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mercoledì 4 gennaio 2012

E’ uscito il n. 4 della rivista AMALTEA























È fine d’anno: col suo tornar ciclico è ritualità che punteggia il fluire del tempo, a ricordarci che la vita è succedersi di istanti-tempo che arrivano e passano. Ma non solo. È ritualità che scandisce un ritmo vitale profondo, tanto da avere un effetto coaugulo sulle vicende occorse nell’arco di un anno, così che siamo spinti, anche senza volerlo, a fare uno sforzo di integrazione e composizione di tutte
quelle vicende in un che di narrativamente credibile. Potremmo dire anche, in un che di sensato.
Alle prese con questo lavoro di cucitura di un senso complessivo dell’anno che va compiendosi, mi ritorna dentro insistentemente l’immagine di una lettura, di alcuni mesi fa che, da subito, mi aveva molto colpita, sebbene non la vedessi sotto la luce in cui ora la vedo. È quel ricordo di Ante Zemljar di cui Erri De Luca scrive nel suo Le sante dello scandalo. Ante Zemljar era un poeta croato. Ma arrivò un momento in cui la sua poesia ‘offendeva’ i canoni estetici del socialismo realista. Così “sotto il comunismo di Tito è stato imprigionato per dissidenza e chiuso ai lavori forzati e alle percosse su un’isola, detta Isola Nuda. […] Ante mi ha raccontato – scrive De Luca – come riusciva a resistere al giorno di lavoro a spaccare pietre con la mazza di ferro, pietre su pietre per cinque anni. […] Si era convinto che dentro ogni sasso da spaccare ci stava rinchiusa una scintilla prigioniera. Con i colpi lui rompeva la gabbia e la liberava. Le pietre spaccate gliele facevano buttare a mare, non doveva servire a niente la loro fatica, era pena pura, solo abbrutimento. Ma lui aveva inventato lo scopo segreto. Perciò pure a fine giornata menava i colpi per vedere uscire all’aria aperta le scintille”. L’applicazione logica di un perfido meccanismo di annientamento non riesce – in ultimo – ad aver ragione di un’interiorità che nonostante tutto trova un sentiero che val la pena percorrere. È il sentiero del senso: emerge dalle cose (come dalla pietra frantumata da Zemljar), senza che possa dirsi bene come; è un brillare di scintilla; spesso va liberato dai legacci del conformismo; certamente non lo si trova con un calcolo mentale, con un ragionamento ‘se… allora…’; più che pensato va sentito, è ‘senso’ per l’appunto. Ti chiede, il senso, uno slancio interiore di adesione: chiamalo passione, immaginazione, illuminazione, irrazionalità, creatività o tutte queste cose insieme. Non si lascia imprigionare in schematismi, regole generali, modelli predittivi.  Men che mai si presta ad essere dimostrato da prove oggettive che ne attestino
la sensatezza! Arriva e se ne va, lo scovi quando non te l’aspetti e spesso nelle cose apparentemente più insignificanti. Ama i particolari di un normale quotidiano, le piccole cose che hanno la potenza e la solennità del mare. Va coltivato, occorre predisporsi ad esserne sorpresi, altrimenti non ti raggiunge. Può essere utile far esercizio di musica, di letteratura, di cinema, di teatro, di arte insomma, in tutte le sue forme; ovvero far l’esercizio di scovar l’arte nella prosa di tutti i giorni, nelle strade, in uno scorcio di natura, in un gesto di lavoro. In qualunque modo scorgiamo il senso, esso è ciò che fonda la nostra esperienza, i nostri discorsi, le nostre scelte (che è perciò illusorio ritenerle il risultato di un pensare, perché sono il frutto di un ‘sentire’). Se trovi il senso, allora anche la condizione più drammatica può essere vissuta fino in fondo, ci racconta Zemljar con le sue scintille. Trovare il senso! Ecco: credo che sia un gran bell’augurio che possiamo farci per chiudere questo anno e cominciare il nuovo. Finiamo il 2011 al suon della parola ‘crisi’, pronunciata spesso come fosse il nome proprio della sciagura. La parola ‘crisi’ forse è un po’ più neutra: indica frattura, interruzione, momento che separa un ‘prima’ da un ‘dopo’. Può dire dunque molte cose, e perciò dobbiamo ascoltarla, sentire il suo senso profondo. Vi è un ‘prima’, che è stato, e che ora non funziona più, non gira, non può più essere. E vi è un ‘dopo’, tutto da costruire. Perciò di per sé ‘crisi’ non è né positiva né negativa. È negativa per chi si ostina a voler perpetuare ciò che è stato, contro ogni evidenza che ne decreta giorno dopo giorno il fallimento clamoroso e l’insostenibilità; è negativa per chi non vuole rinunciare ai consolidati dispositivi di sfruttamento degli uomini e della natura e al lucro che ne trae. Può essere positiva se cogliamo nella ‘crisi’ la sua valenza di bisogno di cambiamento e lasciamo che questo bisogno ci proietti verso quel ‘dopo’ da realizzare. Così può farsi sollecitazione, a trovare un altro senso, un nuovo senso; può farsi preziosa opportunità per reimmaginare le nostre società e le nostre relazioni con tutti i popoli della terra e con le sue finite risorse animali e naturali. È una prova: per tentare di vedere oltre l’esistente, per avere quello slancio di senso necessario a liberare la scintilla prigioniera. (editoriale di Ada Manfreda)

venerdì 22 maggio 2009

PERCHE' AGLI STRANIERI SI DA' SEMPRE DEL TU? di Maria Zimotti

Io me lo ricordo ancora. Se ne stava inginocchiato sul ciglio della strada. "Ti prego, io andare subito via... fratello". Proprio nel classico modo oleografico in cui si rappresenta lo straniero, anzi no l'extracomunitario, un pò bingo bongo. Stava inginocchiato di fronte alla panza prominente di uno nato al confine tra la Calabria e la Campania, in qualche modo una terra di frontiera. Sempre per luoghi comuni ragionando il proprietario della panza racchiudeva in sè la furbizia campana e la capa tosta calabrese il tutto inguainato in una divisa da agente di polizia locale. Il potere di sopruso dato dalla divisa. Il tenente Garcia di Zorro più cattivello, più mefistofelico. Una divisa addosso a una persona del genere e la provincialità del male diventa grottesca macchietta. Se una persona si fosse inginocchiata davanti a me in quel modo io gli avrei detto "Si alzi per favore...". Già, "Si alzi per favore" perchè mi viene naturale dare sempre del lei. Noi non siamo inglesi, ci teniamo molto al lei. Proprio come regola fissa a una persona che non si conosce si da del lei. Invece agli stranieri si dà sempre del tu come a dire che nei nostri rapporti con loro le regole non valgono, con loro ci possiamo permettere certe confidenze.
Come se loro non contassero.
Senti,la voce del tozzo rappresentante dell'ordine era come un serpente strisciante, come uno di chiesa che sta guardando un film porno di nascosto, "queste cose non si fanno... guarda che io ti porto dentro". Un piccolo uomo che ha avuto il suo momento di potere, il potere di uno cui piace vincere facile. Che succede ad un uomo, qual'è il piacere che prova a vedere un uomo inginocchiato?
Perchè è un piacere, lo sentivo da quella voce strisciante.
E' un'ebrezza che non concepisco, l'ebrezza del potere.
So solo che assomigliò poi alla benevolenza che hanno certi cardinali il suo sospiro quando disse: "Va beh, adesso va e non farti più vedere...".
Che mai aveva fatto questo sventurato degno di tanta grazia?
Non aveva pagato il biglietto dell'autobus e il controllore leghista aveva chiamato i rinforzi. Lui era scappato per le campagne e il mio collega era corso a riacciuffare il pericoloso delinquente. "Gira al largo..." vaga per le acque extraterritoriali delle campagne.
Fratello, gli stranieri dicono sempre fratello.
Lo dicono anche quelli dei gloriosi "respingimenti".
Un altro uomo in divisa diceva in un'intervista in questi giorni che non riusciva a guardare suo figlio la notte dopo aver dovuto respingere le mine umane vaganti dei migranti. Fratello, gli diceva implorante e lui doveva obbedire ad un ordine.
Gli dava del tu, senza i fronzoli della nostra civiltà, arrivando alla sostanza delle cose, cioè ho solo bisogno di vivere, ho vagato sospeso nell'acqua, in una barca fragile come un catino, come ha detto Erri de Luca in "Solo andata".
Voglio solo toccare terra e magari anche inginocchiarmi.
L'acqua come spazio di transizione tra le terre lasciate e le terre promesse.
Ne sa qualcosa, nel suo piccolo, anche l'ottusa Lombardia. Lucia Mondella che saluta i monti con il sentimento incerto del futuro ancora, nonostante tutto, commuove.

martedì 12 maggio 2009

Il giorno prima della felicità di Erri De Luca (Feltirnelli). Rec. di Vito Antonio Conte

“Ora scrivo le pagine sul quaderno a righe mentre la nave punta all'altro capo del mondo. Intorno si muove o sta fermo l'oceano. Dicono che stanotte passiamo l'equatore”. Tanto del molto che ha pubblicato Erri De Luca ho letto. Ne ho scritto già in un pezzo dello scorso anno per un quotidiano del Salento. Non mi ripeterò. Ché replicare, come ho diffusamente lasciare trasparire, non mi è mai piaciuto. In questa domenica in cui il sole si mischia a pioggerella sottile e gelata, a un ciclamino rosso d'amore, alle note de “I Giorni” di Ludovico Einaudi, alla rilettura di un post (commenti inclusi) su un blog di quasi un anno addietro, lascio l'ultima pagina dell'ultimo libro di De Luca per il meriggio (che ancora meriggio non è nonostante i mandorli già biancheggianti di nuovo), dopo un'ottima spigola al sale pasteggiata con un buon vino. Lo faccio apposta, ché -lo so- sarà dolce la fine di questo libro. Dolce come un dessert alla fine di un pasto frugale essenziale e giusto. “Il giorno prima della felicità” (Feltrinelli, € 13,00) è l'ennesima scrittura di Erri De Luca, un romanzo breve di cui non può dirsi ch'è un racconto lungo, una narrazione di una vita lungo più vite, attraverso più epoche, toccando luoghi e storie, penetrando il segreto di più uomini, disvelando le storie che piacciono a me, quelle minime e straordinarie mai scritte nei libri di storia, lasciando misteri appena accennati pronti a schiudersi in altre scritture, mescolando pensieri e fatti pienamente vissuti e soltanto sfiorati. Un capolavoro! L'incipit lascia spazio alla casualità: “Scoprii il nascondiglio perché c'era finito il pallone” e il caso è padrone assoluto del seguito: tutto accade (apparentemente) perché qualcos'altro che non appartiene a chi vive quel momento è accaduto o non si è verificato. E, come sempre, una scelta di fare o non fare, s'inserisce pienamente nel disegno che qualcuno che non abita questa terra ha tratteggiato. L'ultima volta che ho scritto di un libro (“I Bruchi” di Giovanni Bernardini), ho scritto di guerra, di fascismo e... d'ignoranza (ché in quel libro anche di ciò si narrava). Questo libro (e, se volete, è un altro caso) tocca (in maniera totalmente diversa) gli stessi argomenti: la seconda guerra mondiale, il nazismo, la liberazione di Napoli a opera dei napoletani (“Quando spuntano sei persone, tutte in una volta, allora si vince”), prima ancora degli americani... E l'amore: il primo, l'unico, quello per cui vale la pena dare il proprio sangue, per scatenare il pianto, ché soltanto le lacrime possono liberare dalla pazzia. È la storia di un bambino (cui De Luca affida l'Io narrante), nato senza genitori, che cresce durante la guerra, che impara il mondo dal mondo di Don Gaetano e dai libri usati di Don Raimondo, che diventa uomo quando incontra la natura che l'aiuta a scoprire la sua natura. Che s'innamora di una bambina che vede attraverso i vetri di una finestra e che poi ritroverà da maggiorenne; meglio: dalla quale verrà ritrovato e che gli chiederà (senza parlare) il sangue dopo aver donato a lui il suo sangue, quello del primo amore, in un patto che sarà spezzato soltanto dal coltello che reciderà un'altra vita e, con essa, ogni legàme con un passato di tristezze infinite e cieli senz'altro colore che non fosse quello degli scantinati dove ripararsi dai bombardamenti e dall'idiozia dell'ignoranza (una volta ancora!) che sempre ha messo e continua a mettere l'uomo contro l'uomo. La guerra: quel respirare a fatica dove ogni regola è capovolta, dove la natura è capovolta, dove qualunque dio è buono per essere pregato o bestemmiato, quasi come quando guerra non c'è... “Insieme al buono cresceva il peggio. Una brava persona si metteva a prestare a usura, una ragazza di buona famiglia si metteva a fare la puttana per i tedeschi. Uno che aveva il titolo di guappo era il primo a scappare al ricovero. I tedeschi e i fascisti erano più incanagliti perché la guerra si metteva male. Lo sbarco di Salerno era riuscito. Facevano saltare le fabbriche, saccheggiavano i magazzini per lasciare vuoto. La città negli ultimi giorni di settembre faceva paura per la fame e il sonno in faccia alle persone. Chi teneva qualcosa mangiava di nascosto. I tedeschi fecero una sceneggiata: forzarono un negozio, poi invitarono la gente a saccheggiarlo. Sulla folla che si era buttata a prendere la roba spararono in aria e ripresero la scena dentro una pellicola. Serviva alla loro propaganda: il soldato tedesco interviene a impedire il saccheggio. Sono fatti successi, guagliò, proprio in una di queste belle giornate di settembre”. Poi, in ogni guerra, c'è chi vince e c'è chi perde. E non sempre la vittoria è dei giusti. Chi faceva la puttana per i tedeschi, ha continuato a farla per gli americani. E non parlo solo di femmine (se metafora vuole). Non sempre vince la libertà. E cosa dire di tutti quelli che nella stessa guerra sono stati dalla parte dei tedeschi e dei fascisti e quando per loro stava per finire male sono passati dalla parte degli americani? Non lo so? Meglio: lo so, ma non riesco, non riesco proprio a dare giudizi. Specialmente su qualcosa che non ho vissuto. Troppo facile dire a posteriori qualunque cosa. Troppo facile parlare... Oggi tutti parlano, c'è libertà d'espressione (grazie a dio!). Difficile è dire e fare quando non c'è libertà. C'è che la libertà, anche quando è dato acquisito (in particolare quando è costata la pelle a altri), bisogna rispettarla ogni giorno, per ri-conquistarla. E la libertà diventa niente se niente hai fatto per meritarla. “La libertà uno se la deve guadagnare e difendere. La felicità no, quella è un regalo, non dipende se uno fa bene il portiere e para i rigori”. Già, la felicità... “il più speciale dolore, una fitta agli occhi e uno squaglio di cioccolata in bocca”. Ho avuto paura di dire la mia felicità. Ho cercato di farlo. Ho reso cenni della sua grandiosità. Questo ho fatto. Il miracolo è cosa rara. Raccontare è ripetere il miracolo. Il miracolo s'è ripetuto. La paura continua a abitare in me ogni volta che la grazia mi tocca e mi chiedo: la felicità è cosa da dire? “Sì e nessun coraggio sarà bello come questa paura”. Riporto frasi e mi accorgo che, mai come “Il giorno prima della felicità”, questo libro sarebbe da trascrivere tutt'intero, ché ogni pagina contiene dei righi, un dialogo, un pensiero, qualcosa, almeno una parola che può spiegare un senso, piegare un dolore, dare una ragione, dire di un errore, farti toccare un sogno, cullare una speranza, annegare in un ricordo, salvarti da una deriva... per questo (e per molto altro) ho parlato di capolavoro, ma soprattutto perché si vede che De Luca è riuscito a penetrare nella formula (magari tradotta dall'aramaico e combinata con le esistenze che ha saputo ascoltare, vedendole poi attraverso la sua, intanto che su qualche vetta alpina la neve ha dato quel nitore alle cose, felicità compresa, che pochi sentono e vedono, rendendole uniche e irripetibili) che fa di uno scrittore uno scrittore immortale: quella formula che generosamente svela (ché tra conoscere e vivere ci passa l'Orient Express), regalandocela: “Lo scrittore dev'essere più piccolo della materia che racconta. Si deve vedere che la storia gli scappa da tutte le parti e che lui ne raccoglie solo un poco. Chi legge ha il gusto di quell'abbondanza che trabocca oltre lo scrittore”. E quel che c'è oltre si può soltanto intuire, ché risiede al di là del limite visibile tra l'azzurro abbacinante del cielo e la vastità sconvolgente del deserto. Puoi fare unicamente una cosa per avvinarlo: muoverti lentamente coltivando pazienza. Con ogni mezzo, meglio se a piedi, ma che viaggio sia. E, prima o poi, affrontare quello vero. “I viaggi sono quelli per mare con le navi, non coi treni. L'orizzonte dev'essere vuoto e deve staccare il cielo dall'acqua. Ci dev'essere niente intorno e sopra deve pesare l'immenso, allora è viaggio”. Questo libro è un viaggio senza fine: sai dove comincia, le tappe sono scritte da qualche parte, a un certo punto arriverà la felicità, forse lo capirai il giorno prima sì da poterla accogliere, ma la fine non dipende da te. “Dicono che stanotte passiamo l'equatore”.

Il giorno prima della felicità di De Luca Erri
2009, 133 p., brossura, Editore Feltrinelli


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