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domenica 29 marzo 2009
Cluck Close: il paradosso dell’arte realista di Maria Beatrice Protino
L’opera di Chuck Close, al pari di quella di Andy Warhol o di Roy Lichtenstein, è senz’altro una della manifestazioni più significative della figurazione realista americana dagli anni sessanta al oggi.
Chuck Close nasce nel 1940 a Monroe, nello stato di Washington.
Fin dagli esordi nel campo della pittura, alla fine degli Anni ’60, dipinge ritratti di dimensioni colossali ponendo in essere un procedimento estremamente lungo e complesso: dapprima l'artista scatta molte fotografie polaroid dello stesso soggetto, quindi scompone ogni foto riportandola sulla tela per mezzo di reticoli. L'utilizzo della griglia gli consente, quindi, di aumentare moltissimo le dimensioni dell'immagine, mantenendo allo stesso tempo intatta la somiglianza, che, anzi, viene acuita dalla nitidezza quasi maniacale nella resa dei particolari (si possono addirittura contare i peli della barba e vedere i pori della pelle). Si tratta evidentemente di un procedimento estremamente lungo e faticoso, che porta l'artista ad impiegare vari mesi per realizzare una sola opera.
Alla ricerca di inaspettati effetti, impiega decine e decine di tecniche diverse - dalla vasta gamma di tecniche riproduttive incisorie, quali litografie, serigrafie, cera molle, acquatinte, mezzetinte, all'arazzo, al mosaico, al ricamo a mano, al pastello. L'artista - per alcuni da ritenersi quasi il precursore della pittura digitale - in questi passaggi filtra rigorosamente il suo studio sulla figura approdando a risultati che proprio la metodicità del suo fare rende simili agli effetti del digitale, il cui avvicinamento testimonia quanto le sue immagini siano radicate in strutture di pensiero e di azione fortemente disciplinate.
In realtà, come sottolineato da molti critici (si pensi al saggio sull’estetica di C. di Robert Storr, scritto in occasione della mostra antologica dell’artista al Museum of Modern Art di New York), non si tratta di un pittore fotorealista: per lui il realismo non è il fine, ma un passaggio obbligato per fornire un’analisi linguistica che risponde a delle precise leggi scientifiche.
Si pensi, infatti, a C. che, ancora studente, rimane colpito dai dipinti di Pollock, dal modo di pensare di chi faceva Action Painting (più che dal modo di dipingere): il dripping (il fare sgocciolare il colore sulla tela), infatti, è affascinante nel suo farsi, in quanto prende corpo attraverso una sorta di griglia gestuale che può essere ripetuta con metodologia scientifica, addirittura oggettiva, sostituendo così l’ispirazione con la tecnica.
Ecco, dunque, i suoi famosi ritratti: oggettivi e impersonali perché manca la partecipazione di chi li esegue, realisti perché pongono l’accento sul rapporto tra l’autore e il mondo esterno, eppure paradossalmente privi di interpretazione da parte dell’autore, che fa un uso esclusivamente strumentale della realtà riprodotta sulla tela, scavalcando le tematiche psicanalitiche o di certa critica d’arte per cui non può esistere un’arte oggettiva.
L’opera di Chuck Close è una delle più importanti manifestazioni della figurazione realista americana degli ultimi 40 anni. Molti critici sottolineano il paradosso della sua estetica oggettiva, realizzata con metodologia scientifica.
C. racconta di aver letto di un’intervista pubblicata sul New York Times relativa a de Kooning (insieme a Pollock ritenuto fondatore dell’espressionismo astratto americano), dove l’intervistatore diceva a de K. che l’unica cosa che proprio non si può più fare in arte sono i ritratti, e che lui gli aveva risposto: “Già. Ma non puoi neanche fare a meno di farne”. Allora C. ricorda di aver pensato: “Vaffanculo. Troverò il modo di farlo”.
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