brocca diritta, riflesso del vuoto,
sterile vetro capace di farsi passare
attraverso, dal bel manico abile
a farsi prendere rompere intendere.
brocca balocco di liquida luce
squadrata torre il mattino col suo
lato d'ombra come un pensiero,
col suo tetto ansioso di vino
o di te. oppure di pioggia che lavi
l'arsura. brocca baldracca,
immutabile, zitta, inscalabile vetta,
ardua disfatta, trasparente miraggio
del bere,inconsolabile, acuminata
promessa dell'essere appena
un pò più vicini ad un dio
Pontica verba, 2008, 64 p. di Nono Memè
Editore Altrimedia
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domenica 24 maggio 2009
martedì 21 aprile 2009
VERNE, LA LETTONIA E TANTO ALTRO ANCORA (Altrimedia). Recensione di Silla Hicks
I ragazzini di oggi guardano il grande fratello, non leggono Verne, ammesso che Verne sia uno scrittore da ragazzi. E quasi nessuno sa più cosa diavolo sia stato l’affare Dreyfuss. Intanto, perché sono passati cent’anni. Poi, perché la polvere è meglio metterla sotto il tappeto e scordarsene, con buona pace del nastro della storia, che si riavvolge intanto sempre uguale. Peccato, peccato tutt’e due le cose. Intanto, perché Verne è uno scrittore, uno di quelli veri, con l’X factor, direbbe qualcuno, uno che ha il dono di raccontare e perderti dentro al racconto, e tu leggi e sei lì, che corri nella neve, e senti l’ululato dei lupi e l’adrenalina contrarti le viscere, sei lì, nel mulino, e tendi i muscoli e gli orecchi al passo del mugnaio, pronto a uccidere, se necessario, perché non vuoi, ma forse dovrai farlo, come hai fatto coi lupi, dovrai perché devi restare vivo.
Tu sei lì, e la storia ti insegue, sei lì sulla diligenza che ha un nome russo e strano, sei lì, quando si capovolge sul ghiaccio, e senti l’odore del freddo, e gli occhi di Ilka, perché l’amore è ovunque, anche e soprattutto laddove non ce ne sarebbe spazio, l’amore che aspetta anni, che fa giri immensi e poi ritorna indietro. Un libro è buono quando non ti riesce di chiuderlo finché non l’hai finito. Verne è così. Peccato. Peccato che tanti non ne abbiano letto nemmeno una riga. Peccato, che anche i libri siano soggetti alle mode, come i jeans. Pur non avendo gli strumenti per decodificarlo appieno, il dramma della Livonia/Lettonia resta un racconto che ti porta via, e si giustificherebbe appieno già per questo: come per tutte le storie raccontate bene, che si reggono sole, anche senza il senso che spesso si riesce a dar loro solo dopo, quando si è capaci di leggerle per quello che chi l’ha scritte cercava di dire. E in questo libro Verne cercava di parlare di ottusità nazionalista, di cecità razziale, di quella che oggi va di moda chiamare intolleranza: cercava di raccontare – trasposta in una landa ghiacciata e tutta bianca – l’aula di tribunale in cui per dodici anni un ufficiale francese ebreo, Alfred Dreyfus, fu giudicato e poi ingiustamente condannato, vittima di un errore giudiziario intriso dell’antisemitismo del suo Paese profumato e moderno, una vie en rose di spine che non tollera(va) estranei. Non importa se davvero l’uomo Jules avesse cambiato idea, dando retta la figlio e schierandosi infine tra i sostenitori di Dreyfus capeggiati da Zola, oppure no :quello che conta, per Verne, che gli fa scrivere questo libro, è la riflessione sull’errore giudiziario montato ad arte, sobillato dal rancore verso il diverso, lievitato dai mass media che nutrono il colpevolismo nell’opinione pubblica che cerca sempre il (un?) colpevole. Così, anche la vicenda in sé non conta più, l’innocenza e la colpevolezza non contano più, e diventa tutto uno scontro tra fazioni e razze e partiti e ceti sociali, il panslavismo contro il pangermanesimo, ariani contro ebrei, guerra di religione e di etnia e di colore di pelle occhi e capelli, di lingua e canzoni, e chi vincerà sarà il più forte. Punto. Dreyfus è solo il pretesto, Dimitri Nicolef è solo il pretesto, la storia è più grande, gli interessi in gioco più grandi, i protagonisti solo pedine su una scacchiera ghiacciata, infinita, su cui qualcuno di invisibile e potente sta giocando, e qualsiasi mossa è lecita, pur di arrivare a dare scacco matto. Come il Vietnam, come l’Iraq. Come i processi mediatici e Cogne, come tanto di quello che succede ancora, parafrasi della vita e del mondo in quel momento e nell’eterno, castelli in cui tutti siamo K destinati a smarrirsi, in cui niente è come appare, come vorrebbero farcelo vedere. Russificazione, germanizzazione: parole impolverate dalla storia, certamente, ma che mutatis mutandis non cambiano, resistono, alle cadute dei regimi e delle ideologie e degli imperi, perché c’è sempre qualcuno che paga perché è dalla parte sbagliata, un nero, un portoricano, il colpevole ideale per l’omicidio di un mite commesso di banca, del paradigma dell’operosità borghese, della vita tranquilla sognata dagli angeli, il matrimonio e un posto sicuro.
Più comodo pensare che ci siano loro, là fuori, con le loro zanne e i loro artigli, loro, i diversi, con gli occhi azzurri se i nostri sono neri e neri se i nostri sono azzurri, circoscrivere l’orrore all’altrove, piuttosto che ammettere che Erika ed Omar sono bei ragazzi ben pasciuti e amati, potenziali figli di tutti.
Verne grida l’urgenza della libertà, dei magistrati e delle repubbliche baltiche assieme: è un bel libro, ma non è un libro facile, che lascia la coscienza e i sonni tranquilli: con il miracolo che solo la letteratura può fare tiene per la mano Sciascia e Kafka, resta sullo stomaco e nella mente: quanto poco è cambiato il mondo in cent’anni, quanto poco, forse, potrà cambiare, ancora.
Non ci crede, Jules, che ha viaggiato sulla mongolfiera e creduto nella scienza e nei suoi mondi che sembrano matrioske, uno dentro l’altro, ventimila leghe sotto i mari e su nell’alto, oltre il cielo.
Non ci crede, che bastino i cavalli a vapore a spazzare la nebbia che ci impedisce di vedere attraverso, il pregiudizio, sì, ma anche i nostri piccoli interessi guicciardini, che alla fine, poi, sono alla base dei panismi più grandi. E non ci credi nemmeno tu, quando il libro l’hai finito: ma sai qualcos’altro, adesso, qualcosa che non volevi sapere, che dirada la cortina spessa, confortevole e calda che t’hanno costruito attorno. E questo basta, a farti fare domande.
Le risposte, non puoi trovarle in un libro, ma questa è un’altra storia.
I ragazzini di oggi non leggono Verne, guardano il grande fratello. Loro non se le fanno, le domande.
Vorrei dire che prima o poi succederà.
Vorrei. Come vorrei salire, per una volta, su una mongolfiera.
(UN DRAMMA IN LIVONIA di Jules Verne, a cura di Giuseppe Panella e Massimo Sestili, 2008, I narratori, Altrimedia Edizioni, Matera)
Tu sei lì, e la storia ti insegue, sei lì sulla diligenza che ha un nome russo e strano, sei lì, quando si capovolge sul ghiaccio, e senti l’odore del freddo, e gli occhi di Ilka, perché l’amore è ovunque, anche e soprattutto laddove non ce ne sarebbe spazio, l’amore che aspetta anni, che fa giri immensi e poi ritorna indietro. Un libro è buono quando non ti riesce di chiuderlo finché non l’hai finito. Verne è così. Peccato. Peccato che tanti non ne abbiano letto nemmeno una riga. Peccato, che anche i libri siano soggetti alle mode, come i jeans. Pur non avendo gli strumenti per decodificarlo appieno, il dramma della Livonia/Lettonia resta un racconto che ti porta via, e si giustificherebbe appieno già per questo: come per tutte le storie raccontate bene, che si reggono sole, anche senza il senso che spesso si riesce a dar loro solo dopo, quando si è capaci di leggerle per quello che chi l’ha scritte cercava di dire. E in questo libro Verne cercava di parlare di ottusità nazionalista, di cecità razziale, di quella che oggi va di moda chiamare intolleranza: cercava di raccontare – trasposta in una landa ghiacciata e tutta bianca – l’aula di tribunale in cui per dodici anni un ufficiale francese ebreo, Alfred Dreyfus, fu giudicato e poi ingiustamente condannato, vittima di un errore giudiziario intriso dell’antisemitismo del suo Paese profumato e moderno, una vie en rose di spine che non tollera(va) estranei. Non importa se davvero l’uomo Jules avesse cambiato idea, dando retta la figlio e schierandosi infine tra i sostenitori di Dreyfus capeggiati da Zola, oppure no :quello che conta, per Verne, che gli fa scrivere questo libro, è la riflessione sull’errore giudiziario montato ad arte, sobillato dal rancore verso il diverso, lievitato dai mass media che nutrono il colpevolismo nell’opinione pubblica che cerca sempre il (un?) colpevole. Così, anche la vicenda in sé non conta più, l’innocenza e la colpevolezza non contano più, e diventa tutto uno scontro tra fazioni e razze e partiti e ceti sociali, il panslavismo contro il pangermanesimo, ariani contro ebrei, guerra di religione e di etnia e di colore di pelle occhi e capelli, di lingua e canzoni, e chi vincerà sarà il più forte. Punto. Dreyfus è solo il pretesto, Dimitri Nicolef è solo il pretesto, la storia è più grande, gli interessi in gioco più grandi, i protagonisti solo pedine su una scacchiera ghiacciata, infinita, su cui qualcuno di invisibile e potente sta giocando, e qualsiasi mossa è lecita, pur di arrivare a dare scacco matto. Come il Vietnam, come l’Iraq. Come i processi mediatici e Cogne, come tanto di quello che succede ancora, parafrasi della vita e del mondo in quel momento e nell’eterno, castelli in cui tutti siamo K destinati a smarrirsi, in cui niente è come appare, come vorrebbero farcelo vedere. Russificazione, germanizzazione: parole impolverate dalla storia, certamente, ma che mutatis mutandis non cambiano, resistono, alle cadute dei regimi e delle ideologie e degli imperi, perché c’è sempre qualcuno che paga perché è dalla parte sbagliata, un nero, un portoricano, il colpevole ideale per l’omicidio di un mite commesso di banca, del paradigma dell’operosità borghese, della vita tranquilla sognata dagli angeli, il matrimonio e un posto sicuro.
Più comodo pensare che ci siano loro, là fuori, con le loro zanne e i loro artigli, loro, i diversi, con gli occhi azzurri se i nostri sono neri e neri se i nostri sono azzurri, circoscrivere l’orrore all’altrove, piuttosto che ammettere che Erika ed Omar sono bei ragazzi ben pasciuti e amati, potenziali figli di tutti.
Verne grida l’urgenza della libertà, dei magistrati e delle repubbliche baltiche assieme: è un bel libro, ma non è un libro facile, che lascia la coscienza e i sonni tranquilli: con il miracolo che solo la letteratura può fare tiene per la mano Sciascia e Kafka, resta sullo stomaco e nella mente: quanto poco è cambiato il mondo in cent’anni, quanto poco, forse, potrà cambiare, ancora.
Non ci crede, Jules, che ha viaggiato sulla mongolfiera e creduto nella scienza e nei suoi mondi che sembrano matrioske, uno dentro l’altro, ventimila leghe sotto i mari e su nell’alto, oltre il cielo.
Non ci crede, che bastino i cavalli a vapore a spazzare la nebbia che ci impedisce di vedere attraverso, il pregiudizio, sì, ma anche i nostri piccoli interessi guicciardini, che alla fine, poi, sono alla base dei panismi più grandi. E non ci credi nemmeno tu, quando il libro l’hai finito: ma sai qualcos’altro, adesso, qualcosa che non volevi sapere, che dirada la cortina spessa, confortevole e calda che t’hanno costruito attorno. E questo basta, a farti fare domande.
Le risposte, non puoi trovarle in un libro, ma questa è un’altra storia.
I ragazzini di oggi non leggono Verne, guardano il grande fratello. Loro non se le fanno, le domande.
Vorrei dire che prima o poi succederà.
Vorrei. Come vorrei salire, per una volta, su una mongolfiera.
(UN DRAMMA IN LIVONIA di Jules Verne, a cura di Giuseppe Panella e Massimo Sestili, 2008, I narratori, Altrimedia Edizioni, Matera)
martedì 14 aprile 2009
E IO ASPETTO..LE CRONACHE DI IRENE. Silla Hicks su Irene Càrastro Mosino, Cronache semiserie di città (Altrimedia)
È difficile scrivere. Scrivere qualcosa di buono, intendo, qualcosa che ti inchiodi per una, dieci, mille pagine, che ti guardi coi suoi occhi spalancati anche dopo che il libro l’hai chiuso.
Non basta un diploma o una laurea e nemmeno il ricordo di quello che hai visto.
Non so cosa serva.
Perché sono un camionista, io. E non dimentico di esserlo. Anche quando racconto le storie che vedo.
E così mi dispiace, signora Maestra: mi dispiace due volte, ma io, alunno che da Lei avrei preso massimo un cinque, io, che non sono istruito né chic né perbene – uso le Sue parole: ne riconosce il suono? S’accorge di quanto è aspro, senza appello? - Io, che se fossi nato tremila chilometri a Sud avrei, come la signora Paglisi, raccolto le olive nella Piana, la boccio, e le spiego anche il perché.
La boccio, perché boccio il Suo stare in cattedra, la Sua sensibilità piccolo borghese, il Suo gusto per un periodare paratattico piuttosto scarno, e non per la paratassi in sé, ché Le assicuro che un pakistanino d’Inghilterra, certo Hanif Kureishi, ne ha fatto un gioco pirotecnico da abbagliare persino un mondo in cui il sole c’è solo a mezzanotte.
La boccio, perché se è vero che critica viene dal greco e significa giudizio, a Lei, a dispetto del titolo che ha scelto, manca l’ingrediente base per una critica che non sia rifiuto e basta: l’ironia.
Lei non sorride, ma addita: Lei, che ama parole come “volgare”, o “saggio”, non riesce a capire che Cesarino – davanti cui “piange”, e prega, è da credere – avrebbe bisogno di un abbraccio, e non di una Resurrezione: a quella, semmai, penserà chi è ben più in alto: ma un abbraccio Lei è lì, e può darglielo. Io, camionista che non ha finito le superiori, direi persino “deve”.
Ma invece no, Lei guarda e basta, e guarda con distacco, signora Maestra: la Sua pietà resta sospesa a mezz’aria, resta distinta, c’è un io, e un voi.
Lei che di notte è confortata nel buio dal fracasso dei vicini che rientrano, non sa fare una carezza a un cane né a un ragazzino smarrito e metterà anche voti a tutti, ma non lascia il segno che i maestri lasciano, talvolta mettendo da parte ruolo e “princìpi” per scaldare le parole, e il cuore di qualcuno.
Perché per farlo- per insegnare, ma anche per scrivere - bisogna dimenticare tutto e perdersi, sa: perdersi nel fango se si parla di fango, e impiastricciarsi di nuvola se si parla di cielo.
Bisogna guardare per ore un taglio sul dorso di una mano, e immaginare un gatto che la graffia stanco di giocare, sentirne il calore della pelliccia, e ascoltarne le fusa: chiuda gli occhi, e immagini. No, niente “kissi, kissi”, stavolta. La prego, si fermi. Ascolti.
Ascolti la solitudine dell’uomo con la mano graffiata, e non si chieda se la merita o no.
Pensi solo che è umano: fatto della stessa sostanza fragile e imperfetta e immensa di cui è fatta lei.
Tenda le dita, lo tocchi. Lo stringa. Senta il suo dolore attraversarla come corrente elettrica, e pianga per davvero, con il trucco che le scioglie sulla faccia grinza come sulle faccette acerbe delle ragazzine che ci si impiastricciano per nascondersi, alcune delle quali - per Lei – resteranno per sempre volgari, perché non sa coglierne la devastante bellezza.
Forse non lo sa, signora Maestra, ma è stata proprio una di loro a scrivere quelle che credo siano le cronache cittadine più riuscite, intense e vere, piene insieme di ironia e di dolcezza, del sole dell’Indocina e delle brume di Parigi: una ragazzina esile, imbrattata di trucco pesante, che andava al liceo indossando un paio di vecchie scarpe da sera ricamate di strass, una ragazzina francese che Lei avrebbe detto “volgare”, che andava a letto con un cinese vent’anni almeno più vecchio di lei e si chiamava Margherite, Margherite Duras.
Legga, la prego, le sue Storie d’amore estremo, e veda come si può davvero raccontare gli “ultimi” come recita la sua quarta di copertina, stando in mezzo a loro e insieme elevandoli sul mondo.
Un primo passo, può essere non chiamarli più ultimi, ma solo persone. Provi a farlo, signora Maestra.
Poi, se vuole, scriva ancora.
Tenendo il cuore e la penna in mano, seminando tra gli inevitabili errori quelle parole giuste che arriveranno dritte in mezzo agli occhi di qualcuno, come un proiettile, a tradimento, e dalla ferita che ci apriranno faranno sgorgare a fiotti pezzetti di sé che rotolandole giù, sulla faccia, le graffieranno gli occhi a sangue, in modo assoluto, indecente, al di là di quello che è giusto o no, al di là di quello che è opportuno o no, per un tempo ben più lungo di un centinaio di pagine.
Smetta di commemorare un mondo di sane e buone piccole cose, edulcorate dal ricordo come gli amori finiti quando passano gli anni e ci si scorda quanto ci hanno fatto piangere: perché Lei lo sa, in fondo, che è questo che le fa rimpiangere le sue canzoni: il fatto che non siano, che non possano più fare male.
E non mi parli di Gozzano, adesso: le sue piccole cose erano di pessimo gusto, ricorda? Come attraverso gli occhi azzurri della servetta quindicenne, Guido stava alla finestra di un mondo quanto mai reale, incapace di starci dentro, ma desiderandolo così forte – così dolorosamente - da entrarci per davvero.
Si guardi intorno. Guardi il mondo, com’è. O lo immagini, anche. Ma standoci in mezzo, sentendolo nelle viscere, e pazienza se non è perfetto, perché è questo, Le confido, il bello dell’essere umano.
Faccia quello che crede, ma esca, vada ai “giardinetti”, se vuole, e pazienza se qualcuno ci ha portato a spasso il cane, pazienza se si sporcherà le scarpe, respiri la terra, lo smog, il sudore del mondo.
Non commiseri, non giudichi. Soltanto, sia. Sia quello che vuole raccontare.
Si faccia male. Lasci da parte il Suo doppio cognome, e non perché è per sé ostacolo: lo è per Lei, che ne ha fatto una barriera. Vada in giro scalza e nuda per il mondo.
Né Maestra, né allieva: solo, umana.
Collezionando sguardi e storie dentro a bustine di Minerva, mettendo insieme un Diario minimo di immagini che siano frammenti di vita, preghiera, non buone abitudini, come ogni messa dovrebbe essere, perdono. Per sé e il mondo insieme.
Non so dirle se basterà, per farne un libro.
Non so dirle cosa ci voglia, né se si possa imparare.
Ma almeno il mondo, la gente, i cani e i gatti e la città con il suo traffico e le sue moto e i suoi autobus le scorrerà sotto pelle, e un bel momento finalmente si accorgerà di esserne parte.
E allora, finalmente, non sarà più Maestra, ma solo Irene.
Un nome bellissimo, antico, di occhi neri che ballano il sirtaki sensuale di Zorba, di sole che acceca e piane infinite di aranci.
Si siederà sotto uno di essi, Irene, anzi: ti siederai.
E, piangendo – ferita, le vesti stracciate, il trucco sciolto – racconterai le tue cronache.
Mentre tutti staranno fermi e zitti, ad ascoltare.
(Irene Càrastro Mosino, Cronache semiserie di città, I Narratori, Altrimedia Edizioni, Matera, 2009)
Non basta un diploma o una laurea e nemmeno il ricordo di quello che hai visto.
Non so cosa serva.
Perché sono un camionista, io. E non dimentico di esserlo. Anche quando racconto le storie che vedo.
E così mi dispiace, signora Maestra: mi dispiace due volte, ma io, alunno che da Lei avrei preso massimo un cinque, io, che non sono istruito né chic né perbene – uso le Sue parole: ne riconosce il suono? S’accorge di quanto è aspro, senza appello? - Io, che se fossi nato tremila chilometri a Sud avrei, come la signora Paglisi, raccolto le olive nella Piana, la boccio, e le spiego anche il perché.
La boccio, perché boccio il Suo stare in cattedra, la Sua sensibilità piccolo borghese, il Suo gusto per un periodare paratattico piuttosto scarno, e non per la paratassi in sé, ché Le assicuro che un pakistanino d’Inghilterra, certo Hanif Kureishi, ne ha fatto un gioco pirotecnico da abbagliare persino un mondo in cui il sole c’è solo a mezzanotte.
La boccio, perché se è vero che critica viene dal greco e significa giudizio, a Lei, a dispetto del titolo che ha scelto, manca l’ingrediente base per una critica che non sia rifiuto e basta: l’ironia.
Lei non sorride, ma addita: Lei, che ama parole come “volgare”, o “saggio”, non riesce a capire che Cesarino – davanti cui “piange”, e prega, è da credere – avrebbe bisogno di un abbraccio, e non di una Resurrezione: a quella, semmai, penserà chi è ben più in alto: ma un abbraccio Lei è lì, e può darglielo. Io, camionista che non ha finito le superiori, direi persino “deve”.
Ma invece no, Lei guarda e basta, e guarda con distacco, signora Maestra: la Sua pietà resta sospesa a mezz’aria, resta distinta, c’è un io, e un voi.
Lei che di notte è confortata nel buio dal fracasso dei vicini che rientrano, non sa fare una carezza a un cane né a un ragazzino smarrito e metterà anche voti a tutti, ma non lascia il segno che i maestri lasciano, talvolta mettendo da parte ruolo e “princìpi” per scaldare le parole, e il cuore di qualcuno.
Perché per farlo- per insegnare, ma anche per scrivere - bisogna dimenticare tutto e perdersi, sa: perdersi nel fango se si parla di fango, e impiastricciarsi di nuvola se si parla di cielo.
Bisogna guardare per ore un taglio sul dorso di una mano, e immaginare un gatto che la graffia stanco di giocare, sentirne il calore della pelliccia, e ascoltarne le fusa: chiuda gli occhi, e immagini. No, niente “kissi, kissi”, stavolta. La prego, si fermi. Ascolti.
Ascolti la solitudine dell’uomo con la mano graffiata, e non si chieda se la merita o no.
Pensi solo che è umano: fatto della stessa sostanza fragile e imperfetta e immensa di cui è fatta lei.
Tenda le dita, lo tocchi. Lo stringa. Senta il suo dolore attraversarla come corrente elettrica, e pianga per davvero, con il trucco che le scioglie sulla faccia grinza come sulle faccette acerbe delle ragazzine che ci si impiastricciano per nascondersi, alcune delle quali - per Lei – resteranno per sempre volgari, perché non sa coglierne la devastante bellezza.
Forse non lo sa, signora Maestra, ma è stata proprio una di loro a scrivere quelle che credo siano le cronache cittadine più riuscite, intense e vere, piene insieme di ironia e di dolcezza, del sole dell’Indocina e delle brume di Parigi: una ragazzina esile, imbrattata di trucco pesante, che andava al liceo indossando un paio di vecchie scarpe da sera ricamate di strass, una ragazzina francese che Lei avrebbe detto “volgare”, che andava a letto con un cinese vent’anni almeno più vecchio di lei e si chiamava Margherite, Margherite Duras.
Legga, la prego, le sue Storie d’amore estremo, e veda come si può davvero raccontare gli “ultimi” come recita la sua quarta di copertina, stando in mezzo a loro e insieme elevandoli sul mondo.
Un primo passo, può essere non chiamarli più ultimi, ma solo persone. Provi a farlo, signora Maestra.
Poi, se vuole, scriva ancora.
Tenendo il cuore e la penna in mano, seminando tra gli inevitabili errori quelle parole giuste che arriveranno dritte in mezzo agli occhi di qualcuno, come un proiettile, a tradimento, e dalla ferita che ci apriranno faranno sgorgare a fiotti pezzetti di sé che rotolandole giù, sulla faccia, le graffieranno gli occhi a sangue, in modo assoluto, indecente, al di là di quello che è giusto o no, al di là di quello che è opportuno o no, per un tempo ben più lungo di un centinaio di pagine.
Smetta di commemorare un mondo di sane e buone piccole cose, edulcorate dal ricordo come gli amori finiti quando passano gli anni e ci si scorda quanto ci hanno fatto piangere: perché Lei lo sa, in fondo, che è questo che le fa rimpiangere le sue canzoni: il fatto che non siano, che non possano più fare male.
E non mi parli di Gozzano, adesso: le sue piccole cose erano di pessimo gusto, ricorda? Come attraverso gli occhi azzurri della servetta quindicenne, Guido stava alla finestra di un mondo quanto mai reale, incapace di starci dentro, ma desiderandolo così forte – così dolorosamente - da entrarci per davvero.
Si guardi intorno. Guardi il mondo, com’è. O lo immagini, anche. Ma standoci in mezzo, sentendolo nelle viscere, e pazienza se non è perfetto, perché è questo, Le confido, il bello dell’essere umano.
Faccia quello che crede, ma esca, vada ai “giardinetti”, se vuole, e pazienza se qualcuno ci ha portato a spasso il cane, pazienza se si sporcherà le scarpe, respiri la terra, lo smog, il sudore del mondo.
Non commiseri, non giudichi. Soltanto, sia. Sia quello che vuole raccontare.
Si faccia male. Lasci da parte il Suo doppio cognome, e non perché è per sé ostacolo: lo è per Lei, che ne ha fatto una barriera. Vada in giro scalza e nuda per il mondo.
Né Maestra, né allieva: solo, umana.
Collezionando sguardi e storie dentro a bustine di Minerva, mettendo insieme un Diario minimo di immagini che siano frammenti di vita, preghiera, non buone abitudini, come ogni messa dovrebbe essere, perdono. Per sé e il mondo insieme.
Non so dirle se basterà, per farne un libro.
Non so dirle cosa ci voglia, né se si possa imparare.
Ma almeno il mondo, la gente, i cani e i gatti e la città con il suo traffico e le sue moto e i suoi autobus le scorrerà sotto pelle, e un bel momento finalmente si accorgerà di esserne parte.
E allora, finalmente, non sarà più Maestra, ma solo Irene.
Un nome bellissimo, antico, di occhi neri che ballano il sirtaki sensuale di Zorba, di sole che acceca e piane infinite di aranci.
Si siederà sotto uno di essi, Irene, anzi: ti siederai.
E, piangendo – ferita, le vesti stracciate, il trucco sciolto – racconterai le tue cronache.
Mentre tutti staranno fermi e zitti, ad ascoltare.
(Irene Càrastro Mosino, Cronache semiserie di città, I Narratori, Altrimedia Edizioni, Matera, 2009)
lunedì 30 marzo 2009
Inversi sentieri di Dino Lorusso (Altrimedia edizioni, 2009)
A Massimo, postino del poeta
In un cielo triste di settembre
Il volto abbronzato di fatica
Di un figlio d’ignoranti pescatori
Rivedo, con le lacrime in coda
E malinconiche vicende
Che riempiono il cuore di poesia
Rivivono per ravvivare il ricordo.
Termina la scena in bianco e nero
Tra le parole sbattute
Su una barca di infinita tenerezza
Grazie, per le metafore ingenue
Dino Lorusso, Inversi Sentieri, Altrimedia edizioni, pp. 64 euro 8,00
Ogni poesia di Dino Lorusso, sa raccogliere colori, odori, umori, amori, in un modo che il suo vissuto diventi tracciato biografico di un sentire universale, e la Poesia può trovare allocativamente la sua dimora in maniera consona. Maggiormente egli predilige la prosa poetica, e il suo modo per versi mai ridondante, quanto piuttosto misurato, e comunque elegante, parla di oggetti, eventi, sensazioni, dove il narrare stesso è ricerca di verità, di continui resoconti del proprio vissuto, per poi divenire pausa e silenzio, trampolino di slanci per gettarsi nel mondo, viverlo, gustarlo, e farlo diventare combustibile per un rogo dove il cattivo gusto dell’odierno mondo d’oggi lascia il posto alla cenere dell’oblio.
In un cielo triste di settembre
Il volto abbronzato di fatica
Di un figlio d’ignoranti pescatori
Rivedo, con le lacrime in coda
E malinconiche vicende
Che riempiono il cuore di poesia
Rivivono per ravvivare il ricordo.
Termina la scena in bianco e nero
Tra le parole sbattute
Su una barca di infinita tenerezza
Grazie, per le metafore ingenue
Dino Lorusso, Inversi Sentieri, Altrimedia edizioni, pp. 64 euro 8,00
Ogni poesia di Dino Lorusso, sa raccogliere colori, odori, umori, amori, in un modo che il suo vissuto diventi tracciato biografico di un sentire universale, e la Poesia può trovare allocativamente la sua dimora in maniera consona. Maggiormente egli predilige la prosa poetica, e il suo modo per versi mai ridondante, quanto piuttosto misurato, e comunque elegante, parla di oggetti, eventi, sensazioni, dove il narrare stesso è ricerca di verità, di continui resoconti del proprio vissuto, per poi divenire pausa e silenzio, trampolino di slanci per gettarsi nel mondo, viverlo, gustarlo, e farlo diventare combustibile per un rogo dove il cattivo gusto dell’odierno mondo d’oggi lascia il posto alla cenere dell’oblio.
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