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martedì 7 febbraio 2012

Il libro del giorno: Il circolo delle ingrate di Elizabeth Von Arnim (Bollati Boringhieri)


Anna coltiva un unico, profondo desiderio: essere indipendente. E invece, orfana e costretta a vivere a carico della ricca cognata - a sua volta mossa dal solo desiderio di maritarla al miglior partito su piazza e togliersela di torno -, Anna rifiuta i corteggiatori e si convince di esser condannata a una vita dimezzata. Fino a quando non accade l'impensabile: un'inaspettata, cospicua eredità arriva a cambiarle la vita e a garantirle l'autonomia tanto desiderata. Ma arrivano anche le impreviste ma prevedìbili difficoltà. Colta da un irrefrenabile impulso di generosità, Anna decide di condividere la sua fortuna, e concepisce un progetto filantropico inteso a donare la felicità a dodici donne provate dalle asprezze della vita. Ma dopo una spassosa girandola di situazioni che l'ingenua Anna non poteva immaginare, tutto precipita... Con la verve che distingue la sua scrittura, Elizabeth von Arnim ritorna a un tema che le sta particolarmente a cuore, l'indipendenza femminile, già al centro di Lettere di una donna indipendente. Mettendo con delicatezza alla berlina la protagonista e il suo progetto improbabile, Elizabeth von Arnim dà voce al tema del destino delle donne, sempre legato al matrimonio, e di quali concrete alternative si possano davvero presentare a chi desideri restare "fuori dal coro".

domenica 5 febbraio 2012

Il Significato del Disegno Infantile di Anna Oliviero Ferraris (Bollati Boringhieri)


Il Significato del
Disegno Infantile


Il disegno e la pittura dei bambini possono rappresentare, di volta in volta o allo stesso tempo, un'espressione della vita emotiva e della personalità, uno strumento per lo sviluppo della creatività e della maturazione e un indice del loro andamento, un mezzo di indagine e di scambio con l'ambiente sociale e per il genitore, l'insegnante e lo psicologo - uno strumento per la comprensione delle, relazioni che si creano o che mancano tra adulto e bambino. In questo libro, diventato subito il testo di riferimento in materia e ora riproposto in una nuova edizione, Anna Oliverio Ferraris analizza disegni e pitture di bambini normali o con ritardo mentale disadattamento, dai primi scarabocchi alle raffigurazioni più complesse in cui compaiono ritratti, prospettive spaziali, sequenze narrative, un uso immaginifico del colore. Ci guida così nell'esplorazione dell'universo infantile, aiutandoci a decifrare, attraverso il segno grafico, gli atteggiamenti che nascono dal rapporto con i genitori, i fratelli, i coetanei, maestri, e poi i timori di fronte alla disgregazione di forme di vita familiari, le carenze e i disagi di chi deve fare i conti con un contesto socioculturale deprivato e con la malattia, o al contrario, il tasso di creatività di chi gode di stimoli e di un ricco mondo interiore.

giovedì 25 giugno 2009

Blatta di Alberto Ponticelli (Leopoldo Bloom Edizioni)

Il senso della catastrofe è un pensiero che ricorre spessissimo tra le paure ancestrali della collettività, e che non sono prerogativa solo della società dello spettacolo di Hollywood, degli apocalittici nel mondo della scienza e della tecnologia o di metafisiche di stampo ecological-new Age. Il disastro, non è solo quella parola che indica un evento o una serie di eventi catastrofici di origine naturale, ma fa parte di un orizzonte mentale ultimo, dove tutto ciò che di peggio la mente umana può aspettarsi circa il suo destino, trova la consistenza più forte. Parliamo di un concetto-limite dunque che a tutt’oggi affascina moltissimi studiosi non solo nel campo della narrativa, ma anche negli studi di saggistica che hanno portato ad esempio Naomi Klein a teorizzare la Shock Economy (ovvero l’impresa ultralibertaria di guadagnare su crisi economico-finanziarie e cataclismi naturali) e Esperanza Guillén Marcos a scrivere un’opera per Bollati Boringhieri, sull’estetica dei naufragi nella pittura tra ‘700 e ‘800.
Ma la Catastrofe è anche un nodo concettuale problematico da sciogliere per continuare a riflettere sulla destinalità di noi comuni mortali. Il magistrale Alberto Ponticelli, autore di un volume singolarissimo, chiamato Blatta, pubblicato da Leopoldo Bloom Edizioni, consegna al pubblico un lavoro che apre una prospettiva inquietante e desolante. Devo dire che ho respirato subito quel senso di claustrofobica e psicotica solitudine che mi ricordano le “nuances” di Io sono Leggenda di Richard Matheson (edito in Italia da Fanucci) o le desolazioni tecno-urbane della città di Salem nella serie di Alita del grande Yukito Kishiro. Ponticelli ha un tratto maturo, dalla precisione quasi maniaco-osessiva per i dettagli, ma al contempo una libertà nel segno grafico che gli consente di trasferire le sensazioni che vuole comunicare ai suoi lettori con estrema puntualità e precisione.
L’intero albo è in rigoroso bianco e nero, e questo aumenta il senso di spaesamento che provoca nel lettore. In Blatta si parla di una terra simile a quella di oggi, vista con gli occhi di un “uomo qualunque”, dove un Grande Fratello controlla una società grigia, alienata, alienante, degenerata. Un sistema sociale che ha trasformato gli individui in unità di produzione, che vivono relegate in una decina di metri quadri. Una produzione che grazie alla clonazione selvaggia può protrarsi in eterno. Isolamento totale, eliminazione del libero arbitrio sono diventati gli imperativi categorici del un nuovo ordine. L’identità, non ha più valore. Tutto ciò che si muove in questa patologia sociale si muove nell’ombra, e l’unica luce, l’unica finestra sul mondo per diventa un piccolo schermo di ambigua utilità, posto nei pochi metri quadri di stanze strette come atomi e dove ci si consuma l’esistenza.

lunedì 16 marzo 2009

TELFENER, U. Le forme dell’addio (Castelvecchi, 2007). Di Mimmo Pesare

Diciamo subito che questo libro ha un sottotitolo che porterebbe quasi immediatamente a pensare si tratti dell’ennesimo saggio da ombrellone sui casi dell’amore. Sotto il più enigmatico Le forme dell’addio, leggiamo infatti Effetti collaterali dell’amore (locuzione che rimanderebbe alla premiata ditta Crepet-Alberoni). Del resto, si hanno più elementi per scommettere sulla lettura di questo libro: il titolo, stimolante; il sottotitolo, molto meno stimolante; una bella copertina fondo bianco su cui campeggia, minimalista, un doppio picciolo di ciliegia con un solo frutto invece che due; infine il nome dell’autrice, psicoterapeuta e docente a La Sapienza, che per Castelvecchi ha già pubblicato un testo tanto agile quanto fortunato (Ho sposato un narciso, 2006), ma che vanta una ricca produzione saggistica (per i tipi, tra gli altri, di Bollati Boringhieri).
Usando probabilmente le “scorciatoie delle sinapsi”, chi scrive si è lasciato sedurre dalla ciliegia prima, e dall’indice dopo, ma soprattutto da una telegrafica recensione sul domenicale del Sole 24 ore. Ebbene, credo si tratti di un esempio virtuoso di come sia possibile coniugare la ricerca teorica che sta alla base di ogni opera saggistica, a una scrittura che attraversa temi universali dell’esistenza umana in maniera assolutamente brillante e allo stesso tempo comprensibile non solo agli esperti di modelli psicodinamici.
Le forme dell’addio è fondamentalmente un’analisi sul fenomeno dell’abbandono, non solo e non necessariamente dal punto di vista amoroso della coppia – sebbene questa dimensione sia la più direttamente osservabile – ma come meta-condizione della psiche e delle pieghe emotive di essa. L’abbandono, allora, fuori dalle secche neghittose dei rotocalchi di psicologia femminile da edicola, viene analizzato come fenomeno che appartiene ai momenti di transizione dell’umanità occidentale, passando poi a esplicitarne le strutture antropologiche ed epistemologiche e le relative ricadute sulla collettività e sulle relazioni sociali e infine fornendo una legittimazione psicodinamica che, naturalmente, affonda le proprie radici in autori come Balint, Bowlby, Laing.
Le oltre trecento pagine di questo volume sono sempre attraversate da una armonia tra la narrazione di casi clinici e l’esplicazione scientifica, tale da toccare le corde emotive dei lettori su un tema che, in attivo o in passivo, appartiene agli archetipi dell’immaginario umano. Ma la Telfener fa di più. Questo saggio è sorretto, fondamentalmente, da una bella spinta di laicità scientifica, da un disincanto sullo scottante tabù del disamore che libera la mente degli stereotipi sulla coppia e costituisce un valido esercizio di analisi e affrancamento dalle pesantezze platonico-religiose sulla pervasività dell’amore. Innanzitutto con strumenti di scrittura: nelle (poche) storie di vita che corroborano la teoria proposta, compaiono improvvisamente ma fruttuosamente, accanto alle normotipiche palinodie della coppia etero, anche storie di amori omosessuali, di famiglie allargate, di forme familiari non convenzionali e non necessariamente facenti riferimento alla coppia-sposata-con-figli.
Poi ci sono utili strumenti bibliografici complementari, come l’indice della “letteratura sul disamore”, divisa per romanzi, racconti, film e (addirittura) canzoni.
Ma soprattutto questa vis laica che permea le pagine di Le forme dell’addio, ha la sua più significativa interfaccia nella filosofia di fondo che l’autrice, in maniera sempre garbata ed elegante, propone con forma di rispettosa “pedagogia del distacco sentimentale”. L’autrice si chiede: “perché ci si lascia?” e “cosa si deve fare se ci si lascia?”, ma la risposta non deve necessariamente essere conciliante rispetto a alla ricostruzione del mito dell’ermafrodito platonico; ci si lascia perché il desiderio finisce e l’heideggeriano abbandono-Gelassenheit risulta l’unico atteggiamento che sia coerente con la finitezza dell’uomo e con il rispetto del suo desiderio. A pag. 274 del testo si legge un brano che sembra essere la scrematura di tutto il lavoro della Telfener: dovremmo liberarci – tutti quanti – da una pretesa che ci rende solamente infelici e ci condiziona da millenni: che l’amore sia salvifico, fantastico e per sempre. (...) Viviamo nell’epoca del cambiamento, il contesto risulta però ancora conservatore e sembra guidato da regole fisse, da idee difficili a morire. E giù con l’elenco di alcuni degli stereotipi/tabù sui rapporti d’amore, analizzati in altrettanti acribici paragrafi: credere che l’amore salvi la vita, credere che l’amore sia per sempre, credere che l’amore sia “fusione”, credere che esista una sola forma di rapporto, quello monogamico, credere che sesso e amore coincidano, credere che l’amore sia ordine, certezza e armonia; solo per citarne alcuni.
Un libro che di consolatorio ha poco, dunque, un libro sul disincanto nelle relazioni che il tempo spegne senza che sia ben visibile una qualche causa razionale. Ma è un libro fresco e intelligente sulla sperequazione, spesso ai limiti del gap, esistente tra strutture ancestrali e imperiture della psiche umana e, invece, la mutevolezza dei paradigmi sociali e relazionali che il tempo presente inchioda a una cornice di assoluta mancanza di definizioni.



TELFENER, U.
Le forme dell’addio
Roma, Castelvecchi, 2007, pp. 319, € 16.00

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