Tutto comincia con un'ultima lettera. La più sincera, la più urgente che una donna, D., abbia mai scritto. Poche righe, in cui D. cerca di riassumersi e di tirare le somme di tutta una vita – come in certi questionari che consegnava ai suoi studenti all'inizio dell'anno, per iniziare a conoscerli. Poche parole con cui definire la destinazione delle proprie cose, degli affetti, delle riconciliazioni sempre rimandate; e dei libri, da regalare proprio a quegli studenti un poco svagati che le hanno riempito l'esistenza.
Un'esistenza fatta anche di viaggi, di fotografie in bianco e nero, di mari spiati al mattino, quando i colori non sono definitivi; un'esistenza poi taciuta, a scuola, quando bisognava ragionare per mezzi voti e programmi ministeriali; e, forse, difendersi.
Dall'altro lato della cattedra, un ragazzo alle prese con le declinazioni latine e le inadeguatezze dell'adolescenza. Of Paul, lo chiamava lei, scherzando sul nome; e, dopo avergli sondato l'insicurezza nelle parole già mature dei temi, lo congedava per l'estate con qualche consiglio di lettura.
D. è morta di tumore una mattina presto, proprio all'ora in cui amava di più il mare; con troppi diari da riempire, ancora, e tante parentesi lasciate aperte. Of Paul, ormai sull'altra estremità dell'adolescenza – quella che si chiude senza il rumore che ci si aspettava – capisce di non averla mai saputa davvero, quell'insegnante severa e ironica; e di doverle troppe pagine, troppe scoperte, anche quella di una strada, della propria strada – la scrittura – tracciata (trovata) nel sé da quell'incontro, da quell'insegnamento.
E così, il ragazzo ormai cresciuto torna nei luoghi di D., cerca le parole non dette nei diari lasciati a metà, e in quell'ultima lettera che, tra le sue dita, disegna uno spazio abitato di ricordi, diventa la mappa di una geografia personale a cui fare ritorno con gli occhi del poi.
Lungo quella mappa, delle distanze. Lontananze da percorrere a ritroso, attraverso pomeriggi di greco e gite scolastiche in Piemonte, reinterpretati alla luce di un'assenza e di una memoria che sembra vivida, e non sempre si condivide.
Cosa conosciamo davvero, degli altri? Quanto li sappiamo, quanto ci appartengono? E cosa possiamo salvare, di loro, quando li perdiamo?
Paolo Di Paolo, in questo tema di maturità fuori tempo massimo, rilegge le pagine della sua adolescenza e si domanda come superare certe distanze, quando tracciano l'esatta misura della propria crescita; come arginare l'enormità di certi silenzi, quando si fanno definitivi. E dove cercare una compatibilità, forse impossibile, tra noi e gli altri, tra i molti gesti mancati.
E non è solo di pagine che si tratta, quando si dice “libri”, o si dice “parole”. Si tratta di una lontananza resa vicina, così vicina, dal riconoscersi simili, dopotutto. Si tratta di ciò che può significare la scrittura, quando tenta di risarcire, di ricostruire una memoria condivisa; di fare vero un io.
Una prosa consapevole, rarefatta, pignolamente tesa verso i moti interiori, ma non per questo lontana dalle preoccupazioni sociali (Dacia Maraini)Per Paolo Di Paolo i libri non sono tanto contenitori di sapienza, quanto depositi di realtà. I libri agiscono restituendo ciò che non c'è più. (Angelo Guglielmi, L'Unità)...lo strano senso di una saggezza ancora candida: per una scrittura tanto elegante e colta, quanto fresca e stupita (Massimo Onofri, Diario)