L’Italia non è il mio paese, no. Ma è quello in cui vivo, anzi quello in cui finora ho vissuto più che in qualsiasi altro, anche più che nel mio. L’Italiano non è la mia lingua, no. Ma è quella che uso di più, che devo usare, se voglio farmi capire. E se voglio leggere, anche, perché i libri in tedesco sono difficili da trovare, e costano cari. Così, quello che è edito in Italia e in italiano è quello che leggo, per lo più. Anche se, quasi sempre, si tratta di traduzioni: di Roth ho solo The Human Stains in inglese, di Palahniuk niente. So che qualcosa manca, perché tradurre è difficile. Ma il grosso, comunque, c’è. In qualsiasi libreria – o bancarella: è lì che compro quasi tutto, alle feste patronali, ai mercatini – si può trovare il mondo. È per questo che non me lo spiego. Voglio dire: se l’Italia fosse una bolla di vetro sigillata dopo Manzoni e la Mazzucco, ok: ci sarebbero ragioni che giustifichino perché Hemingway e Kureishi e Ishiguro ne restano fuori, e tutto resta com’è, non si evolve, non cresce, non si corrompe, insomma: non va da nessuna parte. Perché nel 2009 qui si sia ancora troppe volte fermi, a rileggersi e riscriversi addosso, e questo vale anche quando il risultato è un prodotto garbato, gentile, corretto nella forma e misurato, in una parola difficilmente criticabile, perché non è questo (misurato, garbato, gentile, difficilmente criticabile) che un buon libro deve essere, almeno secondo me, che è vero che non sono un critico né un cattedratico né un cazzo, ma sono uno che legge, per dio, e i libri sono fatti per essere letti, sono fatti per lasciarti qualcosa, non per lasciare tutto – te incluso – com’è già. E per farlo devono tagliare, strappare, lacerare e ferire, devono sradicarsi e sradicarti, portare macchie di sudore e sangue, figli bastardi di un mondo intero per quello che era mentre loro nascevano, tentativi per prova ed errore, specchio di quello che c’è attorno, di quello che c’è stato, e soprattutto di quello che non c’è, ancora.
Vaffanculo al packaging, alle presentazioni, alle prefazioni e ai premi. Queste sono cianfrusaglie, e chiunque abbia provato a scrivere lo sa, e che lo ammetta o no è un’altra storia: sa che è il Mc circo necessario a vendere, ma un libro non è il gadget di un happy meal, dovrebbe essere una finestra, un diario, la cicatrice di un arto che ti è cresciuto mentre dormivi. È ovvio che per scrivere è necessario leggere, e studiare, e lavorare di cesello e tutto il resto, ma questo è cosa diversa che restare sottocosta perché non si ha il coraggio di nuotare al largo. Il mare è lì, e si hanno due braccia e due gambe. Se si resta nell’acqua putrida di alghe, non ci si può lamentare che non si vedano i soffioni delle balene. Così, niente da dire su questo libro, né sulla bella foto in copertina che fa tanto Fabrizio Ferri e i suoi corpi volanti, è scritto bene e si legge con facilità, ci sono ripetizioni di parole e righe che formano il ritmo come un ritornello, una musica, Vivaldi o no non so dirlo, di classica davvero non so niente. E alcune immagini funzionano, il parto nella latrina, i gattini affogati sotto la grondaia, nei punti migliori s’intravede il dolore che dovrebbe permearlo e invece è continuamente smussato, controllato, una partitura senza sbavature, così che il finale è davvero colpo di scena, ma nel senso di cosa assolutamente incredibile e incongrua, non meno di uno sbarco di UFO che cantano we are the world. La fanciulla introversa, timorata, che tranne in un caso (quando cerca di salvare i gattini) si limita e elucubrazioni mai troppo ardite (anche quando dialoga con la propria morte, lo fa gentilmente, e se le propone di ammazzare una suora l’accenna soltanto), la ragazzina grigia che trova conforto solo nel violino e si spaventa dell’embrione di qualcosa che potrebbe provare per il prete musico e ne fugge via, la piccola orfana che ammette di non essere curiosa, che continuamente si autocensura per restare nei confini del decoro che le è stato imposto da sempre, nell’ultima pagina e mezzo si scopre avventuriera travestita da uomo sulle rotte orientali. Fine.
Lo ripeto: è scritto bene. Curato, colto a tratti, qui e lì sprazzi di una Venezia di sangue e nebbia, la scena del mattatoio, uccidere l’agnello per ricavarne dalle budella corde da violino.
Un’educazione – sentimentale e non – che passa attraverso la conoscenza di un mondo violento, dentro e fuori l’Ospitale. Un mondo in cui, prima, i bambini di nessuno venivano affogati nei canali. In cui l’acqua è rossa di sangue. Ma tutto è ovattato, attutito, si scappa lontano dal tanfo e anche le ribellioni sono cerini, mai incendi.
Il parto nella latrina ricorda la nascita al mercato del pesce con cui si apre Profumo (e quella di Leatherface nel mattatoio, ma questo non credo sia un riferimento voluto) ma il resto è una storia di tristezza, non di tragedia. Insomma: la vita è brutta, ma devi prendere le cose come vengono, il motto di Everyman (ma quello è Roth). Certo, non si può pretendere dall’epoca un’eroina cazzuta, incazzata e violenta, una che affondi coltelli nelle suore assassine di gattini e seduca, consapevole Lolita, il giovane prete per diventare grande. Ma Cecilia – nome manzoniano di bimba morta di peste – è così decorosa e timorata e dolce che davvero non si può credere prenda in tutti i sensi il largo. La prigionia nell’Ospitale, poi, i meccanismi di branco che sicuramente c’erano, che ci sono sempre, negli alveari e nelle prigioni e sotto le armi, restano sullo sfondo, se ne sa poco o nulla. Niente risse, né violenze fisiche o verbali, niente di niente. Un cimitero, sì. Il cimitero dei senza nome. E la ricerca della madre stessa resta aspirazione, sogno, illusione. Certo, quando Cecilia getta in mare il pezzo di disegno che doveva essere il suo segno di riconoscimento, quando rinuncia alla speranza di ritrovarla, significa che finalmente ha smesso di cullarsene, che finalmente va oltre. Ma non si capisce dove possa andare, tranne che verso un generico “futuro”. È un lieto fine, sì. Ma resta sospeso, come quello delle favole, e vissero felici e contenti.
Ed è un peccato, era un libro che poteva essere, con un po’ più di coraggio, con un po’ meno attenzione a cosa ne avrebbero pensato/scritto/detto, un po’più fuori le righe e gli schemi, un po’ più sgradevole/duro/vero. Invece di un acquarello, un affresco, tutto lo spazio di un muro e anche oltre, in cui ci fossero rabbia e sofferenza e urla, anche, perché chi soffre e odia grida, non sussurra. Non prega, maledice. E pazienza se sveglia qualcuno. C’è una cosa, di Bunker, che non ha studiato, che è entrato in riformatorio a 8 anni, che scrive da padreterno e ha vinto l’ammirazione di Tarantino, che parla degli stessi temi, l’abbandono e la prigionia e la ricerca di sé, in cui ci sono gli stessi personaggi, il giovane innocente e l’adulto che decide di proteggerlo, che è così. Si chiama Animal Factory, fabbrica di bestie, e finisce nello stesso modo, con l’evasione del protagonista. Ma è tutt’altra cosa, è pugno nello stomaco, ferita di coltello, è sangue vero, non ketchup nell’acqua. È quello che questo libro poteva essere, un capolavoro. Certo, è più sbavato, sì. A tratti, avresti voglia di chiuderlo, perché fa male, fa male pensare che ci siano posti così, dove la vita non conta, dove si è numeri, dove tutto è insozzato, anche l’amore. Dove si uccide e si muore per niente, perché tanto non fotte un cazzo a nessuno. Posti che esistono, quello del libro è un carcere, San Quintino. Ma ci sono anche altri posti in cui si diventa bestie per restare vivi, orfanotrofi, brefotrofi, lager. Posti in cui si è spersonalizzati, privati dell’umanità e di tutto il resto Posti come l’Ospitale doveva essere. Inferni. Luridi, puzzolenti, indecenti, perché se non si è persone non si è più niente che non è corrotto. Nel senso di marcescente. Morto. Peccato. Peccato che in Italia non si abbia il coraggio e l’irriverenza di raccontare. Peccato che si cerchi di scrivere bene. Che ci si fermi sulla soglia. Per non lasciare orme di fango. E vincere premi.
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martedì 1 settembre 2009
venerdì 21 agosto 2009
Robin Hood punto Net di Simona Ruffini (ed. Lupo). Una favola ai tempi della rete secondo Silla Hicks
Non ho mai creduto alle favole. Né io né mia sorella ci abbiamo mai creduto: non ne abbiamo avuto il tempo con tutto il casino che ci ha afferrato da piccoli e ci ha raccontato la vita prima che potessimo capirlo e scegliere se amarla o no.
E anche adesso preferisco il neorealismo e la crudezza del neon alle commedie romantiche e alle luci soffuse, e se penso a una storia d’amore penso a una tragedia, immensa e spietata, una lettera scritta col sangue … amare è un gioco di morte, non una passeggiata tra i fiori.
O almeno, è così che è se è amore, perché le coincidenze capitano di rado e quasi mai ci si incontra e ci si riconosce nello stesso istante, quando basterebbe stendere la mano e prima che altri corpi e altre storie ci vincolino, o dopo che sono svaniti via: quasi sempre, i tempi non coincidono, come per un uomo ed una donna a letto, siamo geneticamente condannati a rincorrerci e a smarrirci, e Marquez Gabriel Garcìa, vecchio saggio visionario ha ragione, ci vuole una vita per ritrovarsi, e ne vale la pena anche … ma frattanto è l’inferno, e un inferno che ci intrappola quasi sempre soli.
È la premessa che devo fare, prima di parlare di questo libro (Robin Hood punto Net di Simona Ruffini, Lupo editore), che è una favola, appunto, e che come tale non m’appartiene, e non poteva entusiasmarmi né commuovermi, perché non l’ho mai visto un film con Meg Ryan, io.
E avrei pensato persino fosse per bambini, visti i caratteri grossi e tondi con cui è stampato, se non ci avessi scovato dentro - a tradimento - citazioni densamente adulte, prima tra tutte quella November Rain dei Guns’n Roses che Giuseppe canta nel suo inglese storpio ogni volta che il pensiero di lei gli folgora il cervello, come ho imparato a intuire avendolo da una vita amico, e che anche per questo mi conquista e commuove, come nessun lieto fine sa fare.
Perché, superato l’impatto iniziale, questa storia che pare costruita di mattoncini Lego tanto è semplice e semplificata invece si rivela non esserlo per niente, come un quadro naif, in cui le pennellate ingenue sono frutto di elaborato studio, e per capirlo guardate da vicino la tigre di Ligabue.
Più che raccontino, è destrutturazione consapevole, e più che una favola appare essere un tool, uno strumento, nel senso di modello costruito eliminando le variabili inutili rispetto alla teoria che si vuol dimostrare per consentirne uno studio che punti dritto al senso.
Pur con tutti i limiti che questo processo di alleggerimento comporta, e che finiscono per condizionarne la voce, non si può non riconoscere a questo libro un registro autonomo, e non intravederne dietro tutto un percorso che è ricerca, e come tale entusiasmante, in una classe che in genere copia, e anche male.
Perché personalmente è questo che mi resta, quando leggo una riga o mille pagine, l’impronta: il resto, il contenuto, può starmi vicino oppure no, e spesso è no, quasi sempre, anzi, ma ammetto che non si può raccontare il mondo solo attraverso Roth, Palahniuk e Kureishi, guardarlo solo come io lo guardo, perché ognuno ha i suoi occhi di colore diverso, che vedono diverse cose uguali.
E di sicuro questa ragazza che dal risvolto di copertina sorride con la faccia da liceale anche se ha la mia età non ha il mio stesso sguardo, ma ha le palle di cercarsene uno suo, e pazienza se indulge nel buonismo – Omar lo zingaro/principe azzurro, giusto per citarne una – e tenta l’impresa disperata di una polaroid del nostro tempo finendo per tagliare troppe teste fuori dall’inquadratura.
Perché trattare – tutto insieme - d’immigrazione, precariato, licenziamenti, nuovi poveri, traffico d’organi e così via può riuscire nello spazio di un film solo se si è Ken Loach, e nemmeno sempre: pretendere di farlo in forma di tavoletta lieve, poi, è impossibile, ci vorrebbe lo sguardo disperato del Fellini migliore – quello di Zampanò – per almeno provarci.
Ma se non si vuole guardare ad occhi spalancati la tragedia nascosta dietro la maschera, bhè, allora non credo sia possibile. Non credo. Ma sto qui, e aspetto di leggere quello che la ragazza di cui sopra deciderà di scrivere, ancora. Non è detto che ci riprovi, tantomeno che ci riesca, è chiaro, ma questa volta ha tentato, ed è un miracolo, in questi giorni densi di parole ripetute, originali quanto temi di maturità estratti dalla cartucciera, che affollano scaffali e librerie e discorsi. Non concordo su quello che scrive, né su come lo fa, lo dico e lo ripeto, ma non credo le importi, e le sono grato. Perché sono quelli come lei, che fanno esperimenti, che prima o poi vanno da qualche parte. E intendo: da qualche parte nuova.
E anche adesso preferisco il neorealismo e la crudezza del neon alle commedie romantiche e alle luci soffuse, e se penso a una storia d’amore penso a una tragedia, immensa e spietata, una lettera scritta col sangue … amare è un gioco di morte, non una passeggiata tra i fiori.
O almeno, è così che è se è amore, perché le coincidenze capitano di rado e quasi mai ci si incontra e ci si riconosce nello stesso istante, quando basterebbe stendere la mano e prima che altri corpi e altre storie ci vincolino, o dopo che sono svaniti via: quasi sempre, i tempi non coincidono, come per un uomo ed una donna a letto, siamo geneticamente condannati a rincorrerci e a smarrirci, e Marquez Gabriel Garcìa, vecchio saggio visionario ha ragione, ci vuole una vita per ritrovarsi, e ne vale la pena anche … ma frattanto è l’inferno, e un inferno che ci intrappola quasi sempre soli.
È la premessa che devo fare, prima di parlare di questo libro (Robin Hood punto Net di Simona Ruffini, Lupo editore), che è una favola, appunto, e che come tale non m’appartiene, e non poteva entusiasmarmi né commuovermi, perché non l’ho mai visto un film con Meg Ryan, io.
E avrei pensato persino fosse per bambini, visti i caratteri grossi e tondi con cui è stampato, se non ci avessi scovato dentro - a tradimento - citazioni densamente adulte, prima tra tutte quella November Rain dei Guns’n Roses che Giuseppe canta nel suo inglese storpio ogni volta che il pensiero di lei gli folgora il cervello, come ho imparato a intuire avendolo da una vita amico, e che anche per questo mi conquista e commuove, come nessun lieto fine sa fare.
Perché, superato l’impatto iniziale, questa storia che pare costruita di mattoncini Lego tanto è semplice e semplificata invece si rivela non esserlo per niente, come un quadro naif, in cui le pennellate ingenue sono frutto di elaborato studio, e per capirlo guardate da vicino la tigre di Ligabue.
Più che raccontino, è destrutturazione consapevole, e più che una favola appare essere un tool, uno strumento, nel senso di modello costruito eliminando le variabili inutili rispetto alla teoria che si vuol dimostrare per consentirne uno studio che punti dritto al senso.
Pur con tutti i limiti che questo processo di alleggerimento comporta, e che finiscono per condizionarne la voce, non si può non riconoscere a questo libro un registro autonomo, e non intravederne dietro tutto un percorso che è ricerca, e come tale entusiasmante, in una classe che in genere copia, e anche male.
Perché personalmente è questo che mi resta, quando leggo una riga o mille pagine, l’impronta: il resto, il contenuto, può starmi vicino oppure no, e spesso è no, quasi sempre, anzi, ma ammetto che non si può raccontare il mondo solo attraverso Roth, Palahniuk e Kureishi, guardarlo solo come io lo guardo, perché ognuno ha i suoi occhi di colore diverso, che vedono diverse cose uguali.
E di sicuro questa ragazza che dal risvolto di copertina sorride con la faccia da liceale anche se ha la mia età non ha il mio stesso sguardo, ma ha le palle di cercarsene uno suo, e pazienza se indulge nel buonismo – Omar lo zingaro/principe azzurro, giusto per citarne una – e tenta l’impresa disperata di una polaroid del nostro tempo finendo per tagliare troppe teste fuori dall’inquadratura.
Perché trattare – tutto insieme - d’immigrazione, precariato, licenziamenti, nuovi poveri, traffico d’organi e così via può riuscire nello spazio di un film solo se si è Ken Loach, e nemmeno sempre: pretendere di farlo in forma di tavoletta lieve, poi, è impossibile, ci vorrebbe lo sguardo disperato del Fellini migliore – quello di Zampanò – per almeno provarci.
Ma se non si vuole guardare ad occhi spalancati la tragedia nascosta dietro la maschera, bhè, allora non credo sia possibile. Non credo. Ma sto qui, e aspetto di leggere quello che la ragazza di cui sopra deciderà di scrivere, ancora. Non è detto che ci riprovi, tantomeno che ci riesca, è chiaro, ma questa volta ha tentato, ed è un miracolo, in questi giorni densi di parole ripetute, originali quanto temi di maturità estratti dalla cartucciera, che affollano scaffali e librerie e discorsi. Non concordo su quello che scrive, né su come lo fa, lo dico e lo ripeto, ma non credo le importi, e le sono grato. Perché sono quelli come lei, che fanno esperimenti, che prima o poi vanno da qualche parte. E intendo: da qualche parte nuova.
lunedì 27 luglio 2009
Con l’insistenza di un richiamo di Francesco Randazzo (Lupo Editore). Rec. di Silla Hicks
Finalmente uno che ha letto Charles Michael "Chuck" Palahniuk, che l’ha studiato, anzi, è da credere. 110 pagine – 109 – che si leggono in mezz’ora, leggere nel loro terrificante disincanto, e benedette dal filo rosso dell’ironia. Avete presente Soffocare? C’è molto di Chuck, in questi raccontini che parlano di stupri, serial killer, pedofili ed estreme “second lives” come di cose quotidiane, normali, ormai parte del nostro habitat che s’è giocato ogni pudore e ogni valore, e sopravvive incosciente di se stesso. Ognuno è una piccola bomboniera – di tulle nero, è chiaro – che nasconde confetti avvelenati, ma deliziosi: il precario che esce a comprare l’ascia con cui dissezionare il cadavere della sua affittacamere e viene pestato sul raccordo da un lubrico vecchietto, il pedofilo disgustato da un’anziana checca che l’ammazzerebbe per pietà, l’extracomunitario massacrato nel sebac che s’identifica con gli escrementi attorno, l’Elettra moderna che vendica la madre morta di corna uccidendo il padre satiro e paraplegico con i piatti rotti, quello che resta della furia impotente della genitrice.
E poi la prof. obesa di filosofia che vive una vita virtuale hard e una reale di forzata astinenza (dopo la relazione con un prete, cui ha messo fine letteralmente a morsi), e soprattutto il monologo del serial killer sociologo, che ha ucciso 197 persone in 20 anni con precisione chirurgica, clone italico di Dexter, il racconto più lungo e più ispirato, quasi un testo teatrale, e difatti l’autore è regista e sceneggiatore, e si vede. In un mondo che va a rotoli, che convive con l’orrore su tutte le prime pagine e in tutti i TG, questo signore resta immune – e fieramente – dai “cuori mocciolosi” e dai lucchetti ai lampioni, e racconta ciò che vede proteggendosi con l’unica arma che l’intelligenza ha mentre dilaga il buio della mente, l’ironia vera, quella di Pirandello, che è via di fuga e alternativa alla follia. Non si può raccontare, questo libricino che davvero diverte, e insieme fa pensare senza importelo: bisogna leggerlo, e non è uno sforzo, perché, lo ripeto, è scritto con un lessico famigliare che non l’appesantisce oltre i 30 grammi di carta con cui è fatto, dimostrando che si può parlare di tutto usando le parole come tessere da colorare a piacere.
Come per le “Schegge” di Schifano, non è la dimensione che conta, ma la luce, la grana pastosa che t’ipnotizza davanti al fogliettino: sono solo schizzi, sì, ma fatti bene, infinitamente meglio di colossali tele imbrattate giusto per fare cassa.
Non m’esprimo sui lucchetti ai lampioni, io che porto le catene attorno al cuore e un cuore spezzato tatuato sopra il braccio, ma mai mi sognerei d’incatenarlo a qualcosa. Dico solo che ci ho provato, a leggere quei libri, e non sono arrivato oltre pagina quattro, mentre questo qui non volevo che finisse, e quando l’ho chiuso sono rimasto a rifletterci, in silenzio.
Indubbiamente è tosto, sì, ma non più di un ispirato Tarantino o di una performance di Orlan: è una secchiata d’acqua che ti sveglia, e no, non chiamatelo pulp, parola scagliata da Hank e abusata da tutti gli altri a seguire, soprattutto dopo la fiction di Wolf il risolutore e compagni.
Non chiamatelo pulp, perché pulp fa spesso rima con cool, e il cool questi racconti lo sbeffeggiano con l’acume concreto che ha chi non si fa abbagliare dai lustrini della civiltà dell’immagine, e riesce ancora a cogliere la vera natura delle cose: leggetelo, e basta.
E poi, cercate di credere che sia solo fantasia. Provateci, almeno. Se volete riuscire a dormire.
PICCOLA BOTTEGA DI QUOTIDIANI ORRORI (Con l’insistenza di un richiamo – Francesco Randazzo – Lupo Editore 2009)
E poi la prof. obesa di filosofia che vive una vita virtuale hard e una reale di forzata astinenza (dopo la relazione con un prete, cui ha messo fine letteralmente a morsi), e soprattutto il monologo del serial killer sociologo, che ha ucciso 197 persone in 20 anni con precisione chirurgica, clone italico di Dexter, il racconto più lungo e più ispirato, quasi un testo teatrale, e difatti l’autore è regista e sceneggiatore, e si vede. In un mondo che va a rotoli, che convive con l’orrore su tutte le prime pagine e in tutti i TG, questo signore resta immune – e fieramente – dai “cuori mocciolosi” e dai lucchetti ai lampioni, e racconta ciò che vede proteggendosi con l’unica arma che l’intelligenza ha mentre dilaga il buio della mente, l’ironia vera, quella di Pirandello, che è via di fuga e alternativa alla follia. Non si può raccontare, questo libricino che davvero diverte, e insieme fa pensare senza importelo: bisogna leggerlo, e non è uno sforzo, perché, lo ripeto, è scritto con un lessico famigliare che non l’appesantisce oltre i 30 grammi di carta con cui è fatto, dimostrando che si può parlare di tutto usando le parole come tessere da colorare a piacere.
Come per le “Schegge” di Schifano, non è la dimensione che conta, ma la luce, la grana pastosa che t’ipnotizza davanti al fogliettino: sono solo schizzi, sì, ma fatti bene, infinitamente meglio di colossali tele imbrattate giusto per fare cassa.
Non m’esprimo sui lucchetti ai lampioni, io che porto le catene attorno al cuore e un cuore spezzato tatuato sopra il braccio, ma mai mi sognerei d’incatenarlo a qualcosa. Dico solo che ci ho provato, a leggere quei libri, e non sono arrivato oltre pagina quattro, mentre questo qui non volevo che finisse, e quando l’ho chiuso sono rimasto a rifletterci, in silenzio.
Indubbiamente è tosto, sì, ma non più di un ispirato Tarantino o di una performance di Orlan: è una secchiata d’acqua che ti sveglia, e no, non chiamatelo pulp, parola scagliata da Hank e abusata da tutti gli altri a seguire, soprattutto dopo la fiction di Wolf il risolutore e compagni.
Non chiamatelo pulp, perché pulp fa spesso rima con cool, e il cool questi racconti lo sbeffeggiano con l’acume concreto che ha chi non si fa abbagliare dai lustrini della civiltà dell’immagine, e riesce ancora a cogliere la vera natura delle cose: leggetelo, e basta.
E poi, cercate di credere che sia solo fantasia. Provateci, almeno. Se volete riuscire a dormire.
PICCOLA BOTTEGA DI QUOTIDIANI ORRORI (Con l’insistenza di un richiamo – Francesco Randazzo – Lupo Editore 2009)
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