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giovedì 1 ottobre 2009

“Muse” di Tonino Vincent Caputo (Luca Pensa editore). Recensione di Vito Antonio Conte

Nello scorso mese di giugno, Luca Pensa Editore (ch'è anche il mio Editore) ha dato alle stampe, proseguendo in un apprezzabile “lavoro” iniziato diversi anni addietro, cioè pubblicare poesia, l'ultima raccolta di versi di Tonino Vincent Caputo (“Muse”, Collana AlfaOmega, pagine 82, € 12,00). Caputo, nativo di Ascoli Satriano (FG) e magliese d'adozione, mi ha chiesto, tramite l'Editore, di prefarre l'opera citata. Non credo molto agli “interventi” fuori testo nel testo, anche se diversi ne ho fatti, altre volte li ho richiesti. Non credo alle pre-fazioni, post-fazioni e varie quando sono prezzolate e/o rientrano in mere operazioni di marketing. Siccome non mi hanno pagato per farlo, né era pensabile che una mia “nota” potesse far vendere foss'anche una copia in più del libro, ho letto la raccolta e, verificata quella che mi è sembrata essere una scrittura sincera (...), ho accettato di scrivere quella che ho chiamato “Se la musa tocca il cuore...”. Ve la ripropongo qui di seguito, dando un po' di “visibilità” al libro perché credo che l'Autore lo meriti. Non ho mai incontrato di persona Tonino Vincent Caputo; qualcosa di lui, comunque, so. Senza presunzione. So (o credo di sapere) che ama i luoghi di confine, quelli dove l'incerto è di casa, dove non crescono i mondi assurdi costruiti dall'uomo, dove l'uomo ha ancora una possibilità di salvezza, dove la solitudine è compagna e ti tiene la mano intanto che le assenze emergono e s'annullano nel d'intorno (ch'è regno della Natura), dove una voce arriva leggera e ridesta ricordi, dove è facile perdersi senza smarrirsi, dove la spietata curva del tempo è amica, dove il vento è suono d'armonia, dove luce e buio s'inseguono senza confondersi, dove stare per sempre sarebbe facile. Se non fosse che, in modo viscerale, anche il resto gli appartiene e, in qualche modo, al resto appartiene lui. Caputo ama starsene ai margini di quel resto. Osservare e nutrire pensieri. Caputo non può far altro che fermare tempo e pensieri con le parole. Per sentirsi vivo. Per far sentire ch'è vivo. Per dirla quella sua vita. Non sa, Caputo (schernendosi), se il suo dire l'esistenza in versi è poesia. Preferisce, umilmente, che siano gli altri a dirlo. Nemmeno io so se i suoi versi sono poesia. Poco importa. Quel che davvero conta è che (sia che le parole assumano liricità alte, sia che diventino invettiva, sia che esprimano altro...) nei versi di Caputo non alberga mistificazione alcuna. Chissà, conoscendolo potrei mutare il mio sentire, ma il mio istinto e la lettura di questo libro mi dicono (senza arroganza) che Caputo è uomo che guarda dritto in faccia chi gli sta di fronte e, soprattutto, dice quel che pensa, senza riserve, a costo di giocarsi qualche rapporto, ché i rapporti importanti sono quelli autentici, dove forma e sostanza coincidono. I versi di questa raccolta raccontano questo, testimoniano dei fallimenti e delle gioie di un uomo, delle sue aspirazioni, delle sconfitte e dei sogni rimasti intonsi nonostante i giorni e le nefandezze del quotidiano stare in questa Terra, delle speranze ancora coltivate e delle piccole felicità che -se le riconosci- sono dietro l'angolo, narrano di chi c'è ancora e del ricordo di chi è altrove. E dell'amore. Di quello andato. Di quello che sarebbe potuto essere e non è stato. Di quello espresso. Di quello conservato dentro. Di quello taciuto. E di quell'amore che non può tacersi, che pulsa irresistibilmente dentro, tanto da esplodere, deflagrando in parole. Parole che danno vita eterna a questi versi. Qui, aggiungo che -scrivendo queste poche righe- pensavo, in particolare, a una poesia che chiude così: “Un giorno qualcuno forse / ti parlerà di me, lusingandomi / usando parole / fino ad ora a noi sconosciute. / Ma allora figlia mia / non ci sarò più, / e tu gli risponderai / che avresti preferito / un padre ad un poeta”.

Il volume può essere richiesto alla mail penspol@alice.it

domenica 20 settembre 2009

LA VITA NON È UN GIOCO - QUEL CHE RESTA DELLA POLVERE DI VITO ANTONIO CONTE, letto da Silla Hicks (Luca Pensa editore)

















No, non è un gioco, questo quadernetto che davvero spero non ce ne siano 188 copie soltanto sparse per il mondo, perché la vita non è un gioco, l’amore non è un gioco, e nemmeno il dolore che si prova a respirare ogni giorno. Piuttosto, è un labirinto, quel maledetto castello dei destini incrociati in cui tutti prima o poi ci siamo persi, senza che nessun corpo dei Marines si ricordasse di venire a salvarci e spesso senza nemmeno la speranza, come i Russi dentro al teatro ostaggio dei Ceceni, la loro rassegnata mancanza di attesa della cavalleria più straziante dello schianto degli aerei contro le torri. Tutti ci siamo addormentati in un treno vuoto su un binario morto, per svegliarci e scoprire che non c’era nessun posto dove andare, e vaffanculo se era il nostro letto e la nostra stanza e tutto il resto, vaffanculo se era estate o inverno, eravamo noi, fermi lì, eravamo noi e attorno non c’era più niente, nemmeno il ricordo di una ragazza cui avevamo lasciato un foglietto azzurro con i versi di qualcuno, a farci compagnia. E certo che, cazzo, altre volte era servito, rileggere quelle righe e ricordare l’emozione di quei cocci di tempo in cui era sembrato possibile, perché se c’è una cosa che sta dentro all’amore è la speranza, e anche se non era amore c’assomigliava, e si trascinava come un aquilone una coda di speranze, di sogni adolescenti e di euforia, e vaffanculo se è durato un pomeriggio, se è svanito prima che potessimo imprimerci il colore di occhi e capelli: a vita non lo scorderemo, il suo odore. E a ciascuna abbiamo dato quello che potevamo, per quello che eravamo in quell’istante, e pazienza se era solo qualche brandello di quello che saremmo stati, se la vita avesse avuto un senso. Se non ci portassimo i nostri errori nello zaino, e una ferita purulenta che ci fa tremare di febbre sotto al sole di questo agosto che non vuol finire, che l’unica volta che ho fatto il bagno era notte, ed ero così ubriaco da non ricordarmi più nemmeno come si nuota a stile, e mi sono solo lasciato galleggiare, per chilometri, cetaceo morente che lotta per non spiaggiarsi, gli occhi sbarrati nell’acqua nera, e poi tornare indietro ed odiare il mondo che esisteva ancora. Avrei fatto qualsiasi cosa per cancellare l’incancellabile, la gomma in inglese si chiama eraser, perché cancella, to erase, appunto vuol dire cancellare, ma non ci sono gomme in una vita – in tante vite – che vorremmo riscrivere. In cui stiamo inchiodati a sputare bestemmie nel vento.
In cui siamo a pezzi, broken into a thousand pieces, rotti in mille pezzi, e nessuno può ricomporli, o – il che è uguale – chi potrebbe non vuole. E la musica fa male come aghi dentro agli occhi, lancinante come il ricordo, e neanche perdere la memoria servirebbe, il dolore è nell’aria che respiriamo, e senza non potremmo esistere. Così, ci abituiamo e lo teniamo per la mano, questo blues che gronda sangue marcio e assieme fiori, senza il quale di noi non rimarrebbe niente, perché il resto – il lavoro, i soldi, i libri e i film, tutti i traguardi che abbiamo provato a tagliare e quelli che ci sono sfuggiti – è squallido palliativo, serve solo a riempire il tempo che hai vuotato. E non possiamo non accorgercene, illuderci che basti, girarci dall’altra parte, rimetterci a dormire, come se non fossi mai esistita, come se questo ammasso di cose bastasse ad essere il mondo. No, davvero non è un gioco, questo quadernetto che condensa quel che rimane della polvere che è stato il giorno, Ishiguro consapevole o meno, con dentro quel pensiero triste che si balla che è stato il tango di Borges. E davvero spero che non ce ne siano solo 188 copie, quando che ne stanno 188 mila di cazzate che lasciano tutto come l’hanno trovato, Mc bestseller del cazzo con dentro il vuoto di Newton, ma su questo ho sempre detto come la penso, perciò sono accanito sostenitore dello streaming, the pirate bay (per adesso, purtroppo, fenomeno limitato alla musica) come metafora di quello che dovrebbe essere il mondo.
Se anche fosse, comunque, e non vi riuscisse di trovarlo, questo libricino che peraltro contiene testi a fronte in due lingue (spagnolo e inglese, disgraziatamente manca proprio il mio tedesco) e illustrazioni che hanno di Manara, fatevi vivi. In ufficio da mia sorella c’è una fotocopiatrice, male che vada, le chiederò un favore.

domenica 13 settembre 2009

Frammenti di un interno - romanzo anomalo di Vito Antonio Conte (Luca Pensa editore). Rec. di Silla Hicks



















Quando ti riesce di scrivere qualcosa di buono, non è perché la gente ne parla o vinci un fottutissimo premio. È perché quando lo leggono indovinano chi sei, o almeno ci provano: per questo, a parte Marcel, non credo ci siano persone che possano raccontare chiuse nella propria stanza di cose che non hanno mai visto, perché non le posseggono, e allora tutto suona stonato e falso, per quanto apparecchiato bene. Mi spiego: chi prova a scrivere, e lo fa seriamente – che ci riesca o no, è un discorso a parte – apre una finestra su di sé, prima che sulla storia. Se hai il tempo e la voglia di guardarci dentro, in controluce vedi l’autore com’è veramente, impietosamente, magari, come un cadavere livido sotto il neon dell’anatomopatologo. Vedi un gigante goffo e miope con la maglietta dei Red Sox, nelle pagine più riuscite di IT. Un signore straniero con una buffa barbetta a punta innamorato degli Uffizi, tra quelle dell’Incantatrice di Firenze. Una donna magra e disperata che vorrebbe un’altra vita e un altro corpo che non le siano entrambi prigione, straziata dietro l’ineffabile sorriso di fenice di Orlando.
In alcuni casi è più facile. Ci sono quelli come Hemingway, che raccontano la propria vita e le proprie storie – la guerra civile spagnola, la Parigi di Picasso e della regina Stein - per quelle che sono. Altri, come Roth, che ne prendono spunto e basta. Ma dietro c’è sempre qualcuno che scrive in quel modo e dice quelle cose perché sa di che sta parlando.
Altrimenti, è aria fritta. Non c’è immaginazione che tenga, se manca l’esperienza, se non si hanno i calli sulle dita. L’ immaginazione è solo un velo, e non può separarci dal nulla.
Per questo, questi frammenti di un romanzo mi restano impigliati, anche adesso che il libro l’ho chiuso.
Non è tanto la storia – a metà tra indagine e diario – ma il modo in cui è scritta, tra Herzog e Gadda, visionaria ma intrisa di tecnica esperienza, insieme Fitzcarraldo e la Meccanica, in cui il quotidiano si mescola inconsapevolmente alla storia che racconta, e ci sono canti in latino dentro cattedrali di pietra e termini come “anatocismo”, che sarebbe un sistema illegale di calcolo d’interesse, m’ha detto Luca, che fa il direttore di banca.
Non si leggono alla leggera, queste 114 pagine in pitch 12, come i racconti dell’Adalgisa che devi seguire il rigo per non perderti la parola chiave, non è il cut off di Burroughs – non ancora? - ma questo signore l’ha letto eccome, Burroughs, e si vede, come si vede che si suda ogni frase, che se la gira e rigira prima di lasciarla com’è.
Premetto: non è un giallo, non so se voleva esserlo, ma non è questo, questo libro, quanto piuttosto un train de vie, immaginifico e insieme concreto, perché questo signore non è uno che può permettersi di scrivere e basta, e se lo porta dietro, si porta dietro il suo lavoro normale, le sue giornate normali, e senza di questo non ci sarebbe storia.
E così vaffanculo se non tutto è credibile, vaffanculo se non si resta col fiato sospeso sulle tracce del serial killer e persino se l’impaginazione tirchia ha ridotto a sbarre gli a capo di pagina 90 e 91 ché la prosa poetica avrebbe meritato, perché io non capisco un cazzo di metrica, ho fatto 4 anni all’Istituto d’arte e mi guadagno da vivere con la patente, ma dentro queste righe c’è il ritmo di Capossela.
Può darsi che il 13 febbraio 2005 non sia successo niente, ma non ci credo, o forse è successo ma non in quella data, non lo so, in fondo uno scrittore s’inventa anche le cose che vive. Come so che “quella donna” c’è stata davvero, non avevi bisogno di precisarlo, c’è stata davvero e ci sarà a vita, ovunque andrai, perché nessuno che l’abbia incontrata può riuscire a scordarsela: al massimo, può sperare che l’ignori, e stare lontano dalle luci di Samarcanda.
Io, che non ho il tuo né nessun altro dio che mi abbracci, che l’ho incontrata a 17 anni e dopo cercata tante volte senza che si facesse trovare, ho smesso di crederci fino a degradarla ad interruttore, ma io sono un amante tradito che per sopravvivere deve smontare pezzo per pezzo lo sguardo in cui vorrebbe annegare, e anche se con una donna – per me, l’unica –non ci sono riuscito, con “quella donna” ho fatto un buon lavoro.
Ma questa è un’altra storia.
Quello che so, è che anche tu l’hai vista, e che ci sono cose che solo chi l’ha viste le può raccontare. Prima che vadano perdute, come lacrime, nella pioggia.

Quella donna e altre cose. FRAMMENTI DI UN INTERNO – ROMANZO ANOMALO DI VITO ANTONIO CONTE. Letto da Silla Hicks)

fonte iconografica: www.lucioangelini.splinder.com/archive/2007-11

sabato 4 aprile 2009

Blues Tango's di Vito Antonio Conte


E se le ombre non fossero più materia
del tuo corpo
cercherò le tue labbra
in piccoli fogli di carta
E se la materia non potesse più dar vita
a nessuna ombra
libererò la mia anima
prigioniera del tuo abbraccio
E se la tua assenza
fosse più vicina del mio sonno
non ti chiederò più nulla
per sfuggire alla parola fine

Vito Antonio Conte, Quel che resta della polvere, Luca Pensa editore, gennaio 09. tiratura limitata di 188 copie

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