gli sembra di non capire più? Così infatti si presenta il Creatore davanti al «suo primo consigliere» Teliqalipukt, una vecchia conoscenza dei lettori di Roberto Vecchioni. E proprio all'angelo mandato sulla terra per seguire gli uomini, già narratore dei Viaggi del tempo immobile, Dio chiede di spiegarglieli, gli uomini, lui che li ha conosciuti da vicino. Inizia così una sorta di «terapia» in cui Teliqalipukt si fa cantastorie per Dio. Da Catullo a JFK, passando per Shakespeare e Federico II, i protagonisti di queste storie hanno sfidato Dio inventandosi un destino diverso da quello che sembrava già scritto.
Sono grandi uomini che tutti conosciamo, si direbbe. Eppure questa parte della loro storia nessuno ce l'aveva raccontata.
All'incontro, che si terrà martedì 11 agosto alle ore 21,00 presso la Torre Saracena di PortoCesareo, organizzato da Unione dei Comuni Union3, Comune di Porto Cesareo,e con partner Lupo editore, interverranno il presidente della Union3 Fernando Fai, l'assessore alla cultura Union3 Gabriella Greco e lo scrittore Antonio Errico che dialogherà con l'autore.
Sono grandi uomini che tutti conosciamo, si direbbe. Eppure questa parte della loro storia nessuno ce l'aveva raccontata.
All'incontro, che si terrà martedì 11 agosto alle ore 21,00 presso la Torre Saracena di PortoCesareo, organizzato da Unione dei Comuni Union3, Comune di Porto Cesareo,e con partner Lupo editore, interverranno il presidente della Union3 Fernando Fai, l'assessore alla cultura Union3 Gabriella Greco e lo scrittore Antonio Errico che dialogherà con l'autore.
Sono un ragazzo fortunato (surf backstage frame) di Marco Montanaro
[certo, alla fine di questo pezzo c’è ancora una domanda nell’aria: e la risposta è no, non userei più un blog per infilarci dei racconti; a ripensarci è un’idea balzana, pittoresca, soprattutto adesso che la scrittura da web è diventata ancora più breve, istantanea; e il pericolo di incappare in qualche casa editrice a caccia di scrittori-blogger mi fa rabbrividire; il mio blog attuale, il malesangue, si occupa d’interviste; e questa è un’altra storia.]
Adesso "Sono un ragazzo fortunato" (Lupo editore) è, prima di tutto, un oggetto. Il libro se ne sta per gli affari suoi, se ne infischia di me. Ogni tanto vado a sfogliarlo, ma il punto cruciale è che ora sto parlando di qualcosa di materiale, concreto. So che c’è tanta gente che scrive per pubblicare: quello che si dovrebbe avere in mente quando si scrive, suppongo, dovrebbe essere già il prodotto finale, in cui è racchiuso ogni passaggio del meccanismo che porta ciò che hai scritto a diventare di carta. Non so se è così, se effettivamente chi scrive ha già in mente ognuno di questi passaggi; mi considero uno che ha scritto un libro – non certo un professionista – senza sapere, all’epoca, che l’avrei pubblicato; sarei disonesto se parlassi d’altro e non del lato concreto della faccenda. Perché mi immagino un po’ nell’ombra, quando scrivo, è un’operazione che si svolge al riparo dagli altri, quasi nascosta; adesso provo a farmi affascinare dal lato concreto, quasi “fisico”, dell’affare. Portare fuori il libro, parlarne con chi ti conosce (e non sospettava), presentarlo in pubblico (non è una cosa che ritengo fondamentale, ma se mi “obbliga” a uno sforzo fisico, e se questo lato fisico completa quello mentale…), insomma: c’è un momento da cui vorrei partire per parlare di Sono un ragazzo fortunato, perché spiega anche a me, tutt’ora, un paio di cose. C’era un racconto che volevo assolutamente tagliare, per intero, in fase di editing; Donatella Neri, che si è occupata del mio libro per Lupo Editore, insisteva perché quel pezzo rimanesse, mentre io lo detestavo. Volevo infilarne un altro, al posto di quello: alla fine, una discreta mediazione, fuori entrambi. Ma Donatella mi scrisse una mail, in cui diceva più o meno: parti dal presupposto che ciò che esce fuori da te, a un certo punto, non appartiene più solo a te stesso. Per me è stato un momento fondamentale: perché, una volta che capisci che sei riuscito a tirar fuori un pezzo di te, le cose devono essere un po’ più lisce.
Quanto al libro in sé, Sono un ragazzo fortunato è soprattutto un libro sulla ricorsività dei meccanismi che governano le storie, e sul ritmo. Un mio professore, all’università, mi disse che la mia scrittura «ha ritmo». Io credo che proprio il ritmo faccia la fortuna di un testo, per la maggior parte. Probabilmente, anche solo a un livello inconscio per il lettore. Si parla molto di questioni di stile – una volta ho persino beccato uno che s’era fissato con l’anacoluto come nuova tendenza tra i giovani scrittori italiani, puah! – e poco di ritmo (che non è solo una sottocategoria dello stile, è chiaro). Il ritmo, a partire dalla punteggiatura, questo fa funzionare un testo – anche un film, a pensarci bene. Allora io ho cercato di lavorare su questo, soprattutto nei racconti Troppi Caffè e Storie d’amore disadorne. Rileggendo il libro, ascoltandolo recitato da altre persone, ecco, mi viene voglia di cambiare alcune parole; di dare una rinfrescatina ad alcuni concetti; ma, per quanto riguarda il ritmo, posso ritenermi tutt’ora soddisfatto. SURF conserva un suo ritmo, il che vuol dire che la mia voce interiore di allora e quella di oggi – sono passati tre o quattro anni da quando l’ho scritto – in qualche modo coincidono – niente schizofrenia. Per il resto, si tratta di finzione: pescare nell’autobiografia è stato comodo, com’è ovvio, ma fino a un certo punto; poi bisogna allontanarsene, prendere il largo, cercare gli angoli di una storia che possano rendere quella storia quanto più universale possibile. Avevo il terrore di annegare nell’autocompiacimento di certe canzoni italiane contemporanee, che dalla loro, però, hanno anche la musica.
Mi fermo qui con l’autoanalisi. Posso solo aggiungere che Sono un ragazzo fortunato fa il tifo per la narrazione di fantasia. È tifo, dunque irrazionale: credo che, citando Wittgenstein, su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. Perciò non avrei potuto scrivere a proposito della Sacra Corona Unita o sulla diossina di Taranto. Mi piacerebbe scrivere una mia personalissima guida alla Puglia, forse su quella lingua di terra in cui vivo, tra Brindisi e Taranto, sconosciuta ai più, e dimenticata da se stessa. Ma sarebbe la mia visione, riterrei comunque di agire nell’ambito della finzione. Per il resto, tendo a tacere.
Anche sullo scrivere un libro, avrei potuto tacere fino a qualche tempo fa; visto anche il fatto che questa è esperienza comune a molti italiani, soprattutto dopo l’avvento degli scrittori-blogger (il che è un ossimoro). A me, in fondo, è andata bene: avevo scritto alcuni racconti per me stesso – dunque, direi, in un regime di semi-inconsapevolezza – alcuni di questi pubblicati in giro per la rete, altri rimasti nel pc. Così decisi di mettere su un blog a tempo determinato: un racconto a settimana per nove settimane. Pensavo potesse essere un richiamo per un qualche pubblico, l’appuntamento settimanale; invece fu soprattutto un modo per disciplinarmi, per fare in modo che lo scrivere smettesse di essere atto occasionale o dettato da certi umori (da questo punto di vista non so ancora se ho fatto progressi). Dopodiché, un amico che lavorava per Lupo e Coolclub mi suggerì di mandare qualcosa in casa editrice. Mesi dopo fui contattato da Cosimo Lupo, il mitico editore tuttofare, e cominciammo con l’editing e tutto il resto. Poi, la fusione tra Lupo e Coolclub per una nuova collana ed ecco il mio libro.
Non so com’è scrivere appositamente in vista di una pubblicazione; non avevo la smania di “uscire”, soprattutto perché sapevo che avrebbe voluto dire tirar fuori, rendere pubblici alcuni tormenti personali; e invece, ci sto facendo l’abitudine. Capita, quando leggono il tuo libro in pubblico; non puoi farci nulla e puoi persino finire con l’apprezzarlo. Probabilmente, è ciò che devi fare, per quanto possa interessare solo due o tre persone.
Adesso "Sono un ragazzo fortunato" (Lupo editore) è, prima di tutto, un oggetto. Il libro se ne sta per gli affari suoi, se ne infischia di me. Ogni tanto vado a sfogliarlo, ma il punto cruciale è che ora sto parlando di qualcosa di materiale, concreto. So che c’è tanta gente che scrive per pubblicare: quello che si dovrebbe avere in mente quando si scrive, suppongo, dovrebbe essere già il prodotto finale, in cui è racchiuso ogni passaggio del meccanismo che porta ciò che hai scritto a diventare di carta. Non so se è così, se effettivamente chi scrive ha già in mente ognuno di questi passaggi; mi considero uno che ha scritto un libro – non certo un professionista – senza sapere, all’epoca, che l’avrei pubblicato; sarei disonesto se parlassi d’altro e non del lato concreto della faccenda. Perché mi immagino un po’ nell’ombra, quando scrivo, è un’operazione che si svolge al riparo dagli altri, quasi nascosta; adesso provo a farmi affascinare dal lato concreto, quasi “fisico”, dell’affare. Portare fuori il libro, parlarne con chi ti conosce (e non sospettava), presentarlo in pubblico (non è una cosa che ritengo fondamentale, ma se mi “obbliga” a uno sforzo fisico, e se questo lato fisico completa quello mentale…), insomma: c’è un momento da cui vorrei partire per parlare di Sono un ragazzo fortunato, perché spiega anche a me, tutt’ora, un paio di cose. C’era un racconto che volevo assolutamente tagliare, per intero, in fase di editing; Donatella Neri, che si è occupata del mio libro per Lupo Editore, insisteva perché quel pezzo rimanesse, mentre io lo detestavo. Volevo infilarne un altro, al posto di quello: alla fine, una discreta mediazione, fuori entrambi. Ma Donatella mi scrisse una mail, in cui diceva più o meno: parti dal presupposto che ciò che esce fuori da te, a un certo punto, non appartiene più solo a te stesso. Per me è stato un momento fondamentale: perché, una volta che capisci che sei riuscito a tirar fuori un pezzo di te, le cose devono essere un po’ più lisce.
Quanto al libro in sé, Sono un ragazzo fortunato è soprattutto un libro sulla ricorsività dei meccanismi che governano le storie, e sul ritmo. Un mio professore, all’università, mi disse che la mia scrittura «ha ritmo». Io credo che proprio il ritmo faccia la fortuna di un testo, per la maggior parte. Probabilmente, anche solo a un livello inconscio per il lettore. Si parla molto di questioni di stile – una volta ho persino beccato uno che s’era fissato con l’anacoluto come nuova tendenza tra i giovani scrittori italiani, puah! – e poco di ritmo (che non è solo una sottocategoria dello stile, è chiaro). Il ritmo, a partire dalla punteggiatura, questo fa funzionare un testo – anche un film, a pensarci bene. Allora io ho cercato di lavorare su questo, soprattutto nei racconti Troppi Caffè e Storie d’amore disadorne. Rileggendo il libro, ascoltandolo recitato da altre persone, ecco, mi viene voglia di cambiare alcune parole; di dare una rinfrescatina ad alcuni concetti; ma, per quanto riguarda il ritmo, posso ritenermi tutt’ora soddisfatto. SURF conserva un suo ritmo, il che vuol dire che la mia voce interiore di allora e quella di oggi – sono passati tre o quattro anni da quando l’ho scritto – in qualche modo coincidono – niente schizofrenia. Per il resto, si tratta di finzione: pescare nell’autobiografia è stato comodo, com’è ovvio, ma fino a un certo punto; poi bisogna allontanarsene, prendere il largo, cercare gli angoli di una storia che possano rendere quella storia quanto più universale possibile. Avevo il terrore di annegare nell’autocompiacimento di certe canzoni italiane contemporanee, che dalla loro, però, hanno anche la musica.
Mi fermo qui con l’autoanalisi. Posso solo aggiungere che Sono un ragazzo fortunato fa il tifo per la narrazione di fantasia. È tifo, dunque irrazionale: credo che, citando Wittgenstein, su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere. Perciò non avrei potuto scrivere a proposito della Sacra Corona Unita o sulla diossina di Taranto. Mi piacerebbe scrivere una mia personalissima guida alla Puglia, forse su quella lingua di terra in cui vivo, tra Brindisi e Taranto, sconosciuta ai più, e dimenticata da se stessa. Ma sarebbe la mia visione, riterrei comunque di agire nell’ambito della finzione. Per il resto, tendo a tacere.
Anche sullo scrivere un libro, avrei potuto tacere fino a qualche tempo fa; visto anche il fatto che questa è esperienza comune a molti italiani, soprattutto dopo l’avvento degli scrittori-blogger (il che è un ossimoro). A me, in fondo, è andata bene: avevo scritto alcuni racconti per me stesso – dunque, direi, in un regime di semi-inconsapevolezza – alcuni di questi pubblicati in giro per la rete, altri rimasti nel pc. Così decisi di mettere su un blog a tempo determinato: un racconto a settimana per nove settimane. Pensavo potesse essere un richiamo per un qualche pubblico, l’appuntamento settimanale; invece fu soprattutto un modo per disciplinarmi, per fare in modo che lo scrivere smettesse di essere atto occasionale o dettato da certi umori (da questo punto di vista non so ancora se ho fatto progressi). Dopodiché, un amico che lavorava per Lupo e Coolclub mi suggerì di mandare qualcosa in casa editrice. Mesi dopo fui contattato da Cosimo Lupo, il mitico editore tuttofare, e cominciammo con l’editing e tutto il resto. Poi, la fusione tra Lupo e Coolclub per una nuova collana ed ecco il mio libro.
Non so com’è scrivere appositamente in vista di una pubblicazione; non avevo la smania di “uscire”, soprattutto perché sapevo che avrebbe voluto dire tirar fuori, rendere pubblici alcuni tormenti personali; e invece, ci sto facendo l’abitudine. Capita, quando leggono il tuo libro in pubblico; non puoi farci nulla e puoi persino finire con l’apprezzarlo. Probabilmente, è ciò che devi fare, per quanto possa interessare solo due o tre persone.
venerdì 31 luglio 2009
Delle radici e delle foglie di Moris Bonacini (Lupo editore) – rec. Di Silla Hicks
Non vorrei sembrare rude, ma davvero ci sono cose che non capisco, e una di queste è l’amore. Perché io c’ho provato, e provato davvero, a far funzionare le cose, a trovare un senso che giustificasse tutto, la famosa unica ragione per cui valga la pena di vivere e di morire di cui parla Marquez, quello di Macondo e del gigante Josè Arcadio, ma anche di Amaranta, e di Firmina Daza che si fa attendere una vita.
Davvero, io c’ho provato, finché d’un tratto non ho perso la presa, e mi sono visto precipitare, al rallentatore, e tutto è diventato nero. Anche adesso, è buio. Anche adesso, io sto cadendo. Quindi davvero io non lo so, cosa sia, l’amore: so che mi sono arreso e sono scappato lontano dalle mie ferite, nuotando via nel mio stesso sangue. E non lo so, se davvero sia possibile, sentire qualcosa per tutti i giorni e per tutte le notti, riconoscersi a casa nella pelle dell’altro e finalmente risolversi, sapere chi si è e perché e dove, smettere di andare e di correre e di chiudere gli occhi per non vedere e non piangere.
Ed è di questo, invece, che parla questo libro garbato, gentile negli spigoli imbottiti anche quando parlerebbe d’emarginazione e razzismo e violenza, quasi tutto si sfumasse nella luce di qualcosa che va oltre ed abbaglia, malgrado le schegge che fanno sanguinare gli occhi, pezzi di altri corpi e altre storie. Non racconta di un matrimonio perfetto, ma di una vita assieme forte come un fiume attraverso le rapide. Di un uomo e una donna che continuano la stessa strada, e pazienza se per qualche istante reciprocamente si lasciano la mano, pazienza se crescendo si evolvono e pazienza anche se si scoprono apolidi, figli di una terra che esiste ancora solo nel ricordo: perché sono insieme, e lo restano, e chiunque altro è estraneo, altro da loro. Può averne il corpo e qualche scampolo di tempo, ma è solo un prestito, loro restano due, e restano là, vicini anche quando pensi che non potranno più esserlo, adesso che si sono scavati un baratro a dividerli. Invece no, sono ammanettati da un filo da pesca che nessuno vede ma che non si spezza: fanno giri immensi come aquiloni ma soltanto per ritornare al reciproco rocchetto, diventando prima adulti e poi vecchi senza mai perdersi, Rosario e Antonia emigrati ragazzini dalla Calabria alla Svizzera per ritornarci dopo trent’anni e per sei giorni, scoprendo definitivamente d’essere uno la casa dell’altro, qualsiasi sia il mondo fuori. Non chiedetemi se sia una storia vera: davvero, non chiedetelo a me, che sto qui a scrivere mentre fa alba. Quello che so è solo che ho misurato la vastità della mia devastazione quando nemmeno il sogno di tornare a casa è bastato più a farmi dormire. Quando ho compreso che nemmeno la mia lingua e la mia gente poteva riconoscermi, finché non avevo più lei in cui specchiarmi. Tuttora, non so più chi sono. Sopravvivo, perché respiro ancora. Ma la vita, quella è un’altra cosa, e non c’è posto in cui posso riprenderla, non c’è modo di ricominciarla se non da lei in cui l’ho interrotta. Il resto, è solo un fondale, di cartone dipinto con gli acrilici: sembra vero, ma è solo un poster, come quelli di boschi o spiagge che si usavano negli anni ’80, grandi quanto un muro intero. Io lo so, che non c’è niente, che se ci appoggio la mano sento le crepe e sotto residui di carta da parati che nessuno ha tolto. È solo un miraggio, illusioni che vedo perché ormai sono ben abituato al buio. Davvero, non so se sia vera, questa storia, o se un signore quieto se la sia inventata, per celebrare le sue nozze d’oro. Tutto il resto che racconta, l’emigrazione e lo straniamento di un mondo grande che si spalanca da un abbaino, le difficoltà d’integrazione e i gruppi chiusi di paisà, l’emarginazione iniziale e il sacrificio e la violenza degli autoctoni razzisti ma anche del branco dei pari che ha ricostruito il sua piccolo universo tribale anche nella città del futuro e resta a guardarla dai margini, sicuramente è (stato) reale. In Svizzera e in Francia e in Belgio e nella mia Germania per gli italiani allora, e per i turchi oggi. In Italia per albanesi e africani, in Francia per gli ex coloniali che affollano banlieues e metrò, con il loro francese morbido e vestiti di cotone colorato anche d’inverno. Un copione che si ripete, da Ellis Island in poi, con la malavita che si pasce dei disperati che fanno fatica a restare a galla. Ma non è questo che resta, di questo libro che non è di denuncia né di cronaca né di storia, ma solo delicata lettera d’amore scritta con la grafia sottile, ordinata, che si usava prima che il mezzo stampatello calcato della mia generazione prendesse il sopravvento.
Garbato, sopra ogni cosa, mai urlato né incontrollato né disordinato né nient’altro che possa in qualche modo alterarne lo scorrere decoroso, composto, anche quando s’imbatte in episodi sgradevoli – il cuoco che tenta di violentare Antonia al ristorante dove lavora, Rosario e le sue scappatelle, il marciume sotto il tappeto persiano dell’alta borghesia – su cui sorvola senza indulgere nel voyeurismo morboso, volgare, diventato regola dei nostri giorni.
Incapace di dramma anche quando il dramma c’è, la storia di Antonia e Rosario dura perché non si sofferma sulle brutture che attraversa, perché riesce a proteggersene, e a non perdere il filo.
Un po’ Bassani e un po’ Foster e un po’ Ishiguro degli ultimi lievi Notturni, ma in bella copia, senza sbavature né singhiozzi né spigoli taglienti: questo per me è il suo limite, ma – beninteso – lo è per me soltanto.
Figlio di un mondo in rovina, e sopravvissuto all’inferno, non è un libro che m’appartenga, e non posso farci niente: sono e resto uno che urla, s’incazza, bestemmia, prende a pugni muri e porte, e si rannicchia con le mani sanguinanti sul pavimento, quando il dolore finalmente arriva al cervello e spegne quell’altro male che è immensamente più devastante e lo divora da dentro. Ma questo sono io, e spero io soltanto.
Mi piace pensare che invece ci siano altri che ci si riconosceranno, in questa storia, e che chiuso il libro usciranno a passeggio, sotto il peso di una vita ma leggeri perché possono ancora tenersi per la mano. Li guardo dal finestrino, mentre la loro vita continua a scorrere, e non li capisco, ogni giorno. Più che altro, non capisco come facciano, a vivere e ridere ed essere felici. Non capisco perché non io. Ma poi mi guardo, e lo so. Cerco di dimenticarlo, ogni attimo. Ci provo così tanto che a volte mi riesce, e allora – ma non stanotte – m’addormento.
AMORE SENZA FINE
(Delle radici e delle foglie di Moris Bonacini – rec. Di Silla Hicks)
Davvero, io c’ho provato, finché d’un tratto non ho perso la presa, e mi sono visto precipitare, al rallentatore, e tutto è diventato nero. Anche adesso, è buio. Anche adesso, io sto cadendo. Quindi davvero io non lo so, cosa sia, l’amore: so che mi sono arreso e sono scappato lontano dalle mie ferite, nuotando via nel mio stesso sangue. E non lo so, se davvero sia possibile, sentire qualcosa per tutti i giorni e per tutte le notti, riconoscersi a casa nella pelle dell’altro e finalmente risolversi, sapere chi si è e perché e dove, smettere di andare e di correre e di chiudere gli occhi per non vedere e non piangere.
Ed è di questo, invece, che parla questo libro garbato, gentile negli spigoli imbottiti anche quando parlerebbe d’emarginazione e razzismo e violenza, quasi tutto si sfumasse nella luce di qualcosa che va oltre ed abbaglia, malgrado le schegge che fanno sanguinare gli occhi, pezzi di altri corpi e altre storie. Non racconta di un matrimonio perfetto, ma di una vita assieme forte come un fiume attraverso le rapide. Di un uomo e una donna che continuano la stessa strada, e pazienza se per qualche istante reciprocamente si lasciano la mano, pazienza se crescendo si evolvono e pazienza anche se si scoprono apolidi, figli di una terra che esiste ancora solo nel ricordo: perché sono insieme, e lo restano, e chiunque altro è estraneo, altro da loro. Può averne il corpo e qualche scampolo di tempo, ma è solo un prestito, loro restano due, e restano là, vicini anche quando pensi che non potranno più esserlo, adesso che si sono scavati un baratro a dividerli. Invece no, sono ammanettati da un filo da pesca che nessuno vede ma che non si spezza: fanno giri immensi come aquiloni ma soltanto per ritornare al reciproco rocchetto, diventando prima adulti e poi vecchi senza mai perdersi, Rosario e Antonia emigrati ragazzini dalla Calabria alla Svizzera per ritornarci dopo trent’anni e per sei giorni, scoprendo definitivamente d’essere uno la casa dell’altro, qualsiasi sia il mondo fuori. Non chiedetemi se sia una storia vera: davvero, non chiedetelo a me, che sto qui a scrivere mentre fa alba. Quello che so è solo che ho misurato la vastità della mia devastazione quando nemmeno il sogno di tornare a casa è bastato più a farmi dormire. Quando ho compreso che nemmeno la mia lingua e la mia gente poteva riconoscermi, finché non avevo più lei in cui specchiarmi. Tuttora, non so più chi sono. Sopravvivo, perché respiro ancora. Ma la vita, quella è un’altra cosa, e non c’è posto in cui posso riprenderla, non c’è modo di ricominciarla se non da lei in cui l’ho interrotta. Il resto, è solo un fondale, di cartone dipinto con gli acrilici: sembra vero, ma è solo un poster, come quelli di boschi o spiagge che si usavano negli anni ’80, grandi quanto un muro intero. Io lo so, che non c’è niente, che se ci appoggio la mano sento le crepe e sotto residui di carta da parati che nessuno ha tolto. È solo un miraggio, illusioni che vedo perché ormai sono ben abituato al buio. Davvero, non so se sia vera, questa storia, o se un signore quieto se la sia inventata, per celebrare le sue nozze d’oro. Tutto il resto che racconta, l’emigrazione e lo straniamento di un mondo grande che si spalanca da un abbaino, le difficoltà d’integrazione e i gruppi chiusi di paisà, l’emarginazione iniziale e il sacrificio e la violenza degli autoctoni razzisti ma anche del branco dei pari che ha ricostruito il sua piccolo universo tribale anche nella città del futuro e resta a guardarla dai margini, sicuramente è (stato) reale. In Svizzera e in Francia e in Belgio e nella mia Germania per gli italiani allora, e per i turchi oggi. In Italia per albanesi e africani, in Francia per gli ex coloniali che affollano banlieues e metrò, con il loro francese morbido e vestiti di cotone colorato anche d’inverno. Un copione che si ripete, da Ellis Island in poi, con la malavita che si pasce dei disperati che fanno fatica a restare a galla. Ma non è questo che resta, di questo libro che non è di denuncia né di cronaca né di storia, ma solo delicata lettera d’amore scritta con la grafia sottile, ordinata, che si usava prima che il mezzo stampatello calcato della mia generazione prendesse il sopravvento.
Garbato, sopra ogni cosa, mai urlato né incontrollato né disordinato né nient’altro che possa in qualche modo alterarne lo scorrere decoroso, composto, anche quando s’imbatte in episodi sgradevoli – il cuoco che tenta di violentare Antonia al ristorante dove lavora, Rosario e le sue scappatelle, il marciume sotto il tappeto persiano dell’alta borghesia – su cui sorvola senza indulgere nel voyeurismo morboso, volgare, diventato regola dei nostri giorni.
Incapace di dramma anche quando il dramma c’è, la storia di Antonia e Rosario dura perché non si sofferma sulle brutture che attraversa, perché riesce a proteggersene, e a non perdere il filo.
Un po’ Bassani e un po’ Foster e un po’ Ishiguro degli ultimi lievi Notturni, ma in bella copia, senza sbavature né singhiozzi né spigoli taglienti: questo per me è il suo limite, ma – beninteso – lo è per me soltanto.
Figlio di un mondo in rovina, e sopravvissuto all’inferno, non è un libro che m’appartenga, e non posso farci niente: sono e resto uno che urla, s’incazza, bestemmia, prende a pugni muri e porte, e si rannicchia con le mani sanguinanti sul pavimento, quando il dolore finalmente arriva al cervello e spegne quell’altro male che è immensamente più devastante e lo divora da dentro. Ma questo sono io, e spero io soltanto.
Mi piace pensare che invece ci siano altri che ci si riconosceranno, in questa storia, e che chiuso il libro usciranno a passeggio, sotto il peso di una vita ma leggeri perché possono ancora tenersi per la mano. Li guardo dal finestrino, mentre la loro vita continua a scorrere, e non li capisco, ogni giorno. Più che altro, non capisco come facciano, a vivere e ridere ed essere felici. Non capisco perché non io. Ma poi mi guardo, e lo so. Cerco di dimenticarlo, ogni attimo. Ci provo così tanto che a volte mi riesce, e allora – ma non stanotte – m’addormento.
AMORE SENZA FINE
(Delle radici e delle foglie di Moris Bonacini – rec. Di Silla Hicks)
mercoledì 29 luglio 2009
Le declinazioni affettive di Alfredo Annicchiarico (Lupo editore). Rec. di Silla Hicks
Non ho mai pensato che la droga potesse aggiustare le cose. Non l’ho pensato adolescente alieno in un mondo non suo, incapace di comunicare nella lingua degli altri e di sembrare come loro. Non l’ho pensato uomo col cuore spezzato, che faceva male a tal punto da tenermi sveglio la notte, tutte le notti, come una parodia dell’uomo senza sonno condannato a rivivere ogni attimo l’inferno.
Non lo penso neanche oggi, che pure vita e morte hanno lo stesso insapore dell’assenza, che mi sono scordato come sia, provare qualcosa, qualsiasi cosa, che non sia questo niente sempre uguale.
Ma se fossi un cinquantenne con una moglie che non vuole vedere e un’amante che ha smesso di lottare e una figlia così priva di un minimo di amore per sé da correre dietro a un frocio, bhè, credo che una pera proverei a farmela anch’io. È questo che mi resta, di queste nemmeno cento pagine – in pitch 12 e formato 10x15, va precisato – che vorrebbero essere sceneggiatura di Lelouch riscritta dalla Margaret Mazzantini e invece sono – volontariamente o no – un condensato drammatico sull’incomunicabilità che solo – forse – una Liaison pornogràphique può essere valido paragone.
Quest’uomo si droga, e lo capisco, non vorrei, ma lo sento, soffrire il male di essere che non riesce a dipanare, senza collocazione come marito né amante né padre.
Ambientato nel sottobosco della musica – ché quella di prima grandezza non lascia spazio a niente altro, divora tutto come i Langolieri – questo racconto – romanzo è una parola grossa – trasuda il dolore di Stefano all’ombra dell’uomo che suo padre è e che a lui non riesce di essere: si droga per scappare, e per quanto sia una scelta idiota non gliene riconosco altre, forse la sua amante potrebbe essere una, ma no, lei non è capace, di tendere le braccia a uno che sta annegando e si dibatte e potrebbe trascinarla sott’acqua, per queste cose ci vuole amore, disperato e assoluto, amore, in una parola, e l’amore non cosa da tutti.
E l’assurdo è che l’amante in questione si chiama Emma, lo stesso nome della Bovary, una che per amore ha sacrificato tutto, e senza pensarci: non so se sia ironia consapevole o no, ma certo funziona, come la storia della figlia, che si chiama Camilla come la vergine guerriera dell’Eneide, una che vuole sembrare tosta e che invece è solo una ragazzina, ingenua e con le calze a rete, commoventemene spudorata come solo a vent’anni si può essere, le ciglia bistrate di una bambina che s’impiastriccia di trucco, e sale in albergo con uno che scopa uomini perché suo padre se’è fatto trovare con l’ago nel braccio.
Storie di ordinario degrado familiare, certo. Ma, lo stesso: dio, che desolazione.
E il tutto scritto in una lingua paratattica che nei punti più riusciti ha di Hanif Kureishi, malgrado il voluto provincialismo dei riferimenti, o anzi proprio per questo. Non è una storia facile, di facile ha solo la lingua, e a tratti nemmeno quella, ché ci sono passi da tema, che stonano – musicalmente parlando – ed è un peccato (un esempio, l’uso dei puntini di sospensione, cui Umberto Eco dedica le indimenticabili pagine del suo diario minimo che mi hanno convinto a bandirli dalla mia tastiera). Concludendo, come dice un mio amico, da uno a dieci, quanto: non so, mi servivano altre pagine, personaggi più spessi e una storia intera. Tra tutti, il cattivo patriarca è l’unico che ha le dimensioni – 2 – che dovrebbe avere, gli altri sono abbozzi, tratteggi, forse solo Camilla può andare com’è. Moglie e amante odiose, senz’appello. L’amante, soprattutto, ché un’amante senza amore davvero serve a niente, e l’amore non si auto/protegge, l’amore per definizione si butta via.
Quindi, povero Stefano: forse, al suo posto mi drogherei anch’io. Anzi, no, perché comunque non ci credo, che si possa mai spegnere la mente. A meno che di non prendere un fucile, una sera di primavera, mentre tutti dormono. Di inginocchiarsi a terra e di poggiare il calcio sul pavimento ed ingoiare la canna, le mani unite sul grilletto per non cambiare idea. So di uno che l’ha fatto. Non so se sia stato coraggio, o paura. So che suo fratello – il suo gemello – è tuttora solo in giro per il mondo, senza riuscire a perdonarlo né a perdonarsi né a piangerlo né a piangere. L’ho ascoltato, parlarne. Non sono riuscito a dirgli niente. Ma so che non farei mai una cosa del genere a mia sorella, e che prego lei non lo faccia mai a me. Spegnere la mente non serve. Scappare non serve. Questa vita fa schifo, è rumore, ma è insieme Sergej Vasil'evič Rachmaninov. Forse vale la pena, comunque, di restare svegli ad aspettare come va a finire.
STORIE DI ORDINARIA TRISTEZZA (Le declinazioni affettive di Alfredo Annicchiarico secondo Silla Hicks)
Non lo penso neanche oggi, che pure vita e morte hanno lo stesso insapore dell’assenza, che mi sono scordato come sia, provare qualcosa, qualsiasi cosa, che non sia questo niente sempre uguale.
Ma se fossi un cinquantenne con una moglie che non vuole vedere e un’amante che ha smesso di lottare e una figlia così priva di un minimo di amore per sé da correre dietro a un frocio, bhè, credo che una pera proverei a farmela anch’io. È questo che mi resta, di queste nemmeno cento pagine – in pitch 12 e formato 10x15, va precisato – che vorrebbero essere sceneggiatura di Lelouch riscritta dalla Margaret Mazzantini e invece sono – volontariamente o no – un condensato drammatico sull’incomunicabilità che solo – forse – una Liaison pornogràphique può essere valido paragone.
Quest’uomo si droga, e lo capisco, non vorrei, ma lo sento, soffrire il male di essere che non riesce a dipanare, senza collocazione come marito né amante né padre.
Ambientato nel sottobosco della musica – ché quella di prima grandezza non lascia spazio a niente altro, divora tutto come i Langolieri – questo racconto – romanzo è una parola grossa – trasuda il dolore di Stefano all’ombra dell’uomo che suo padre è e che a lui non riesce di essere: si droga per scappare, e per quanto sia una scelta idiota non gliene riconosco altre, forse la sua amante potrebbe essere una, ma no, lei non è capace, di tendere le braccia a uno che sta annegando e si dibatte e potrebbe trascinarla sott’acqua, per queste cose ci vuole amore, disperato e assoluto, amore, in una parola, e l’amore non cosa da tutti.
E l’assurdo è che l’amante in questione si chiama Emma, lo stesso nome della Bovary, una che per amore ha sacrificato tutto, e senza pensarci: non so se sia ironia consapevole o no, ma certo funziona, come la storia della figlia, che si chiama Camilla come la vergine guerriera dell’Eneide, una che vuole sembrare tosta e che invece è solo una ragazzina, ingenua e con le calze a rete, commoventemene spudorata come solo a vent’anni si può essere, le ciglia bistrate di una bambina che s’impiastriccia di trucco, e sale in albergo con uno che scopa uomini perché suo padre se’è fatto trovare con l’ago nel braccio.
Storie di ordinario degrado familiare, certo. Ma, lo stesso: dio, che desolazione.
E il tutto scritto in una lingua paratattica che nei punti più riusciti ha di Hanif Kureishi, malgrado il voluto provincialismo dei riferimenti, o anzi proprio per questo. Non è una storia facile, di facile ha solo la lingua, e a tratti nemmeno quella, ché ci sono passi da tema, che stonano – musicalmente parlando – ed è un peccato (un esempio, l’uso dei puntini di sospensione, cui Umberto Eco dedica le indimenticabili pagine del suo diario minimo che mi hanno convinto a bandirli dalla mia tastiera). Concludendo, come dice un mio amico, da uno a dieci, quanto: non so, mi servivano altre pagine, personaggi più spessi e una storia intera. Tra tutti, il cattivo patriarca è l’unico che ha le dimensioni – 2 – che dovrebbe avere, gli altri sono abbozzi, tratteggi, forse solo Camilla può andare com’è. Moglie e amante odiose, senz’appello. L’amante, soprattutto, ché un’amante senza amore davvero serve a niente, e l’amore non si auto/protegge, l’amore per definizione si butta via.
Quindi, povero Stefano: forse, al suo posto mi drogherei anch’io. Anzi, no, perché comunque non ci credo, che si possa mai spegnere la mente. A meno che di non prendere un fucile, una sera di primavera, mentre tutti dormono. Di inginocchiarsi a terra e di poggiare il calcio sul pavimento ed ingoiare la canna, le mani unite sul grilletto per non cambiare idea. So di uno che l’ha fatto. Non so se sia stato coraggio, o paura. So che suo fratello – il suo gemello – è tuttora solo in giro per il mondo, senza riuscire a perdonarlo né a perdonarsi né a piangerlo né a piangere. L’ho ascoltato, parlarne. Non sono riuscito a dirgli niente. Ma so che non farei mai una cosa del genere a mia sorella, e che prego lei non lo faccia mai a me. Spegnere la mente non serve. Scappare non serve. Questa vita fa schifo, è rumore, ma è insieme Sergej Vasil'evič Rachmaninov. Forse vale la pena, comunque, di restare svegli ad aspettare come va a finire.
STORIE DI ORDINARIA TRISTEZZA (Le declinazioni affettive di Alfredo Annicchiarico secondo Silla Hicks)
lunedì 27 luglio 2009
Con l’insistenza di un richiamo di Francesco Randazzo (Lupo Editore). Rec. di Silla Hicks
Finalmente uno che ha letto Charles Michael "Chuck" Palahniuk, che l’ha studiato, anzi, è da credere. 110 pagine – 109 – che si leggono in mezz’ora, leggere nel loro terrificante disincanto, e benedette dal filo rosso dell’ironia. Avete presente Soffocare? C’è molto di Chuck, in questi raccontini che parlano di stupri, serial killer, pedofili ed estreme “second lives” come di cose quotidiane, normali, ormai parte del nostro habitat che s’è giocato ogni pudore e ogni valore, e sopravvive incosciente di se stesso. Ognuno è una piccola bomboniera – di tulle nero, è chiaro – che nasconde confetti avvelenati, ma deliziosi: il precario che esce a comprare l’ascia con cui dissezionare il cadavere della sua affittacamere e viene pestato sul raccordo da un lubrico vecchietto, il pedofilo disgustato da un’anziana checca che l’ammazzerebbe per pietà, l’extracomunitario massacrato nel sebac che s’identifica con gli escrementi attorno, l’Elettra moderna che vendica la madre morta di corna uccidendo il padre satiro e paraplegico con i piatti rotti, quello che resta della furia impotente della genitrice.
E poi la prof. obesa di filosofia che vive una vita virtuale hard e una reale di forzata astinenza (dopo la relazione con un prete, cui ha messo fine letteralmente a morsi), e soprattutto il monologo del serial killer sociologo, che ha ucciso 197 persone in 20 anni con precisione chirurgica, clone italico di Dexter, il racconto più lungo e più ispirato, quasi un testo teatrale, e difatti l’autore è regista e sceneggiatore, e si vede. In un mondo che va a rotoli, che convive con l’orrore su tutte le prime pagine e in tutti i TG, questo signore resta immune – e fieramente – dai “cuori mocciolosi” e dai lucchetti ai lampioni, e racconta ciò che vede proteggendosi con l’unica arma che l’intelligenza ha mentre dilaga il buio della mente, l’ironia vera, quella di Pirandello, che è via di fuga e alternativa alla follia. Non si può raccontare, questo libricino che davvero diverte, e insieme fa pensare senza importelo: bisogna leggerlo, e non è uno sforzo, perché, lo ripeto, è scritto con un lessico famigliare che non l’appesantisce oltre i 30 grammi di carta con cui è fatto, dimostrando che si può parlare di tutto usando le parole come tessere da colorare a piacere.
Come per le “Schegge” di Schifano, non è la dimensione che conta, ma la luce, la grana pastosa che t’ipnotizza davanti al fogliettino: sono solo schizzi, sì, ma fatti bene, infinitamente meglio di colossali tele imbrattate giusto per fare cassa.
Non m’esprimo sui lucchetti ai lampioni, io che porto le catene attorno al cuore e un cuore spezzato tatuato sopra il braccio, ma mai mi sognerei d’incatenarlo a qualcosa. Dico solo che ci ho provato, a leggere quei libri, e non sono arrivato oltre pagina quattro, mentre questo qui non volevo che finisse, e quando l’ho chiuso sono rimasto a rifletterci, in silenzio.
Indubbiamente è tosto, sì, ma non più di un ispirato Tarantino o di una performance di Orlan: è una secchiata d’acqua che ti sveglia, e no, non chiamatelo pulp, parola scagliata da Hank e abusata da tutti gli altri a seguire, soprattutto dopo la fiction di Wolf il risolutore e compagni.
Non chiamatelo pulp, perché pulp fa spesso rima con cool, e il cool questi racconti lo sbeffeggiano con l’acume concreto che ha chi non si fa abbagliare dai lustrini della civiltà dell’immagine, e riesce ancora a cogliere la vera natura delle cose: leggetelo, e basta.
E poi, cercate di credere che sia solo fantasia. Provateci, almeno. Se volete riuscire a dormire.
PICCOLA BOTTEGA DI QUOTIDIANI ORRORI (Con l’insistenza di un richiamo – Francesco Randazzo – Lupo Editore 2009)
E poi la prof. obesa di filosofia che vive una vita virtuale hard e una reale di forzata astinenza (dopo la relazione con un prete, cui ha messo fine letteralmente a morsi), e soprattutto il monologo del serial killer sociologo, che ha ucciso 197 persone in 20 anni con precisione chirurgica, clone italico di Dexter, il racconto più lungo e più ispirato, quasi un testo teatrale, e difatti l’autore è regista e sceneggiatore, e si vede. In un mondo che va a rotoli, che convive con l’orrore su tutte le prime pagine e in tutti i TG, questo signore resta immune – e fieramente – dai “cuori mocciolosi” e dai lucchetti ai lampioni, e racconta ciò che vede proteggendosi con l’unica arma che l’intelligenza ha mentre dilaga il buio della mente, l’ironia vera, quella di Pirandello, che è via di fuga e alternativa alla follia. Non si può raccontare, questo libricino che davvero diverte, e insieme fa pensare senza importelo: bisogna leggerlo, e non è uno sforzo, perché, lo ripeto, è scritto con un lessico famigliare che non l’appesantisce oltre i 30 grammi di carta con cui è fatto, dimostrando che si può parlare di tutto usando le parole come tessere da colorare a piacere.
Come per le “Schegge” di Schifano, non è la dimensione che conta, ma la luce, la grana pastosa che t’ipnotizza davanti al fogliettino: sono solo schizzi, sì, ma fatti bene, infinitamente meglio di colossali tele imbrattate giusto per fare cassa.
Non m’esprimo sui lucchetti ai lampioni, io che porto le catene attorno al cuore e un cuore spezzato tatuato sopra il braccio, ma mai mi sognerei d’incatenarlo a qualcosa. Dico solo che ci ho provato, a leggere quei libri, e non sono arrivato oltre pagina quattro, mentre questo qui non volevo che finisse, e quando l’ho chiuso sono rimasto a rifletterci, in silenzio.
Indubbiamente è tosto, sì, ma non più di un ispirato Tarantino o di una performance di Orlan: è una secchiata d’acqua che ti sveglia, e no, non chiamatelo pulp, parola scagliata da Hank e abusata da tutti gli altri a seguire, soprattutto dopo la fiction di Wolf il risolutore e compagni.
Non chiamatelo pulp, perché pulp fa spesso rima con cool, e il cool questi racconti lo sbeffeggiano con l’acume concreto che ha chi non si fa abbagliare dai lustrini della civiltà dell’immagine, e riesce ancora a cogliere la vera natura delle cose: leggetelo, e basta.
E poi, cercate di credere che sia solo fantasia. Provateci, almeno. Se volete riuscire a dormire.
PICCOLA BOTTEGA DI QUOTIDIANI ORRORI (Con l’insistenza di un richiamo – Francesco Randazzo – Lupo Editore 2009)
martedì 14 luglio 2009
Il rientro dell'impulso di Marcello Costantini (Lupo editore)
Il Salento. Terra di transito, di attraversamenti, di ragni tarantolati, di ulivi secolari. Salento, terra di meraviglie barocche, di cultura, non solo terra dove impera lu sule, lu mare, lu ientu! Già perché c’è un aspetto della storia di questo territorio ancora tutta da scoprire, tutta ancora da valorizzare e da apprezzare. Ma il Salento è una porzione di territorio che sta sviluppando una serie di riflessioni editoriali molto interessanti su di un genere letterario che sino a Salvatore Toma ed Antonio Verri non c’era mai stato: ovvero il giallo, i cui primi vagiti a queste latitudini sono stati siglati dalle penne di Giovanni Capodicasa e Raffaele Polo. Poi ecco che subentra un ulteriore tassello a questo mosaico che va pian piano a costruire una sua identità ben definita, e mi riferisco al lavoro di Marcello Costantini dal titolo “Il Rientro dell’impulso” per i tipi di Lupo editore. E addirittura si tratta di un tipo particolare di giallo, ovvero quello di natura archeologica, che attraverso una ricchissima serie di narrazioni e storie tratte da fonti specifiche, attraverso l’utilizzo di analisi proprie di metodi provenienti dalla ricerca in questo ambito, la generosità delle citazioni che mai stancano per come il tutto è costruito, ci fanno provare il piacere di una lettura fatta di intrecci che vanno dalle indagini su Roca e la sua tradizione, di un misterioso archeologo “finto messicano” Pallares (curioso e coltissimo) coinvolto in un singolare omicidio le cui vicende ruotano attorno all’Università del Salento, Maria d’Enghien e la sua vicinanza psicotica al tarantismo e mistica al santo dei ragni (S. Paolo di Galatina), e ancora i Normanni, la civiltà dei Messapi legata al culto di una divinità sconosciuta, e ancora tutta una serie di suggestioni che fanno parlare a viva voce paesi salentini come Galatina, Scorrano, Roca, Specchiulla, Porto Badisco sino ad arrivare a Stoccolma, Parigi e Lisbona. Un libro che contribuisce a mettere a nudo il b-side dell’estremo tacco d’Italia, seguendo un intricato percorso che lo porta tra riti primitivi e regine ''tarantate'', santi ambigui e dei arroganti.
lunedì 13 luglio 2009
Pierluigi Mele, Da qui tutto è lontano (Lupo Editore 2009, pp. 224, con audio-libro cd). Dal 20 luglio in libreria
C’è voluto del tempo. Quindici anni a mettere il punto alla fine. C’è voluto del gioco. Quel gioco che spinge a stupirsi e dannarsi per ciò che verrà oppure no. Il gioco libero. I personaggi si sono perduti e così ritrovati lungo il cammino. Loro a dettare il passo. Loro ad osare. Perché quei personaggi sono forme di una sola figura. Loro a scoprire cose che credevo dimenticate. C’è voluta paura dei propri fantasmi, sino a guardarli con occhi sereni. C’è voluto tutto l’amore per la musica, i colori, l’infanzia, il sorriso. C’è voluto qualcuno accanto che ci credesse davvero. C’è voluto il tempo che occorre. Anche quello per accettare i rifiuti, tanti. Anche questi sono serviti. Il libro non sviluppa un’unica trama, ne miscela diverse, di storie. Fa la spola fra terra e visione, desiderio e reale, amore e memoria, sarcasmo e dolcezza. Si serve di solitarie, estreme figure per dire del tempo, di questo nostro tempo. Questo, orfano di rivolta, dissenso, utopia. Questo, dove i simboli sono bagattelle di sagra. Si serve del sud come perdita, sogno, chimera. Solo il luogo ha un nome concreto, Torre S. Emiliano. Ma è un luogo di fabula. Un luogo di dentro. Si serve di odori perché le parole da sole non sanno né possono dire. Si serve del potere, innanzitutto, ma come metafora di un certo destino. Come filo rosso che stringe il racconto. Non è in poesia, il libro, ma se ne serve lisca per lisca. Non è propriamente romanzo, ma si nutre di letteratura che è vita. Neppure teatro, ma ne segue il fraseggio. Per annodare man mano ogni filo, e alla fine tutto torna dov’era.
Mi avevano chiesto un intervento e non so come stilarlo altrimenti. Mi avevano detto “sei libero, scrivi ciò che ti pare”. Posso dire che parlo di un sogno, nel libro, e che ne aspetto il distacco per saperne di più. Aspetto che si perda lontano come un aquilone sfuggito di mano. Aspetto che qualcuno, più in là, lo raccolga. E allora estraggo un passo dal libro che offre il senso di tutto. Quello che ora dedico a voi. «Credo nel sole, le nuvole, il vento, la neve, la stagione improvvisa che torna, la luna nel pozzo e nei conti che tornano. Credo nei colori, e con questo mio nero li stringo tutti. Credo nell’illusione delle parole, ma credo che un canto valga più di tutti i libri che leggeremo. Credo che la poesia viva dovunque, che sia lei a cercarci, che si tuffi nei versi come ultima spiaggia. Credo in chi si commuove per le sciocchezze e ride senza motivo come un idiota nei campi. Credo nella semplicità e la invidio. Credo in chi non ho mai veduto eppure conosco da sempre, in chi alla fatica sfiorisce ma intanto cammina. Credo in chi ascolta, nei vecchi che svelano siccità e abbondanza con il fiuto dei cani. E soprattutto, credo nel giorno in cui nelle prime file delle autorità siederanno i bambini».
DAL 20 LUGLIO IN LIBRERIA
Mi avevano chiesto un intervento e non so come stilarlo altrimenti. Mi avevano detto “sei libero, scrivi ciò che ti pare”. Posso dire che parlo di un sogno, nel libro, e che ne aspetto il distacco per saperne di più. Aspetto che si perda lontano come un aquilone sfuggito di mano. Aspetto che qualcuno, più in là, lo raccolga. E allora estraggo un passo dal libro che offre il senso di tutto. Quello che ora dedico a voi. «Credo nel sole, le nuvole, il vento, la neve, la stagione improvvisa che torna, la luna nel pozzo e nei conti che tornano. Credo nei colori, e con questo mio nero li stringo tutti. Credo nell’illusione delle parole, ma credo che un canto valga più di tutti i libri che leggeremo. Credo che la poesia viva dovunque, che sia lei a cercarci, che si tuffi nei versi come ultima spiaggia. Credo in chi si commuove per le sciocchezze e ride senza motivo come un idiota nei campi. Credo nella semplicità e la invidio. Credo in chi non ho mai veduto eppure conosco da sempre, in chi alla fatica sfiorisce ma intanto cammina. Credo in chi ascolta, nei vecchi che svelano siccità e abbondanza con il fiuto dei cani. E soprattutto, credo nel giorno in cui nelle prime file delle autorità siederanno i bambini».
DAL 20 LUGLIO IN LIBRERIA
venerdì 19 giugno 2009
La Rassegna "Sul far della sera" alla Taberna Libraria di Martina Franca
Partiranno sabato 20 giugno, presso la Taberna Libraria di Martina Franca, gli “Incontri sul far della sera”, organizzati con la collaborazione di “Fucine Letterarie”. Il noir psicotropo di Delacroix in azione. Un nuovo modo di vedere la cultura, trasformandola da provinciale a centrale, da affaticante a liberante
E allora ecco sabato 20 giugno, con l'azione performativa sul libro di racconti psicotropic noir “Il Sesto” (Lupo Editore) dello scrittore Stefano Delacroix e del giornalista e critico letterario Domenico Fumarola, gli “Incontri sul far della sera – Performances in 6 movimenti letterari”, organizzati dalla Taberna Libraria, in collaborazione con “Fucine Letterarie”.
L'idea condivisa da Taberna Libraria e Fucine Letterarie è quella di offrire brevi, ma intense azioni di scrittura e lettura, orientate - prevalentemente ma non solo - verso autori ed editori pugliesi, come avverrà in questi primi tre mesi. I prossimi autori che “agiranno” all’interno della “Taberna Libraria” saranno infatti: Ilaria Seclì (martedì 30/6), con l’azione a cura di Michelangelo Zizzi sul volume di poesie “Del pesce e dell'acquario” (Lietocolle libri); Giuse Alemanno (domenica 5 luglio), con l’azione a cura di Stefano Donno sul romanzo “Le vicende notevoli di Don Fefè” (Icaro Editore); la salentina Pepita Rosa (martedì 21 luglio), con l’azione a cura di Annarita Lorusso sul testo di fiabe postmoderne “Diadema” (Lupo Editore); l’azione del Prof. Antonio Scialpi (mercoledì 5 agosto) sul volume “Beata ignoranza” (Fandango Editore) di Cosimo Argentina; Mario Desiati (martedì 18 agosto), con l’azione a cura di Michelangelo Zizzi sull’ultima fatica dello scrittore martinese, “Foto di classe” (Laterza Editore).“L'obiettivo degli Incontri sul far della sera – ha dichiarato Michelangelo Zizzi, direttore artistico della Taberna - è quello di trasformare la cultura da provinciale a centrale, da casuale a centrata, da affaticante a liberante. Non si tratta tanto di presentare dei libri, quanto di farli agire. L'idea di performance può sembrare persino antiquata - divisa com'è tra spettacolarizzazione anni '70 e prodotto di consumo artistico - ma la performance di azione è diversa invece, poiché è condotta, in movimento appunto. Non intende essa tanto sorprendere o 'accontentare', quanto agire trasformando”.
La brevità e l'intensità saranno due elementi fondamentali di questo tipo di azione. Nella performance di sabato 20 giugno ci sarà, oltre alla presentazione del book trailer, anche un'azione musicale condotta dallo scrittore Stefano Delacroix - già rocker di livello nazionale - con Franco Speciale. Tutte le azioni letterarie avranno inizio a partire dalle ore 19:30, presso la Taberna Libraria in Via Pantaleone Nardelli 2, Martina Franca.
Per ulteriori Info contattare i numeri: 080/2377578; 333/5871387° scrivere una mail all’indirizzo taberna.libraria@yahoo.it.
E allora ecco sabato 20 giugno, con l'azione performativa sul libro di racconti psicotropic noir “Il Sesto” (Lupo Editore) dello scrittore Stefano Delacroix e del giornalista e critico letterario Domenico Fumarola, gli “Incontri sul far della sera – Performances in 6 movimenti letterari”, organizzati dalla Taberna Libraria, in collaborazione con “Fucine Letterarie”.
L'idea condivisa da Taberna Libraria e Fucine Letterarie è quella di offrire brevi, ma intense azioni di scrittura e lettura, orientate - prevalentemente ma non solo - verso autori ed editori pugliesi, come avverrà in questi primi tre mesi. I prossimi autori che “agiranno” all’interno della “Taberna Libraria” saranno infatti: Ilaria Seclì (martedì 30/6), con l’azione a cura di Michelangelo Zizzi sul volume di poesie “Del pesce e dell'acquario” (Lietocolle libri); Giuse Alemanno (domenica 5 luglio), con l’azione a cura di Stefano Donno sul romanzo “Le vicende notevoli di Don Fefè” (Icaro Editore); la salentina Pepita Rosa (martedì 21 luglio), con l’azione a cura di Annarita Lorusso sul testo di fiabe postmoderne “Diadema” (Lupo Editore); l’azione del Prof. Antonio Scialpi (mercoledì 5 agosto) sul volume “Beata ignoranza” (Fandango Editore) di Cosimo Argentina; Mario Desiati (martedì 18 agosto), con l’azione a cura di Michelangelo Zizzi sull’ultima fatica dello scrittore martinese, “Foto di classe” (Laterza Editore).“L'obiettivo degli Incontri sul far della sera – ha dichiarato Michelangelo Zizzi, direttore artistico della Taberna - è quello di trasformare la cultura da provinciale a centrale, da casuale a centrata, da affaticante a liberante. Non si tratta tanto di presentare dei libri, quanto di farli agire. L'idea di performance può sembrare persino antiquata - divisa com'è tra spettacolarizzazione anni '70 e prodotto di consumo artistico - ma la performance di azione è diversa invece, poiché è condotta, in movimento appunto. Non intende essa tanto sorprendere o 'accontentare', quanto agire trasformando”.
La brevità e l'intensità saranno due elementi fondamentali di questo tipo di azione. Nella performance di sabato 20 giugno ci sarà, oltre alla presentazione del book trailer, anche un'azione musicale condotta dallo scrittore Stefano Delacroix - già rocker di livello nazionale - con Franco Speciale. Tutte le azioni letterarie avranno inizio a partire dalle ore 19:30, presso la Taberna Libraria in Via Pantaleone Nardelli 2, Martina Franca.
Per ulteriori Info contattare i numeri: 080/2377578; 333/5871387° scrivere una mail all’indirizzo taberna.libraria@yahoo.it.
giovedì 18 giugno 2009
NOLENTE di Tony Sozzo (Lupo Editore). Rec. di Silla Hicks
Solo i miracolati hanno un lavoro e una famiglia a trent’anni, e lo dico io che sono stato fino a ieri uno di loro e che anche adesso uno stipendio a fine mese continuo ad averlo, ed è una fortuna, perché anche la mia non vita ha comunque un prezzo.
Tutti gli altri, sono una mandria che si aggira senza prospettive né speranze, cresciuta senza la fame che ti spinge avanti a tutti i costi ma anche senza quel progetto che ti fa vivo non solo nel corpo ma dentro al cuore: ogni giorno li vedo, caracollare avanti e indietro, con i vestiti e tutto il resto di dieci anni più giovane ma dentro una pelle che sta invecchiando pur senza essere mai stata grande.
Niente responsabilità, niente bambini e niente nemmeno rabbia, si trascinano, angeli caduti dal limitare di quell’adolescenza che è stata un nido troppo morbido e che adesso è diventata una gabbia da cui non sanno uscire.
Chiedono a papà le chiavi del SUV o della Punto, a seconda dei casi, ma in ognuno non sanno dove andare, e con chi, e quando, non ridono né piangono, semplicemente sono, un giorno appresso all’altro, finché non arriva la vita e li strattona o - raramente - li prende per la mano.
Non so di chi è la colpa, ammesso che ce ne sia una: ma non credo che dipenda dal lavoro che non c’è, sarebbe troppo facile, e poi non è nemmeno vero: i miei colleghi sono stranieri, soprattutto slavi, e sì che Valerio non l’avrebbe presi, lui che ha cercato in tutti i modi camionisti italiani se solo ne avesse trovati da assumere, tempo indeterminato e orario completo e tutto, venti giorni l’anno di ferie pagate più i riposi, invece niente, lauree quante ne vuoi, ma patente E e CAP praticamente nessuna.
Perché è dura, questa vita, sì, e la paga non ti fa ricco ma solo tranquillo di mangiare ogni giorno, anche se noi c’abbiamo pagato il mutuo quindici anni, e c’avremmo mantenuto i bambini che volevamo e che non potevamo avere: a tratti ho l’impressione che semplicemente non s’abbassino, e d’altronde sono troppo in alto, hanno studiato e via dicendo, e pazienza se quando nomini Proust credono corresse in Formula 1 e di Fassbinder non hanno visto niente, figurarsi parlare di Fritz Lang. Il fatto è che crescere costa sforzo, e questo è tutto: costa sforzo camminare da soli per andare da qualche parte, e combattere e ferirsi le nocche e innamorarsi, soprattutto, perché cazzo se è vero che l’amore fa male.
Costa sforzo alzarsi dal letto, ed uscire là fuori e affrontare i giorni come un’autostrada, dove ci sono caselli, e code, ma alla fine, prima o poi – se non t’addormenti dopo dodici ore di guida, o non muori di freddo in una piazzola sotto la neve della bassa, o non ardi in un traforo perché le porte tagliafuoco hanno lucchetti che nessuno s’è ricordato di aprire – alla fine, insomma, se dio vuole, arrivi. Sia pure a sederti a un tavolo coperto da una tovaglia di plastica, in una casa vuota, con una birra in mano a scrivere, tenendo tra le braccia il tuo fascio di ricordi, che è tutto quello che ti resta, ma ce l’hai, cazzo, ce l’hai, e se ti tocchi le cicatrici capisci che ci sei ancora, anche se ti coricherai dentro un letto vuoto e t’addormenterai piangendo.
Così, basta, cazzo, basta, non si vive nolente, si vive volente, e vaffanculo se fa – e lo fa, è da credere – un male cane.
Questo è ciò che mi resta tra le dita, di questo libro che ho finito in due giorni e ci ho pensato due settimane, cercando di darci un senso che non fosse la rabbia che provo davanti a questa inettitudine che non ha niente a che vedere con Zeno Cosini, ma solo con il tempo in cui vivo. Questo ragazzo – ragazzo? No, mi spiace: uomo, perché a vent’anni sei ragazzo, ma a trenta no, e questo è quanto, lo si ammetta o meno non cambia – che ciondola in ambiente universitario fuori tempo massimo e frequenta ragazzine fuori sede mi fa rabbia, tanto più quanto più so che non è un parto di fantasia. Mi fa rabbia perché non fa niente, niente e dico niente, per avere una vita e non serbatoio di ore: mi fa rabbia perché persino quando crede di amare non si scuote, e dio sa se l’amore non è un elettrochoc per chicchessia l’abbia mai provato. Mi fa rabbia pensare che esista – che esistano – e mi fa rabbia non trovarci una ragione: non perché io abbia la pretesa di capire il mondo, no, ma perché ho il brutto vizio di farmi domande, e l’incapacità di trovare risposte mi frustra, né più né meno come uscire dal cinema senza vedere la fine.
Quindi, è la rabbia, che mi resta, di questo libro: la rabbia di non riuscire a spiegarmi perché ci siano tanti miei quasi coetanei – io sono nato il 10 novembre del ’72, non nell’anno mille – che non vanno da nessuna parte, mentre la clessidra li si vuota tra le mani. Perché – lo si accetti o no – il tempo passa. E diventa sempre tardi, non importa quanto sia stato presto, fino a ieri.
Così, non so dire se di queste pagine, fiumana di quello che vorrebbe essere stream of consciousness, questo sì a tratti – nelle intenzioni - Sveviano, che scorre lenta, tortuosa, persino incerta, come il protagonista, mi resti altro.
Ma che volete farci, sono un camionista, io. Un operaio. Non ci sono andato neanche un giorno, all’università. Convivevo già, a diciannove anni. Volevo crescere, diventare grande. L’amore mi ha fatto a pezzi. Non posso capire, cosa significhi avere trent’anni, oggi. Avere il mondo in mano e il cuore vuoto e ignorarli entrambi, e lasciarsi nolentemente vivere.
Perché ci ho provato a vivere, io, prima di diventare questo. Non so se Ettore/Italo – ironia della sorte, come me sospeso tra questo paese e quell’altro – mi definirebbe un lottatore o no, ma so che ci ho provato, a non essere un inetto, a piangere e ridere ed esistere. So che ci ho provato, a sentire l’amore. E che ne è valsa la pena di tutto. Anche del dolore, anche di stasera. Che ne vale sempre la pena, perché, altrimenti, allora sì che non c’è nessun senso.
E tra il nolente e il niente – per me, sempre per me – è meglio il niente.
No, non mi riferisco al nichilismo, abusato dal protagonista come la frase ti amo sulla bocca della maggior parte della gente. Voglio dire il niente che è niente davvero. Staccare la spina. Game over.
Certo, è un peccato. Perché, credetemi, c’è sempre la vita, là fuori.
VOLENTE O NOLENTE Rec. Di Silla Hicks
(NOLENTE di Tony Sozzo – Lupo Editore, Copertino, 2008)
Tutti gli altri, sono una mandria che si aggira senza prospettive né speranze, cresciuta senza la fame che ti spinge avanti a tutti i costi ma anche senza quel progetto che ti fa vivo non solo nel corpo ma dentro al cuore: ogni giorno li vedo, caracollare avanti e indietro, con i vestiti e tutto il resto di dieci anni più giovane ma dentro una pelle che sta invecchiando pur senza essere mai stata grande.
Niente responsabilità, niente bambini e niente nemmeno rabbia, si trascinano, angeli caduti dal limitare di quell’adolescenza che è stata un nido troppo morbido e che adesso è diventata una gabbia da cui non sanno uscire.
Chiedono a papà le chiavi del SUV o della Punto, a seconda dei casi, ma in ognuno non sanno dove andare, e con chi, e quando, non ridono né piangono, semplicemente sono, un giorno appresso all’altro, finché non arriva la vita e li strattona o - raramente - li prende per la mano.
Non so di chi è la colpa, ammesso che ce ne sia una: ma non credo che dipenda dal lavoro che non c’è, sarebbe troppo facile, e poi non è nemmeno vero: i miei colleghi sono stranieri, soprattutto slavi, e sì che Valerio non l’avrebbe presi, lui che ha cercato in tutti i modi camionisti italiani se solo ne avesse trovati da assumere, tempo indeterminato e orario completo e tutto, venti giorni l’anno di ferie pagate più i riposi, invece niente, lauree quante ne vuoi, ma patente E e CAP praticamente nessuna.
Perché è dura, questa vita, sì, e la paga non ti fa ricco ma solo tranquillo di mangiare ogni giorno, anche se noi c’abbiamo pagato il mutuo quindici anni, e c’avremmo mantenuto i bambini che volevamo e che non potevamo avere: a tratti ho l’impressione che semplicemente non s’abbassino, e d’altronde sono troppo in alto, hanno studiato e via dicendo, e pazienza se quando nomini Proust credono corresse in Formula 1 e di Fassbinder non hanno visto niente, figurarsi parlare di Fritz Lang. Il fatto è che crescere costa sforzo, e questo è tutto: costa sforzo camminare da soli per andare da qualche parte, e combattere e ferirsi le nocche e innamorarsi, soprattutto, perché cazzo se è vero che l’amore fa male.
Costa sforzo alzarsi dal letto, ed uscire là fuori e affrontare i giorni come un’autostrada, dove ci sono caselli, e code, ma alla fine, prima o poi – se non t’addormenti dopo dodici ore di guida, o non muori di freddo in una piazzola sotto la neve della bassa, o non ardi in un traforo perché le porte tagliafuoco hanno lucchetti che nessuno s’è ricordato di aprire – alla fine, insomma, se dio vuole, arrivi. Sia pure a sederti a un tavolo coperto da una tovaglia di plastica, in una casa vuota, con una birra in mano a scrivere, tenendo tra le braccia il tuo fascio di ricordi, che è tutto quello che ti resta, ma ce l’hai, cazzo, ce l’hai, e se ti tocchi le cicatrici capisci che ci sei ancora, anche se ti coricherai dentro un letto vuoto e t’addormenterai piangendo.
Così, basta, cazzo, basta, non si vive nolente, si vive volente, e vaffanculo se fa – e lo fa, è da credere – un male cane.
Questo è ciò che mi resta tra le dita, di questo libro che ho finito in due giorni e ci ho pensato due settimane, cercando di darci un senso che non fosse la rabbia che provo davanti a questa inettitudine che non ha niente a che vedere con Zeno Cosini, ma solo con il tempo in cui vivo. Questo ragazzo – ragazzo? No, mi spiace: uomo, perché a vent’anni sei ragazzo, ma a trenta no, e questo è quanto, lo si ammetta o meno non cambia – che ciondola in ambiente universitario fuori tempo massimo e frequenta ragazzine fuori sede mi fa rabbia, tanto più quanto più so che non è un parto di fantasia. Mi fa rabbia perché non fa niente, niente e dico niente, per avere una vita e non serbatoio di ore: mi fa rabbia perché persino quando crede di amare non si scuote, e dio sa se l’amore non è un elettrochoc per chicchessia l’abbia mai provato. Mi fa rabbia pensare che esista – che esistano – e mi fa rabbia non trovarci una ragione: non perché io abbia la pretesa di capire il mondo, no, ma perché ho il brutto vizio di farmi domande, e l’incapacità di trovare risposte mi frustra, né più né meno come uscire dal cinema senza vedere la fine.
Quindi, è la rabbia, che mi resta, di questo libro: la rabbia di non riuscire a spiegarmi perché ci siano tanti miei quasi coetanei – io sono nato il 10 novembre del ’72, non nell’anno mille – che non vanno da nessuna parte, mentre la clessidra li si vuota tra le mani. Perché – lo si accetti o no – il tempo passa. E diventa sempre tardi, non importa quanto sia stato presto, fino a ieri.
Così, non so dire se di queste pagine, fiumana di quello che vorrebbe essere stream of consciousness, questo sì a tratti – nelle intenzioni - Sveviano, che scorre lenta, tortuosa, persino incerta, come il protagonista, mi resti altro.
Ma che volete farci, sono un camionista, io. Un operaio. Non ci sono andato neanche un giorno, all’università. Convivevo già, a diciannove anni. Volevo crescere, diventare grande. L’amore mi ha fatto a pezzi. Non posso capire, cosa significhi avere trent’anni, oggi. Avere il mondo in mano e il cuore vuoto e ignorarli entrambi, e lasciarsi nolentemente vivere.
Perché ci ho provato a vivere, io, prima di diventare questo. Non so se Ettore/Italo – ironia della sorte, come me sospeso tra questo paese e quell’altro – mi definirebbe un lottatore o no, ma so che ci ho provato, a non essere un inetto, a piangere e ridere ed esistere. So che ci ho provato, a sentire l’amore. E che ne è valsa la pena di tutto. Anche del dolore, anche di stasera. Che ne vale sempre la pena, perché, altrimenti, allora sì che non c’è nessun senso.
E tra il nolente e il niente – per me, sempre per me – è meglio il niente.
No, non mi riferisco al nichilismo, abusato dal protagonista come la frase ti amo sulla bocca della maggior parte della gente. Voglio dire il niente che è niente davvero. Staccare la spina. Game over.
Certo, è un peccato. Perché, credetemi, c’è sempre la vita, là fuori.
VOLENTE O NOLENTE Rec. Di Silla Hicks
(NOLENTE di Tony Sozzo – Lupo Editore, Copertino, 2008)
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