Giusto in tempo. Per motivi di studio nei giorni scorsi mi sono recato prima a Camerino e poi più per piacere che per impegni istituzionali, ho fatto una piccola gita nella Repubblica di S. Marino, dove ho avuto la fortuna di poter visitare la splendida e curatissima mostra che non può non essere gustata dagli amanti del genere: “Vampiri e Licantropi, creature della notte” che è stata allestita nelle sale del Nido del Falco (Contrada dei Magazzeni). L’evento parla di 4000 Anni di Paura ovvero la storia, la vita e le origini dei più famosi e sanguinari succhiatori di sangue; dagli albori della storia umana agli ultimi ritrovamenti moderni di sepolture esorcizzate. Indubbiamente negli ultimi mesi, dopo il successo di “Twilight” di Stephenie Meyer la parola “vampiro” sembra ritornare con insistenza in auge con tutta la sua carica erotico-gotica e il suo fascino oscuro (anche se con innumerevoli contaminazioni pop), ma non solo in ambito cinematografico. Recentemente Newton Compton ha pubblicato la bellissima saga “succhiasangue”, “Il diario del vampiro” in ben sei volumi di Lisa Jane Smith che ha venduto oltre diecimila libri con questa serie che ha come protagonisti Elena, Stefan e Damon, negli episodi dal titolo “Il risveglio, La lotta, La furia, La messa nera e Il ritorno”. Possiamo parlare certamente di un revival mediatico veramente notevole, che si aggiunge alla mitologia editoriale che va da Bram Stoker sino ad Ann Rice. Gargoyle Book pubblica il meraviglioso saggio di Emilio de’ Rossignoli dal titolo “Io credo nei vampiri” pubblicato nel 1961 dall'editore Luciano Ferriani e da allora mai più ristampato, e che fortunatamente ora le nuove generazioni e gli “aficionados” di queste misteriose creature potranno apprezzare fino in fondo.
Stiamo parlando fondamentalmente di un saggio, pregevolissimo sia per stile che per contenuti (si va ad analizzare storia, antropologia, folklore che riguarda non solo i vampiri, ma anche incubi, succubi, licantropi, lamìe, golem, zombie, fantasmi e chi più ne ha più ne metta), rigoroso da un punto di vista scientifico nell’analisi che l’autore porta avanti, nell’esposizione proveniente da diverse fonti sugli episodi più inconsueti e inquietanti, e dotato di un apparato bibliografico veramente sorprendente che include titoli come il “Manuale exorcistarum ac parochorum” di Padre Candido Brognolo da Bergamo (1651) sino all’immenso Philosophicae et Christianae Cogitationes de Vampiriis di Giovanni Cristoforo Heremburg (1773), o al più moderno Lycanthropie et vampirisme apparso sulla rivista medica “Aesculape” a firma di Roland Villeneuve (1956), solo per citare pochissimi esempi. La mia personale meraviglia, risiede soprattutto nel fatto che De’ Rossignoli, scava a fondo sull’argomento “vampiri” con tanta attenzione, e profondità, che senza ombra di dubbio quest’opera è non solo completa, ma risulta nel panorama della storia della saggistica italiana, il lavoro più completo in quanto include svariati punti di vista sull’argomento in ambito cinematografico, letterario, musicale, pittorico, religioso, mitologico, politico, scientifico, biologico, botanico, giurisprudenziale facendo fruttare al massimo tutte le possibili fonti archivistico-librarie consultate dall’autore, che hanno conferito al tutto l’aspetto di eccezionalità! Sinceramente non immaginavo fosse possibile l’esistenza di un volume che unisse scienza e divulgazione a così elevati livelli. A spingermi nel consigliare vivamente l’acquisto e la lettura di questo lavoro, sono gli splendidi interventi di Angelica Tintori, Danilo Arona e Loredana Lipperini, che scrive nella sua postfazione dal titolo “Bruciare le stoppie” a pag. 365: “Manca, in Italia, la consapevolezza della potenza letteraria dell'horror. Quella che potrebbe avere, e quella che ha avuto. È esistito, nel Novecento, un gotico italiano che sembra essere passato senza lasciare traccia: quello di Tommaso Landolfi, di Dino Buzzati, dello stesso Italo Calvino. L'horror italiano, oggi, è - salvo [.] eccezioni - quello di un piccolo gruppo che si trincera dietro l'incomprensione altrui, e che vivacchia senza guardarsi attorno”.
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martedì 14 luglio 2009
venerdì 3 luglio 2009
La vita agra di Luciano Bianciardi (Bompiani). Rec. di Vito Antonio Conte
Sono passate da poco le otto del mattino di sabato nove maggio duemilanove quando leggo “La morbida bolla di luce gocciò e si ruppe sulla pagina aperta. Come quella che spenge Anna prima di veire nel mio letto. E anch'io, tra poco, sbotto e goccio. Dunque quel plopped va bene così, no? Poi il sonno è già arrivato e per sei ore io non ci sono più”. Sono gli ultimi righi de “La vita agra”, quelli che chiudono il capolavoro di Luciano Bianciardi (Tascabili Bompiani, pagine 197, € 8,00). Ci sono libri che vorresti aver letto molto tempo prima di quando accade, altri che non lasciano segno, altri ancora che li leggeresti ancora una volta se soltanto non sapessi che c'è tanto altro da conoscere e il tempo è quel che è... Poi pensi che nulla accade per caso, anche quando la casualità sembra vestire il suo abito migliore. E allora, Bianciardi era lì, sullo scaffale dei libri da leggere, in bella vista, da diversi anni, aspettava il suo turno e il suo momento è arrivato: mi è piaciuto sin dall'incipit: per l'apparente sconclusionata digressione su fonemi e dialetti, per la citazione di Manduria (poi citerà anche Lecce e Copertino), per quell'aria di vita da fiera paesana che si respira immediatamente, per la citazione latina pertinente, per quel “Storto d'occhi ma dritto d'animo...” e, poi, mi è piaciuto per mille e mille altre ragioni, sino alla fine, quella che vi ho riportato in apertura di pezzo. Per chi non l'avesse ancora letto, non svelerò altro. Dirò soltanto che libertà è volerla e viverla, nonostante tutto e tutti, come se le vite fossero almeno due. Poi nient'altro dirò di questo libro, ch'è un capolavoro, come ho scritto sopra, e allora io -che non sono un critico letterario- cos'altro posso aggiungere? Un capolavoro è tale quando, narrando una storia qualunque, contaminando realtà e fantasia, rimane sempre attuale, contenendo la magia di trasmettere qualcosa al lettore. “La vita agra” è questo, ma non solo evidentemente... è soprattutto l'elogio delle marginalità, di tutte le marginalità, delle marginalità di ogni strato sociale, rese con crudezza, ma con un'eleganza stilistica unica e con una scrittura -all'un tempo- sobria e ricercata, ricca di neologismi, mai fine a se stessi, ma intercalati per dettare ritmo e sonorità al fluire della narrazione. Per evidenziarne i tempi. Per scandirne i momenti. Per esaltarne l'importanza. Il libro è stato scritto (in quel di Milano) nell'inverno del 1960-61 (fu pubblicato nel 1962 da Rizzoli) e del luogo e della stagione (ma del periodo, più in generale) contiene tristezze e contraddizioni. Italo Calvino fu uno dei primi lettori della bozza e ne rimase entusiasta. Bianciardi lo definì (prima ancora della pubblicazione) “la storia di una solenne incazzatura” e, subito dopo la prima edizione (stante l'immediato successo di critica e di vendite), ebbe a annotare: “Forse la vita agra stavolta è finita davvero”. È incredibile leggerlo e notare come in quasi cinquantanni sia cambiato il mondo e accorgersi che in fondo certe cose non cambiano mai. Ma sono di parola: non vi dico del romanzo. E poi, non mi è mai piaciuto, parlando di libri, soffermarmi sulla trama! Chiuderò questo pezzo con le stesse parole di Bianciardi, che non troverete nel romanzo, ma nella “Cronologia” della sua (breve e intensa) vita. Poco dopo essersi laureato, Bianciardi si sposa e a distanza di poco più di un anno e mezzo (ottobre 1949) nasce il primo figlio, Ettore. Nell'occasione Luciano Bianciardi riceve la visita di suo padre e di quell'incontro dice: “... parlammo della nostra vita, e di quella nuova vita che era nata ora. Dovemmo concludere che avevamo fallito, lui ed io, e forse anche suo padre, se c'erano state due guerre mondiali con tanti morti, e la miseria e la fame, e così scarsa sicurezza di vita e di lavoro e di libertà per gli uomini del mondo. Io conclusi che non doveva più accadere tutto questo, che non volevo che mio figlio, come me e come mio padre, rischiasse un giorno di morire o di uccidere, di soffrire la fame o di finire in carcere per avere idee sue, libere. Non potevo più neppure rinunciare ad avere fiducia nel mio mondo e nei miei simili, chiudermi in un bel giardinetto umanistico e di ozio incredulo, soddisfatto dell'aforisma che al mondo non c'è nulla di vero. Dovevo scegliere, la presenza di mio figlio me lo imponeva, non potevo neppure pensare di risolvere il problema individualmente, o di rimandarlo a più tardi, cercare, al momento buono, di truffare l'Ufficio leva, o creare per mio figlio una situazione di privilegio, far di lui , come aveva voluto mia madre. Non ci sarà soluzione sicura per mio figlio se non sarà sicura anche per tutti i bambini del mondo, anche questo mi pareva abbastanza chiaro... non basta essere soli col proprio lavoro e con la propria miseria, ci vuole anche un figlio per desiderare l'avvenire e lavorare a costruirlo”.
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