È difficile scrivere. Scrivere qualcosa di buono, intendo, qualcosa che ti inchiodi per una, dieci, mille pagine, che ti guardi coi suoi occhi spalancati anche dopo che il libro l’hai chiuso.
Non basta un diploma o una laurea e nemmeno il ricordo di quello che hai visto.
Non so cosa serva.
Perché sono un camionista, io. E non dimentico di esserlo. Anche quando racconto le storie che vedo.
E così mi dispiace, signora Maestra: mi dispiace due volte, ma io, alunno che da Lei avrei preso massimo un cinque, io, che non sono istruito né chic né perbene – uso le Sue parole: ne riconosce il suono? S’accorge di quanto è aspro, senza appello? - Io, che se fossi nato tremila chilometri a Sud avrei, come la signora Paglisi, raccolto le olive nella Piana, la boccio, e le spiego anche il perché.
La boccio, perché boccio il Suo stare in cattedra, la Sua sensibilità piccolo borghese, il Suo gusto per un periodare paratattico piuttosto scarno, e non per la paratassi in sé, ché Le assicuro che un pakistanino d’Inghilterra, certo Hanif Kureishi, ne ha fatto un gioco pirotecnico da abbagliare persino un mondo in cui il sole c’è solo a mezzanotte.
La boccio, perché se è vero che critica viene dal greco e significa giudizio, a Lei, a dispetto del titolo che ha scelto, manca l’ingrediente base per una critica che non sia rifiuto e basta: l’ironia.
Lei non sorride, ma addita: Lei, che ama parole come “volgare”, o “saggio”, non riesce a capire che Cesarino – davanti cui “piange”, e prega, è da credere – avrebbe bisogno di un abbraccio, e non di una Resurrezione: a quella, semmai, penserà chi è ben più in alto: ma un abbraccio Lei è lì, e può darglielo. Io, camionista che non ha finito le superiori, direi persino “deve”.
Ma invece no, Lei guarda e basta, e guarda con distacco, signora Maestra: la Sua pietà resta sospesa a mezz’aria, resta distinta, c’è un io, e un voi.
Lei che di notte è confortata nel buio dal fracasso dei vicini che rientrano, non sa fare una carezza a un cane né a un ragazzino smarrito e metterà anche voti a tutti, ma non lascia il segno che i maestri lasciano, talvolta mettendo da parte ruolo e “princìpi” per scaldare le parole, e il cuore di qualcuno.
Perché per farlo- per insegnare, ma anche per scrivere - bisogna dimenticare tutto e perdersi, sa: perdersi nel fango se si parla di fango, e impiastricciarsi di nuvola se si parla di cielo.
Bisogna guardare per ore un taglio sul dorso di una mano, e immaginare un gatto che la graffia stanco di giocare, sentirne il calore della pelliccia, e ascoltarne le fusa: chiuda gli occhi, e immagini. No, niente “kissi, kissi”, stavolta. La prego, si fermi. Ascolti.
Ascolti la solitudine dell’uomo con la mano graffiata, e non si chieda se la merita o no.
Pensi solo che è umano: fatto della stessa sostanza fragile e imperfetta e immensa di cui è fatta lei.
Tenda le dita, lo tocchi. Lo stringa. Senta il suo dolore attraversarla come corrente elettrica, e pianga per davvero, con il trucco che le scioglie sulla faccia grinza come sulle faccette acerbe delle ragazzine che ci si impiastricciano per nascondersi, alcune delle quali - per Lei – resteranno per sempre volgari, perché non sa coglierne la devastante bellezza.
Forse non lo sa, signora Maestra, ma è stata proprio una di loro a scrivere quelle che credo siano le cronache cittadine più riuscite, intense e vere, piene insieme di ironia e di dolcezza, del sole dell’Indocina e delle brume di Parigi: una ragazzina esile, imbrattata di trucco pesante, che andava al liceo indossando un paio di vecchie scarpe da sera ricamate di strass, una ragazzina francese che Lei avrebbe detto “volgare”, che andava a letto con un cinese vent’anni almeno più vecchio di lei e si chiamava Margherite, Margherite Duras.
Legga, la prego, le sue Storie d’amore estremo, e veda come si può davvero raccontare gli “ultimi” come recita la sua quarta di copertina, stando in mezzo a loro e insieme elevandoli sul mondo.
Un primo passo, può essere non chiamarli più ultimi, ma solo persone. Provi a farlo, signora Maestra.
Poi, se vuole, scriva ancora.
Tenendo il cuore e la penna in mano, seminando tra gli inevitabili errori quelle parole giuste che arriveranno dritte in mezzo agli occhi di qualcuno, come un proiettile, a tradimento, e dalla ferita che ci apriranno faranno sgorgare a fiotti pezzetti di sé che rotolandole giù, sulla faccia, le graffieranno gli occhi a sangue, in modo assoluto, indecente, al di là di quello che è giusto o no, al di là di quello che è opportuno o no, per un tempo ben più lungo di un centinaio di pagine.
Smetta di commemorare un mondo di sane e buone piccole cose, edulcorate dal ricordo come gli amori finiti quando passano gli anni e ci si scorda quanto ci hanno fatto piangere: perché Lei lo sa, in fondo, che è questo che le fa rimpiangere le sue canzoni: il fatto che non siano, che non possano più fare male.
E non mi parli di Gozzano, adesso: le sue piccole cose erano di pessimo gusto, ricorda? Come attraverso gli occhi azzurri della servetta quindicenne, Guido stava alla finestra di un mondo quanto mai reale, incapace di starci dentro, ma desiderandolo così forte – così dolorosamente - da entrarci per davvero.
Si guardi intorno. Guardi il mondo, com’è. O lo immagini, anche. Ma standoci in mezzo, sentendolo nelle viscere, e pazienza se non è perfetto, perché è questo, Le confido, il bello dell’essere umano.
Faccia quello che crede, ma esca, vada ai “giardinetti”, se vuole, e pazienza se qualcuno ci ha portato a spasso il cane, pazienza se si sporcherà le scarpe, respiri la terra, lo smog, il sudore del mondo.
Non commiseri, non giudichi. Soltanto, sia. Sia quello che vuole raccontare.
Si faccia male. Lasci da parte il Suo doppio cognome, e non perché è per sé ostacolo: lo è per Lei, che ne ha fatto una barriera. Vada in giro scalza e nuda per il mondo.
Né Maestra, né allieva: solo, umana.
Collezionando sguardi e storie dentro a bustine di Minerva, mettendo insieme un Diario minimo di immagini che siano frammenti di vita, preghiera, non buone abitudini, come ogni messa dovrebbe essere, perdono. Per sé e il mondo insieme.
Non so dirle se basterà, per farne un libro.
Non so dirle cosa ci voglia, né se si possa imparare.
Ma almeno il mondo, la gente, i cani e i gatti e la città con il suo traffico e le sue moto e i suoi autobus le scorrerà sotto pelle, e un bel momento finalmente si accorgerà di esserne parte.
E allora, finalmente, non sarà più Maestra, ma solo Irene.
Un nome bellissimo, antico, di occhi neri che ballano il sirtaki sensuale di Zorba, di sole che acceca e piane infinite di aranci.
Si siederà sotto uno di essi, Irene, anzi: ti siederai.
E, piangendo – ferita, le vesti stracciate, il trucco sciolto – racconterai le tue cronache.
Mentre tutti staranno fermi e zitti, ad ascoltare.
(Irene Càrastro Mosino, Cronache semiserie di città, I Narratori, Altrimedia Edizioni, Matera, 2009)
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