Quando sono arrivato qui, oltre vent’anni fa, mi capitava spesso. Camminavo per strada, e li sentivo, i vecchi, sussurrarmelo alle spalle, il loro dialetto che non capivo, solo qualche parola comprensibile, tagliente, il sibilo di un coltello, all’altezza delle scapole, stramaledetti tedeschi, ce l’avevo scritto in faccia, chi ero.
Col tempo, avevo imparato ad evitarli, ad incassare il collo nelle spalle se proprio dovevo passare davanti alle loro panchine, ma non ho mai pensato di rispondere, di difendermi. Sapevo, già allora, cos’abbiamo fatto. Abbiamo, tutti. Anche quelli nati nel ’72, come me, che la notte dei cristalli non erano nemmeno nella mente di dio (ammesso che quella notte ce ne fosse uno).
Oggi non c’è più tanta gente che ricorda. I ragazzini fuori dai licei non sanno nemmeno che ci sia stata, la Shoà, e forse per questo bruciano le bandiere di Israele. Sono e sembro ancora un tedesco, parlo con il mio accento e porto i miei occhi e i miei capelli, ma non c’è rimasto più quasi nessuno a considerarli il segno del demonio. Di quelli che abbiamo invaso e trucidato, non è rimasto che qualche capitolo nei libri di scuola, ma è nelle ultime pagine, e si sa che la maggior parte delle classi non finisce il programma, così per tanti studenti italiani le SS restano i cattivi di qualche film: non voglio dire di chi, tra loro, si tatua le svastiche, adesso. Sinceramente, spesso, non voglio nemmeno pensare che esista. Perché io sono uno stramaledetto tedesco, e so. Io, e tanti come me, sappiamo di parlare la lingua di chi ha scritto l’abominio di Mein Kampf. E non riusciamo a perdonarcelo, anche se è stato prima di noi: ne portiamo gli occhi azzurri come un lutto, sappiamo di essere nipoti di chi l’ha lasciato fare. Per questo, ci ho messo un po’ prima di trovare il coraggio di leggere questo libro. Perché parlava di quella parte della storia del mio paese che vogliamo dimenticare, di quel bagaglio ingombrante che ci fa vergognare del nostro accento e delle nostre facce, che ci fa desiderare di chiedere scusa, come se potesse valere a qualcosa, dopo milioni di innocenti morti. Perché l’ho sfogliato, riconoscendomi nelle foto, e ho pensato che sì, le razze esistono. Noi, ci assomigliamo. Marie Therese è identica a mia sorella, e io ricordo parecchio Eugen Ott, o almeno lo ricordavo, prima che tutto andasse a rotoli, perchè adesso, coi capelli rasati e venti chili meno, più che un ufficiale del Reich ricordo un deportato, e non c’è bisogno di dire che mi fa piacere, questo, o che mi farebbe piacere, anzi, se fossi ancora capace di gioire di qualcosa..
Ma poi ho cominciato a leggere, e l’ho finito, questo libro, e ho ringraziato dio (sempre ammesso che non sia bestemmia pensare che dio ci fosse, in quegli anni) perché questo libro non parla di SS, o anzi, ne parla, ma parla anche di persone che non si sono fatte abbindolare dal mito della superiorità ariana, che hanno cercato di fermare la follia, che l’hanno combattuta, e pazienza per com’è andata a finire, se ci sono stati gli Hammerstein allora non tutti i tedeschi hanno colpa, ma solo quelli che hanno seguito un pazzo: non è stata la Germania, ma solo una parte, a cercare di distruggere l’umanità del mondo. Non sono una famiglia perfetta, gli Hammerstein, esponenti della Reichswher, nobili eleganti e viziati, il padre che arriva a rimproverare alla figlia bambina di aiutare la servitù piuttosto che bighellonare coi fratellini: piuttosto anticipatici, per quell’aria intrinseca di superiorità che i nati ricchi di tutte le latitudini hanno, sono altezzosi persino nella critica a Hitler, il “caporale impazzito”. Per loro conta saper stare a tavola ed avere una cultura adeguata: disprezzano i burocrati e giudicano volgare l’attivismo nazista, e l’apparente lassismo nell’educazione dei figli, il lasciar loro una sfrenata libertà di fare ciò che vogliono, da “repubblicani liberi”, sa dello snobismo supremo dell’èlite che si ritiene al di sopra delle regole, proprio mentre l’impone al resto del mondo. Sono gattopardi, gli Hammerstein, anche nella resistenza all’ascesa del male, che doveva apparire loro volgare e, prima ancora che crudele, e sopra tutto ottuso, ignorante, “basso”: scordare in metropolitana la corona funebre inviata da Hitler al patriarca morto è il gesto simbolo del loro disprezzo per un regime che non reputano al loro livello, che “invillanisce” il loro Paese, e che per questo, sopra ogni cosa, non possono riconoscere. E restano aristocratici, anche quando la storia di questa famiglia finisce per intrecciarsi con l’attentato a Hitler nel ’44, la rete di resistenza, coi relativi legami con la Russia, e i figli diventano clandestini partigiani, conoscono i campi di sterminio, mentre le figlie sono spie in giro per il mondo, autentiche pasionarie, estremamente libere e moderne, anche usando il metro di oggi.
E’ un romanzo, ed insieme è tutto vero, le foto, le lettere e le testimonianze di chi ci ha parlato accanto a postume interviste immaginarie, narrazione complessa e corale, tanti, troppi personaggi, e su tutti il vecchio leone, il generale che accettò il patto col diavolo delle relazioni con Mosca e che riteneva che la paura non fosse mai essere un’ideologia, ma anche sua figlia, Marie Therese, la piccola Esi che ride sulla sua moto e vuole trasferirsi in Israele dove vive la sua migliore amica del Ginnasio, che si chiama Wera, ed è ebrea, e che ritroverà da vecchia, nel ’71, dopo il Giappone e la California, e una vita che contiene la sceneggiatura di una dozzina di film.
Perché non si può riassumere, questo libro, che non è una storia, ma la storia, un affresco che rapisce e spaventa, anche, per la musica di Wagner che ne è colonna sonora, opera di accetta e di cesello come le nostre facce, mascelle quadrate e nasi diritti, epopea di una casata che non si è rassegnata alla fine del mondo civile, che ha lasciato la sua Donnafugata per ricacciare indietro l’avanzata della barbarie.
Un libro tedesco, come le persone che racconta.
Perché è così che siamo, nel bene e nel male, sempre: persone che non si rassegnano, che s’impegnano allo spasimo quando credono in qualcosa, e la perseguono a qualsiasi costo, perché avere uno scopo è tutto ciò che chiedono, e non conoscono la resa.
Cocciuti fino alla ferocia figli dell’ostinazione.
(HANS MAGNUS ENZENSBERGER – “HAMMERSTEIN” -2008, EINAUDI, TORINO)
LA PAURA NON E’MAI UN’IDEOLOGIA
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